lunedì 24 agosto, ore 17

L'UOMO INNOVATORE

partecipano:

Jean Chavillon

docente di Archeologia e Preistoria presso l'università di Parigi, direttore di ricerca presso il

Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica

Josef Tischner

docente di Filosofia dell'uomo presso l'accademia Teologica di Cracovia, condirettore

dell'Istituto per le Scienze dell'uomo di Vienna

Conduce l’incontro:

Rocco Buttiglione

Dall'evo paleolitico fino alla storia contemporanea l'uomo non ha mai smesso di immaginare e di innovare ... Ma com’è possibile il miracolo di un cambiamento? Ed è possibile generare il bene nel cuore dell'altro uomo?

J. Chavillon

E’ un grandissimo onore per me, e anche un enorme piacere, ritrovarmi oggi tra di voi, qui a Rimini. Non solo per partecipare alle attività culturali del Meeting 87, ma anche per parlarvi ora di un tema che mi è caro. L'emergenza, l'arrivo dell'uomo. Le prime manifestazioni tecniche, sociali, economiche, ma anche religiose e artisti- che, sono dovute al carattere innovatone dell'uomo paleolitico. Partendo da riscontri concreti-utensili di pietra, ossa, organizzazioni di accampamenti, oggetti - lo studioso della preistoria cerca di far sorgere qualche immagine della vita dell'uomo paleolitico. E se lo specialista della preistoria deve appellarsi all'ipotesi, egli deve anche non smarrire mai la via maestra dei fatti concreti. Ciò non di meno l'ipotesi, come scriveva Pierre Teilhard de Chardin, certamente non è un accessorio, un gingillo della scienza, ma è l'anima, lo scopo e la vera consistenza del costrutto scientifico, mutevole, fragile, però progressivo come la vita. Per capire meglio quest’avvenimento considerevole dell'apparizione dei primi strumenti, dei primi accampamenti e delle prime attività culturali, forse dovrei ricordare, per coloro di voi che se ne ricordano poco, la lunga durata dei tempi dell'evo paleolitico, che per la nostra epoca appare una cosa spesso difficilissima da capire. Si è risaliti all'origine della vita e i primi primati appaiono all'orizzonte di 70 milioni d’anni fa. I primi ominidi, di cui fa parte il genere homo, cioè noi, appaiono 15 milioni d’anni fa. Il primo uomo, tipo uomo, homo, appare da tre a quattro milioni d’anni fa. Il primo utensile è stato fabbricato circa due milioni e mezzo d’anni fa. Il primo accampamento organizzato, circa un milione e 700 mila anni fa. Una scoperta economica essenziale, cioè la scoperta del fuoco, il fuoco addomesticato, circa 500 mila anni fa. Le prime tombe scoperte circa 60 mila anni fa. Le prime tracce di un'arte rupestre, 35 mila anni fa. E infine, in questa sequenza, le prime tracce di villaggi, tracce dell'agricoltura vera e propria, soltanto 10 mila anni fa. Questo sta a significare la durata, la lentezza di quest’evoluzione tecnica e sociale allo stesso tempo. Le prime testimonianze della presenza dell'essere umano sono innegabilmente oggetti di pietra, oggetti di pietra fabbricati e anche utilizzati. Li si ritrova spesso associati a rimasugli d’ossa che sovente sono ciò che rimane dei pasti dell'epoca e della cucina dell'epoca. Ma non bisogna nemmeno esagerare nell'importanza dell'utensile di pietra o di selce che appare oggi come l'ultimo rimasuglio di questi evi lontani. Ciò è dovuto semplicemente al fatto che l'utensile di pietra si conserva mentre gli oggetti di legno che, forse, sono prece- denti l'utensile di pietra, sono scomparsi. Gli oggetti di pelle sono scomparsi. Quindi le strutture d’abitazione eccezionalmente solide sono state trasmesse fino a noi, ci sono arrivate. Ed è quindi partendo da questi scavi concreti e da ciò che si ritrova oggi, che si può ricostruire come un mosaico la vita dell'uomo paleolitico. Per capire meglio la differenza che esiste tra l'uomo paleolitico e gli altri primati, forse non è inutile esaminare ciò che fa lo scimpanzé oggi nella foresta. Non parlo di utensili come la paglia per catturare le termiti, ma ciò che fanno in Africa, in Costa d'Avo- rio gli scimpanzé, che utilizzano una pietra sulla quale appoggiano una noce di cola e che rompono con un altro sasso, una specie di martello, di percussore. La ripetizione di questo movimento di incudine e di martello costituisce per loro l'atto più evoluto e certamente più intellettuale. Nel Kenya, si è scoperto un giacimento risalente a 15 milioni di anni, nel quale si è trovato un utensile di pietra identico a quello che usano ancora oggi gli scimpanzé. C'erano frammenti di ossa spezzate e si è immaginato, certamente con ragione, che quest’utensile fosse servito a rompere le ossa. Però bisogna essere ben consci che la scimmia attuale è al livello del Keniapiteco e ha quindi 15 milioni di anni di ritardo. In realtà le prime testimonianze che ci consentono di considerare l'uomo quale artigiano sono gli utensili di pietra che si sono ritrovati in Africa Orientale, in Etiopia, e principalmente nella valle del fiume Orno, alla frontiera tra il Kenya e il Sudan. Siamo a due milioni e 300 mila anni fa. Sono utensili estremamente primitivi, semplici frammenti, schegge, schegge che sono state staccate, forse per fortuna - volontariamente per altri, e ne abbiamo la prova - e che segnano la prima testimonianze di un'operazione che era ripetitiva e non era più dovuta al caso. Gli accampamenti dove abbiamo ritrovato questi utensili sono soltanto degli accampamenti di cacciatori, degli avamposti dei cacciatori, pratica- mente come oggi esistono gli accampamenti di caccia delle scimmie. Circa da due milioni di anni fa a un milione e 700 mila anni fa, sempre in Africa Orientale, in Tanzania e in Etiopia, abbiamo ritrovato dei terreni, degli accampamenti veri e propri, con numerosi strumenti, utensili di pietra, di un tipo diverso questa volta. Certi sono ripetitivi, ciò che sta ad indicare una catena operativa complessa. E forse non siamo sempre coscienti di ciò che rappresenta per noi una catena operativa, mentre bisogna ricordarsi che la scimmia odierna non ha questa idea di ripetitività e di insegnamento della tecnologia. Questa catena operativa sta ad indicare innegabilmente uno sviluppo cerebrale, quindi l'irrompere dell'uomo nei confronti di tutti gli animali che gli vivevano attorno. Ciò presupponeva da un lato avere in mano la materia prima, ma anche aver la padronanza del progetto che prefigurava l'utensile; ciò significava anche che aveva la possibilità di riprodurre, quando lo voleva, tale o talaltro utensile. Circa un milione di anni fa c'è una svolta nell'utensileria per così dire, si comincia a utilizzare, a ritoccare questi utensili in modo simmetrico e questo fare appello alla simmetria costituisce un’innovazione: questa simmetria rende il taglio di questi utensili più efficace. Questi utensili hanno delle dimensioni, nonché un peso, piuttosto notevoli, sono pesanti, ingombranti. Bisogna aspettare quasi un milione di anni per vedere questi utensili di pietra pesanti, ingombranti, sostituiti dagli stessi oggetti, gli stessi utensili ma su un leggero supporto che è quello della scheggia o dei frammento tagliato. Questo è il paleolitico medio, è l'apparizione dell'industria. Non lo si ripeterà mai abbastanza, non è una rivoluzione la novità che rappresentano queste nuove tecnologie. Circa trentamila anni fa, quindi vicinissimo a noi, queste schegge che avevano una forma quadrata, rotonda, circolare insomma, cominciano ad allungarsi, a prendere una sagoma, le dimensioni si riducono ulteriormente e diventano delle vere e proprie lame che consentono usi più complessi, più variegati e più importanti. Tredicimila anni fa, alla fine dell'evo paleolitico, avviene un'operazione veramente nuova: mentre fino ad allora l'uomo aveva utilizzato l'utensile soltanto con uno scopo preciso, con o senza il manico a partire da quell'epoca l'uomo compone vari elementi che saranno assemblati per ottenere, ad esempio, una rigatura del legno o dell'osso, per ottenere degli utensili composti come una falce per cereali, e questa idea dell'utensile composito e assemblato è il lontano preludio alle macchine utensili del diciannovesimo secolo. La seconda grande innovazione, il secondo capitolo dell'innovazione dell'uomo, è certamente la vita di società. Anche qui riprendiamo l'esempio degli scimpanzé; gli scimpanzé vivono in gruppo: quindici, trenta individui. Sono nomadi, ma in modo lineare, cioè attraversano un territorio da un punto all'altro, cambiano regolarmente di sito ogni sera, attraversano sempre un territorio limitato ma in modo lineare. L'uomo al contrario, con un accampamento fisso, una base di lunga durata, ha un'attività di irraggiamento, cioè parte da un centro e torna probabilmente ogni sera, e questa attività di irraggiamento da un punto centrale comporta necessariamente varietà nei compiti e nelle attribuzioni dei compiti fra i vari individui. Ed è questa varietà che presuppone uno sviluppo cerebrale che in nessun momento lo scimpanzé ha posseduto. Gli accampamenti che ritroviamo sono di vari tipi: i primi sono fragili avamposti di caccia, simili a quelli che possiamo vedere oggi negli scimpanzé d'Africa. Si tratta di avamposti di una giornata, spesso distrutti dall'erosione. Un secondo tipo è il campo base, il campo familiare, quello di lunga durata (mi riferisco a qualche giornata o forse anche a una stagione, o anche a vari anni). In questi campi base, in questi accampamenti duraturi, vediamo varie attività. (...).

Accanto a queste attività focalizzare in un accampamento, man mano l'uomo ha saputo darsi e creare nuovi campi di attività fuori dall'accampamento. Quando andava a caccia dell'elefante o dell'ippopotamo, ad esempio, era difficile trasporta- re la preda all'accampamento; il gruppo quindi doveva spostarsi compatto e vivere, quindici giorni al massimo, su questa preda catturata. Gli attuali Pigmei praticano ancora questo tipo di caccia, e si ha la fortuna di ritrovare questi accampamenti molto provvisori, dove l'attività è focalizzata sul consumo di una preda di grandi dimensioni e gli utensili che si ritrovano sono per questo molto interessanti. Questi accampamenti li vediamo già un milione e mezzo di anni fa. Un altro campo di attività specialistica è là dove c'erano cave, cave di selce, di ossidiana, in Africa o in Etiopia a seconda dei siti, dove l'uomo aveva presto scoperto giacimenti ricchi di materia prima dura, che cercava di sfruttare al massimo.

Per quanto riguarda lo sviluppo economico, qui farò soltanto due esempi: primo - il fuoco, secondo - la prima sedentarizzazione all'epoca del neolitico. Il fuoco è una caratteristica tardiva. C'è innegabilmente uno iato di tempo fra il primo utensile, circa due milioni e mezzo di anni fa, come abbiamo detto, e il fuoco addomesticato cinquecentomila anni fa. Il fuoco è una scoperta essenzialmente umana. Uno scimpanzé o un altro animale può costruire un avamposto, un accampamento - sembra strano ma è vero - mentre produrre il fuoco, riprodurre il fuoco, solo l'uomo l'ha fatto. Oggi come oggi certi specialisti della preistoria hanno scoperto in Africa orientale tracce di fuoco che risalgono ad un milione e mezzo di anni fa. Queste tracce in realtà sono dell'argilla bruciata e i detrattori pensano che forse si tratti di fuochi della foresta, ma certamente non di un fuoco veramente addomesticato e riprodotto. Io sarei più sfumato, penso, infatti, che prima della creazione totale del fuoco ci siano state delle tappe intermedie, tappe per conoscere e non aver più paura dei fuoco, per addomesticare il fuoco, dopo di che effettivamente si è trattato di riprodurlo, come ben sappiamo, con i fuscelli e con i primi strumenti di selce, sfregando una selce contro un'altra. Ed è certo che tutto ciò presuppone uno sviluppo cerebrale molto più importante. Se il fuoco appare così tardi in questa sequenza temporale, si può anche pensare che per la società esso rappresentasse un compito nuovo; ad esempio, occorreva fare previsioni, ci volevano delle riserve di legno, di foglie, ci volevano delle persone per la manutenzione, quindi c'era un sovrappiù di lavoro, e tutto ciò all'inizio costituiva un'attività con vantaggi abbastanza limitati. Certo il fuoco costituiva una difesa, consentiva di tenere a distanza gli animali, gli stranieri, ma era anche un'arma, un'arma che consentiva di cacciare gli altri animali e di avere la meglio. Era, in Europa soprattutto, una facilitazione notevole per il calore nei periodi freddi e per illuminare. Solo successivamente il fuoco servì per la cottura dei vegetali. Parecchi specialisti ritengono probabile che l'alimentazione vegetale, non cotta, costringesse l'uomo ad avere una mandibola estremamente potente, forte, è il caso dell'homo erectus. Viceversa, lo sviluppo della cottura dei vegetali ha permesso una progressiva regressione della mandibola e la possibilità per l'uomo di avere una faccia che è quella che ci ritroviamo oggi. Alcuni pensano che questa possibilità, addirittura, abbia permesso l'espressione del linguaggio parlato e articolato come il nostro.

Vorrei trattare brevemente anche del neolitico. La prima tappa del neolitico è costituita dalla sedentarizzazione, prima dell'agricoltura e prima dell'allevamento di qualsiasi animale. Nel periodo neolitico quando un gruppo si è fissato, si è insediato in un villaggio, vi resta per un lungo periodo, più lungo degli insediamenti paleolitici che si trovano vicino ai fiumi e che probabilmente erano vittime delle inondazioni, mentre i villaggi del neolitico erano un po' più protetti dalle intemperie e dalle inondazioni dei fiumi. Le prima esperienze agricole appaiono diecimila anni fa. Ciò che è importante è che a partire da quella svolta, da quella data, l'uomo fa proprio lo spazio, cioè esso diventa un bene, diventa una proprietà: le terre, le coltivazioni, le greggi. La bestia apparteneva al cacciatore dal momento in cui l'aveva catturata, prima era di tutti, invece il gregge vivente è la propria sicurezza, è il bene. Per taluni l'agricoltura sarebbe nata da costrizioni economiche, anche ecologiche, cioè da uno stato di penuria. Uno specialista della preistoria ha potuto dimostrare in un sito del Medio Oriente che questa ipotesi non è vera: i primi raccolti vennero fatti in un luogo dove l'uomo già conosceva le graminacee selvatiche che raccoglieva e quindi è piuttosto un tentativo di riprodurre ciò che già conosceva piuttosto che ciò che mancava. E’ comunque certo che a partire dal momento in cui c'è stata la conoscenza dell'agricoltura, la conoscenza dell'allevamento, la società è balzata a un tutt'altro livello, e lì bisogna dire che veramente entriamo nella storia a pieno diritto. L'ultima tappa dell'uomo nella sua attività innovatrice è quella delle attività artistiche e religiose. Sessantamila anni fa l'uomo di Neanderthal, un Homo sapiens più arcaico rispetto a noi, seppelliva già i suoi morti in una grotta, nella Dordogna francese. Nel 1909 si scoprì la prima tomba di un individuo, ricoperta da pietre, che era stato seppellito con splendidi oggetti di selce ed ossa di vari animali. Più tardi nove altre tombe furono scoperte; in Iraq è stata scoperta una tomba con un morto che era stato ricoperto di fiori; abbiamo ritrovato il polline in quella tomba e quindi abbiamo potuto ricostruirlo. Sappiamo anche che è stato seppellito in primavera visto lo stato dei pollini. Al Monte Cireco, qui in Italia, un cranio era stato deposto su un piedistallo d'argilla in mezzo ad un cerchio di pietre disposte attorno. E’ certo che l'interpretazione rimane sempre difficile, ciò che si può dire è che sta ad indicare una credenza, quella in un ruolo del defunto oltre la morte, ruolo che rende necessaria la presenza di utensili, di cibo, di fiori, di animali. Tutto ciò costituisce un universo intellettuale vicino al nostro, segnato da una solidarietà, perché le tombe dei vecchi e dei bambini indicano una società dove l'individualismo e l'egoismo sono forse in parte superati. Inoltre testimonia di un legarne tra il morto ed il vivo. Per quanto riguarda l'arte, risalgono a circa trentamila anni fa statuette, oggetti utilitari decorati, raffigurazioni nelle grotte.

La grotta decorata non era soltanto un luogo magico dedicato alla caccia e alla riproduzione degli animali uccisi (che era necessario e propiziatorio per una società di cacciatori), ma un vero e proprio santuario. La ripetizione di queste stenografie da una grotta all'altra, da una parte all'altra, ricordano in una certa qual misura i capitelli scolpiti delle basiliche romaniche. In realtà la decorazione di queste grotte era organizzata fino al punto che il significato delle scene è comprensibile soltanto se si prende in considerazione l'insieme. In questo universo di animali, l'uomo e la donna sono raramente raffigurati, ma forse compaiono sotto le vesti di animali che sarebbero un po' i loro sosia, il cavallo e il bisonte. Cavallo e bisonte che sono anche simboli di vita e simboli di morte. Per concludere, vorrei dire che il passaggio dalla vita semplice del cacciatore, di quello che praticava la caccia e la raccolta nel paleolitico, fino a una vita più protetta dei villaggi neolitici con più gerarchia, costituisce certamente un miglioramento economico, una trasformazione sociale. L'uomo dei paleolitico era ancora molto vicino al passato, mentre gli altri sono più integrati. Ma, in una certa misura, forse questa è una visione del paradiso perduto. Dall'evo paleolitico fino alla nostra storia contemporanea l'uomo non ha mai smesso di immaginare e di innovare, con la speranza viva di migliorare sempre le regole e le condizioni della sua vita.

R. Buttiglione

Questo magnifico ritratto, esposto in un linguaggio così chiaro, ma con tanto rigore scientifico, ci mostra un essere umano che nella povertà dei suoi mezzi è tale fin dal principio e fin dal principio ha quel senso religioso, quella capacità di tra- scendere ciò che gli è immediatamente dato dalla realtà, quella capacità di approfondire il suo mistero di uomo e il mistero dell'essere che noi stessi oggi riconosciamo come centro della nostra vita. E questa idea così profonda e presentata con tale maestria è qualcosa che credo dovrebbe imprimersi profondamente nella coscienza di ciascuno di noi, perché, qui, la scienza cambia un modo di guardare la vita.

J. Tischner

"In principio Dio creò il cielo e la terra". La prima pagina della Bibbia ci mette di fronte al mistero della creazione. Colui che crea é Dio. Solo Dio può creare. Infatti, per poter creare, è necessaria una forza infinita. L'uomo non solo non è capace di creare dal nulla, ma non riesce neppure a immaginarselo. Quando pensa alla creazione, quando ne parla, si serve di immagini, di simboli, di metafore. Il linguaggio della metafora e del simbolo a dir la verità non rende pienamente il mistero della creazione, tuttavia può condurci alle sue soglie.

Abbiamo a disposizione le due principali metafore della creazione: una parla della creazione come un "dar forma", l'altra presenta la creazione come un "generare".

Il creare da parte dell'uomo è in qualche modo simile al "dar forma". Pensiamo ad un vasaio. Prende fra le mani l'argilla, la getta sulla ruota, la fa girare e dopo un po' dalle sue mani comincia a crescere un bellissimo vaso. Dio fa in un certo senso così. Dio dice: " Sia fatto! ", ed ecco il mondo. Ma c'è una differenza sostanziale: il vasaio ha bisogno dell'argilla come materia prima, Dio non ha bisogno di nessuna materia prima - Dio crea "dal nulla". Per accostarci al mistero della creazione, dobbiamo togliere l'argilla, togliere la ruota del vasaio, togliere le mani e lasciare la sola parola - parola senza labbra e senza suono, parola piena di una forza infinita. La forza infinita della parola di Dio fa sì che al posta di un "nulla" sconfinato e senza forma appaia l'essere. Può esserci un abisso più grande di quello che separa l'essere dal non essere? Ma nonostante questo la potenza di Dio supera quell'abisso.

La seconda metafora è la metafora del "generare". Punto di partenza qui non sono i rapporti che intercorrono fra l'uomo-artigiano e la materia-argilla, ma i rapporti fra uomo e uomo, fra padre, madre e figlio. L'uomo genera l'uomo. Non lo modella dall'argilla, non lo crea dal nulla. La generazione non è un evento di una sola volta, ma si dispiega per tutta la vita. Il Padre per tutta la vita porterà dentro di sé la sua paternità, la madre la sua maternità e il figlio la sua figliolanza, anche se i modi dei loro rapporti reciproci mutano con il passare del tempo. Che cosa significano la paternità del padre, la maternità della madre, l'essere figlio? Significano che colui che genera e colui che è generato portando in sé un bene. Parliamo di generazione laddove il creare è più una creazione del bene che non dell'essere. Generare vuol dire quindi: creare un bene. Non è possibile descrivere l'insorgere del bene nell'anima dell'uomo come una semplice relazione di causa e di effetto: il bene non si trasferisce da un cuore all’altro come il movimento di una palla da biliardo, che si trasferisce da una sponda all'altra. Perché nasca il bene, deve essere generato.

Abbiamo due metafore della creazione. Una dice che Dio crea gli esseri dal nulla, l'altra dice che Dio genera il bene nel libero cuore dell'uomo. Sorge la domanda: quale di queste metafore ci porta più a fondo del mistero della creazione? Certamente nessuna delle due va rifiutata, ma senza dubbio la più importante e la più edificante è la metafora del generare il bene. Attraverso il bene si manifesta a noi l'imperscrutabile paternità di Dio. Dio è molto più Padre che Creatore. Se è diventato Creatore dei mondo è solo per poter essere padre dell'uomo. La creazione dal nulla dimostra l'onnipotenza di Dio. Ma solo la Paternità ci rivela il Suo amore. La potenza creatrice di Dio rimane al servizio dell'amore, crea ciò che l'amore le suggerisce. L'essere nasce come materia prima per il bene, come un enorme spazio per tutte le possibili incarnazioni del bene.

Questo getta nuova luce sul nostro modo di pensare alla creazione. Si può capire l'incarnazione dal nulla solo quando la guardiamo attraverso il mistero della generazione del bene. Ma noi, pensando alla creazione, possiamo distogliere il nostro pensiero dal bene e dalla sua origine. Possiamo pensare esclusivamente agli esseri come puri oggetti. Possiamo trasferire sul bene, sulla verità, sulla bellezza, le regole che determinano la generazione delle cose. Allora leghiamo la creazione al potere. Diciamo: per creare bisogna aver potere. Quanto maggiore sarà il nostro potere, tanto più saremo vicini all'ideale della creazione. Avendo nostalgia della creazione, possiamo desiderare un'unica cosa: il potere, la volontà di potenza.

Che cosa ci aspetta al limite di questi desideri? Ci aspetta ciò che ha incontrato il pensiero di Nietzsche. Nell'ultima fase della sua filosofia Nietzsche abbandona il pensiero riguardante la " volontà di potenza" e le sue prospettive, lasciandosi trasportare da un altro pensiero: "l'eterno ritorno dell'identico". L'uomo, egli dice vi- ve al di là del bene e del male, l'essere è soltanto essere e la vita è soltanto vita. Se è così, allora nel fluire del tempo non può apparire niente di veramente nuovo. L'uomo non è affatto un artefice. L'uomo ripete. Il mondo ha inscritte in sé determinate possibilità; quando le esaurisce ritorna al punto di partenza e tutto quello che è stato sarà ancora una volta. All'uomo non resta null'altro se non amare ciò che è necessario.

"Amor fati" - l'amore della necessità - è l'ultimo suggerimento del filosofo dopo la scomparsa del bene.

Il senso proprio dell'idea della creazione non si manifesta tuttavia a livello dell'essere in quanto pura oggettività ma a livello del bene. Nella creazione non si passa tanto dal nulla all'essere, quanto dal non-bene al bene. E' possibile questo? Per vedere il processo della generazione del bene, non bisogna osservare ciò che avviene tra le cose, ma ciò che accade fra gli uomini. Ecco che un pescatore di nome Cefa diventa Pietro. Ecco che un malfattore crocifisso diventa santo. Ecco che Saulo diventa Paolo. Come avviene ciò? In ognuno di questi casi c'è qualcuno che ispira qualcun altro, qualcuno che è un esempio per qualcun altro. Il bene passa da un cuore all'altro attraverso degli shock. Non ha bisogno di anelli di congiunzione né di movimenti intermedi. Ogni volta che sorge appare come irripetibile, unico. E’ una scelta che lo crea. Il bene nasce là dove c'è libertà.

Che cosa significa dunque "creare"? Creare vuol dire: generare il bene, far sì che il bene ci sia. Concentriamo ancora una volta l'attenzione sul tema della generazione. Soffermiamoci ancora sul mistero dell'uomo, e sui suoi legami con l'altro uomo. La domanda se un uomo può creare il bene nell'anima di un altro uomo è la domanda della nostra vita di tutti i giorni. La pongono gli educatori, gli insegnanti, coloro che svolgono un'attività pastorale e i genitori. E’ possibile che il saggio renda partecipe della sua saggezza lo stolto? O colui che ama può accendere l'amore nel cuore di colui del quale si è impossessato l'odio? O il santo può forse rendere santo il peccatore? Possiamo generare l'uno nell'altro un bene?

Le risposte non sono affatto univoche. Nella metafisica di Leibniz l'uomo appare come "una monade senz'occhi", separato dall'altro da un muro insormontabile, assolutamente solo. L'uomo non è legato all'altro uomo da alcun vincolo di causa ed effetto: nessuno può essere causa di ciò che avviene nell'altro, nessuno può essere effetto dell'azione dell'alto. L'uomo è colui che si è fatto esclusivamente da sé e vive grazie a se stesso. L'uomo è come un ragno, che tesse dall'interno la sua tela.

Un pensiero simile sarà sviluppato più tardi da Sartre. L'uomo è condannato alla solitudine. Lo rendono solo i sentimenti, dei quali non può parlare a nessuno, gli stati d'animo, che non può condividere con nessuno e i pensieri, che non può concepire. Soprattutto però lo ha reso solo la sua colpa. La colpa non si può evitare. Non la si può scaricare sugli altri. Qualunque cosa l'uomo faccia e qualunque cosa non faccia, è sempre colpevole. E chi è colpevole è inguaribilmente solo. Non ci sono numerosi esempi che confermano questa teoria? Socrate non è riuscito a convincere gli avversari. Cordella nel Diario del seduttore di Kierkegaard, non è stata capace di destare all'amore il cuore di Johannes. Perfino Gesù non ha fatto di Giuda un santo.

Tuttavia chi parla di creazione, chi parla di generare il bene, crede che sia possibile superare i limiti. Creare è saltare al di là degli abissi. Dove non ci sono vincoli di causa ed effetto ci sono le luci dell'ispirazione.

Appelliamoci a questo punto a Sant'Agostino, che è autore di un dialogo intitolato Il Maestro. Il punto di partenza del dialogo è la domanda: il maestro può trasmettere all'allievo la sua sapienza e la sua saggezza? Sant'Agostino non si interroga dunque sulla possibilità di trasmettere a un altro il bene in generale, ma unicamente uno dei beni, il bene della saggezza. Ma ciò che dirà Sant'Agostino, che la saggezza accompagna ogni altro bene, fa sì che si riferisca al bene in generale.

Il maestro di Sant'Agostino non sa che pesci pigliare. Sta di fronte all'allievo come di fronte a una "monade senz'occhi". Non crede nel potere delle parole: e d'altra parte l'allievo, nonostante tutto, comincia infine a comprendere qualcosa, a sapere, a capire. Ciò che sembrava impossibile diventa un fatto. Vedendo quel miracolo, il maestro non si inorgoglisce. No, non è stato lui ad insegnare all'allievo la saggezza. Da solo non ce l'avrebbe fatta. Doveva avere un aiutante. L'aiuto del maestro esteriore è stato un "maestro interiore", che ha compiuto il miracolo. Per generare un bambino devono esserci il padre e la madre. Per generare la saggezza, deve esserci il maestro esteriore e quello interiore. E deve sussistere ancora una condizione: il bambino deve scegliere la saggezza.

Socrate, parlando di sé, diceva di essere simile ad una levatrice che aiuta a far nascere la saggezza. Se l'uomo non portasse in sé la saggezza, la creazione non sarebbe possibile. Tutto il mistero della creazione della saggezza consiste in questo: che la saggezza che è nell'uomo diventi saggezza per l'uomo. Nel passaggio da ciò che è in noi a ciò che è per noi consiste tutto il mistero della generazione.

Che cosa compie dunque quel maestro interiore dell'uomo? E’ difficile dirlo. Forse crea nell'anima un dovuto silenzio, nel quale soltanto possono echeggiare con pieno suono le parole del maestro esteriore? Forse crea una farne grazie alla quale la paro- la può diventare nutrimento dell'uomo? O forse accende una luce, nella quale le parole brillano di una luce propria? Una cosa è certa: se egli non ci fosse, l'insegnamento esteriore si pianificherebbe.

Facciamo ancora un passo ulteriore, ed un secondo esempio, questa volta rifacendoci a S. Giovanni della Croce. Egli parla dell'azione misteriosa operata dalla parola di Dio sull'uomo, il cosiddetto "terzo genere di parole". Leggiamo: il terzo genere delle parole interiori sono le parole sostanziali. Benché nella loro essenza esse siano parole formali, poiché allo stesso modo si formano nell'anima, tuttavia si differenziano per il fatto che producono nell'anima un effetto vivo e sostanziale che le parole formali non producono. Quindi ogni parola sostanziale è nello stesso tempo anche formale, invece non ogni parola formale è sostanziale, ma solo quella che imprime nell'anima sostanzialmente ciò che essa significa. Se per esempio Dio pronunciasse nell'anima in modo formale la parola sostanziale "sii buona", subito, sostanzialmente, essa diventerebbe buona. Se dicesse: "amami", essa possederebbe e sentirebbe immediatamente in sé l'essenza dell'amore divino. Se all'anima impaurita Dio dicesse: "non aver paura" improvvisamente essa proverebbe in sé pace e coraggio. "Infatti la parola del Signore, - dice il Saggio - è sovrana" (Ecclesiastico 8,4).

"Non di solo pane vive l'uomo". L'uomo vive anche della parola. La parola costruisce l'uomo, lo crea interiormente: Dice F. Rosenzweig: "la parola è più importante del sangue".

La creazione fra gli uomini è una paternità e una maternità, in cui si tratta unicamente di questo: far crescere l'uomo nell'uomo. Ma è una relazione fra tre persone: io che voglio dare il bene, tu che scegli il bene e Dio che "fa crescere". Se manca uno di noi, non c'è creazione. Ma per il fatto che siamo in tre, ogni bene che nasce è un dono: un dono tuo e di Dio per me, un dono mio e di Dio per te e - la cosa più sorprendente - un dono tuo e mio per Dio.

Considerando oggi il tema della creazione abbiamo sotto gli occhi la veduta del mondo contemporaneo, in particolare la veduta dell'Europa contemporanea. Questo mondo ci inquieta. Sembra che alle sue radici si nasconda un qualche errore, una malattia, un male che lo condanni alla distruzione. Questa malattia è legata alla creazione. L'uomo è creatore di questo mondo. L'uomo un tempo è ricorso alla forza per costruire con il suo aiuto la moderna civiltà della tecnica - una nuova realtà fatta di oggetti a sua disposizione. E’ diventata parte integrante di questo mondo una nuova economia e una nuova politica, che hanno dato come frutto sia le democrazie dell'Ovest che la dittatura dell'Est. L'uomo ha ricavato delle ricchezze enormi dalla materia messagli fra le mani. Sapeva anche che a questo modo era divenuto imitatore di Dio - Creatore del mondo. A volte ha costruito il mondo con Dio ma, quando questo sembrava impossibile, anche contro Dio. Ha costruito, ha formato, ha creato, ma non generato. Costruendo la civiltà, non ha progredito nella comprensione del mistero della generazione del bene. Oggi quella stessa opera che egli ha creato è diventata per lui fonte di spavento.

Heidegger ripete le parole del poeta: "cresce il deserto". Il deserto cresce attorno all'uomo. Ciò che cresce attorno all'uomo ha origine nell'uomo. L'uomo diventa per l'uomo come una monade senz'occhi. Al di là del moltiplicarsi delle novità nella sfera della produzione è evidente l'eterno ritorno dell'identico. L'unica via d'uscita rimastaci sarebbe allora l'amore della necessità?

Pensando oggi alla creazione abbiamo davanti agli occhi la distruzione che la civiltà moderna compie nel mondo e nell'uomo. Sappiamo che occorre creare un altro mondo se non vogliamo saltare per aria. Socrate non è riuscito a convincere gli avversari. Ci riusciremo noi? Cordelia non ha cambiato il cuore di Johannes. Sarò capace io? Cristo non ha convertito Giuda. Potrà farlo il cristiano d'oggi? Tuttavia, se non saremo in grado di compiere questo, il deserto ci distruggerà.

Si parla molto oggi dell'impoverimento del linguaggio. Chissà se forse tutte le nostre sventure non si riconducono a quest'unica: l'incapacità di parlare nel senso sostanziale. L'uomo ha cessato di ascoltare questo linguaggio, ha cessato di comprenderlo, non è capace di usarlo.

Giovanni Paolo Il parla della necessità di costruire la civiltà dell'amore. Civiltà e amore, amore e civiltà. Sono due realtà conciliaboli? Il Santo Padre crede che lo siano. Che cosa vuol dire? L'invito a costruire la civiltà dell'amore anzitutto racchiude in sé per noi l'indicazione a voler rimeditare di nuovo il Vangelo e tutta la sua storia: il Vangelo infatti non è qualcosa che sta dietro a noi, ma davanti a noi. In secondo luogo l'invito del Santo Padre ci incoraggia a riportare alla luce e alla salvezza i valori essenziali del nostro mondo tecnico - il mondo della politica e dell'economia; non si tratta di rifiutare i suoi valori ma di verificarli. Ma la prospettiva più importante è racchiusa nel concetto di amore. La creazione sostanziale è la creazione dal profondo dell'amore. Occorre sottomettere le forze creative dell'uomo alla forza dell'amore. La volontà di potere deve cedere alla volontà di bene.

Non è compito mio sviluppare delle prospettive più ampie e più concrete per una nuova creazione - creazione nell'economia, nell'arte, nella politica. Voglio soffermarmi sulle questioni fondamentali. Ecco, fra le questioni fondamentali una mi sembra particolarmente importante: comprendere il valore creativo della croce.

"Portate gli uni i pesi degli altri" dice S. Paolo. In questo consistono l'amore e la solidarietà, nel non lasciare da solo l'uomo che porta la croce. E in questo consiste la saggezza più profonda, nel conoscere il valore creativo della croce. Scrisse il poeta Norwid: "Il popolo è come un uomo semplice. Ciò che egli non scava fuori affondando l'aratro nella terra, ciò che non chiede con insistenza fino a trovare risposta ai piedi della croce e ciò che non gli costa le lacrime di un pianto silenzioso, scorre via sopra di lui come l'erudizione superficiale di uno pseudo-studioso".

Attingere la saggezza dalla croce ... Perché ci sono verità che si possono imparare dai libri. Ce ne sono altre che nascono dall'osservazione della vita. Ma ci sono anche delle verità alle quali si giunge soltanto attraverso la croce - la fatica dei lavoro quotidiano, la preghiera, il pianto. Tali verità sono il principale fondamento della creazione.

Fra queste verità ce n'è una oggi particolarmente attuale. Questa verità proviene dal martirio e riguarda il martirio e precisamente il suo ruolo nel progresso dell'umanità. Il martirio ha ricoperto finora un ruolo chiave nel progresso del mondo. Socrate a dire il vero non convinse gli avversari, ma ha convinto noi. Cristo non convertì Giuda, ma convertì Saulo e molti altri. E’ così che la verità portata al sacrificio ottiene la forza straordinaria di un linguaggio sostanziale. Ma deve essere così? Deve proprio essere così? Bisogna arrivare al martirio perché si schiarisca la prospettiva di un mondo nuovo?

Scrive Norwid: "Tutto il mistero del progresso dell'umanità dipende da questo: che sempre più fermamente, attraverso l'incarnarsi del bene e il rischiararsi della verità, l'arma più grande, unica, estrema, cioè il martirio, si renda non necessaria sulla terra" (Promethidion, Epilogo, VII). Il martirio per Norwid è l'estremo sacrificio della vita. E necessario, perfino indispensabile, là dove altri argomenti non bastano. Ma è segno di progresso, secondo Norwid, una condizione in cui altri eventi, come l'incarnarsi del bene e il rischiararsi della verità, si impongono ed eliminano la necessità dello spargimento del sangue.

Sono convinto che anche l'incontro a cui partecipiamo serva a questo scopo: a rendere non necessario il martirio nella generazione di un mondo nuovo.

R. Buttiglione

Io ringrazio a nome di tutti voi il professor Tischner. Egli ha cominciato parlando della metafora, ma tutta la sua relazione è stata una grande metafora cristologica e trinitaria. In fondo Dio crea il mondo, ma genera il Figlio perché lo ama e attraverso il Figlio vuole generare il bene in ogni uomo e vuole generare ogni uomo come figlio. La storia che stiamo vivendo, la storia di cui vive il Meeting è proprio quella di questa generazione del bene, la generazione del bene di cui Dio è autore nei nostri cuori, per mezzo dei Suo Figlio. E questo è il mistero che Cristo viene a comunicare.

Mi ha colpito fortemente anche ciò che il Padre Tischner ha detto sul potere. Anche questo è un tema che dovremmo meditare a fondo e che già stiamo meditando. Se l'uomo pensa che Dio sia per essenza il potere, allora è tutto centrato sulla tematica del potere, e desiderare di essere come Dio significa desiderare il potere. E molta gente in buona fede oggi è dalla parte del potere perché non ha capito che Dio è comunione. Questo è il grande messaggio della Chiesa e anche il grande messaggio di questo Meeting: Dio è amore, cioè comunione, è il soggetto del processo della generazione del bene nei cuori degli uomini, colui che lo ha iniziato e vuole portarlo attraverso di noi fino alla nostra salvezza. Cosa c'è tra la libertà dell'uomo e questa volontà di bene di Dio che accetta di farsi impotente? Quello che rimane è il tempo della Chiesa, il tempo della misericordia di Dio che continua ad aspettare davanti alla porta dell'uomo finché l'uomo lo accolga, questo nostro tempo. La nostra creatività allora, la creatività di cui questo Meeting parla, la creatività di cui parlano le nostre mostre e i nostri incontri è come una partecipazione al gesto di Dio che vuole creare noi e insieme con noi tutti gli altri, una partecipazione a questa pazienza che nel tempo della Chiesa vuole generare il bene nei nostri cuori. Ecco, mi sembra che le cose che abbiamo ascoltato oggi ci diano un grande impulso, al di là del terna di questo incontro, per tutto il destino della storia che abbiamo iniziato e per il cammino del Meeting che stiamo vivendo.