Martedì 25 agosto 1981

"L’UOMO RELIGIOSO DI FRONTE A QUESTA EUROPA"

Partecipano:

Prof. Olivier Clément,

teologo ortodosso, Docente all’istituto di Teologia di Parigi;

Prof. Jòzef Tischner,

filosofo della Scuola di Cracovia;

Prof. Emmanuel Levinas,

filosofo francese di origine lituana, Membro dell’Institut International de Philosophie.

Moderatore:

Dr. Pieralberto Bertazzi.

P. Bertazzi:

L'incontro di questa sera ha come tema "L'uomo religioso di fronte a questa Europa". Sono con noi come graditissimi, ospiti, per parlarci di questo tema, Olivier Clemènt teologo ortodosso francese, Emmanuel Levinas, filosofo francese di origine lituana e di tradizione ebrea e Jòzef Tischner, sacerdote cattolico e filosofo polacco. Vorrei, per introdurre questo incontro e gli interventi dei nostri relatori, illustrare brevemente il tema che abbiamo posto questa sera come nostro comune lavoro. E lo farei prendendo lo spunto da una domanda che un giornalista si poneva nel commentare l'andamento del Meeting. Diceva: Sapremo rispondere alla domanda di cultura che nasce da questi giovani (siamo noi questi giovani)? Io credo che l'incontro di questa sera si collochi esattamente al cuore di questa questione. E lo credo per due motivi. Il primo, immediato, è la statura culturale e umana dei nostri ospiti di questa sera. Il secondo motivo è che, prima di ogni specificazione in discipline di sapere o campi di espressività umana, il termine cultura indica il bisogno e la possibilità di dare un senso e di cogliere un significato, di apprezzare una ragionevolezza nella vita della nostra persona, dei nostro popolo e della nostra società. Domanda di cultura, credo, è questa. Ma noi portiamo dentro di noi questa domanda in questa Europa, in un contesto storico e culturale ben preciso. Perciò credo che questa domanda sia carica di attesa ma anche di dramma. Perché è la domanda dell'uomo che vuole essere se stesso, in un mondo - questo mondo -, che sembra diventato nemico di questo desiderio. Infatti ciò che dalla società viene incontro alla nostra domanda sono ideologie e sistemi che hanno la pretesa di racchiudere nelle proprie formulazioni l'uomo e l'universo in maniera così totalitaria, autosufficiente e chiusa che non c'è più neppure posto e spazio per il mio piccolo io, la sua attesa e la sua domanda. Oppure è la fuga, la fuga nell'aldilà e nell'illusorio, quello allucinato della droga o quello di astratte pseudo-religiosità o quell'aldilà orrendo e mai formulato, pur definendosi storico, del terrorismo. Ambedue queste sono fughe perché negano consistenza e senso reale all'oggi. Ma allora, in questa Europa, in questa situazione in cui noi viviamo, chi è l'uomo religioso, cosa ha da dire di fronte a tutto ciò? Bene, sono qua con noi questa sera un cattolico, un ortodosso, un ebreo. Uomini dell'Est e dell'Ovest dell'Europa. Noi abbiamo un'attesa, ma di più direi: una certezza di fronte a questa differenza di tradizioni culturali e di contesti storici da cui i nostri ospiti provengono. E la certezza, l'attesa è che la cosa che hanno da dire tutto sommato è una. E che non riguarda la religione ma l'uomo, la società. Che riguarda l'uomo di oggi in questa società. Infatti l'uomo religioso non è chi ha una propria ideologia da contrapporre a quella altrui; né è l'uomo che ha qualcosa di supplementare, in più, rispetto alla vita. L'uomo religioso è chi rimane aperto alla domanda sul proprio senso, del proprio esistere nella realtà, che non racchiude questa domanda in uno schema fatto con le proprie mani e perciò è l'uomo che resta aperto alla risposta, all'altro. L'uomo religioso è colui che ha fatto nella sua vita un incontro, che vive nella sua vita questa presenza dell'altro. In questo incontro risiede il senso della sua avventura umana, non in un sistema o in una ideologia. E in questo incontro che è avvenuto nella sua vita si situa anche la ragione di una speranza per sé, per gli uomini e per la storia nella quale si trova a vivere. Questo incontro che l'uomo religioso ha fatto origina la capacità di essere attento, aperto ad ogni altro che gli viene incontro. Ed in fondo, come già questi 2-3 giorni di lavoro ci hanno manifestato, di cosa più che di questo c'è bisogno oggi in Europa? Il prof. Olivier Clément aprirà gli interventi. Clément è fra le personalità più prestigiose della cultura francese contemporanea. Scrittore, storico, teologo, attualmente insegna a Parigi all'Istituto di Teologia Ortodossa. In gioventù fu socialista ed ateo. Si dedicò all'azione politica durante la II guerra mondiale partecipando attivamente alla resistenza francese. E l'esperienza della guerra segnò profondamente il suo cammino spirituale. A 27 anni, dopo vicende personali drammatiche si è convertito al cristianesimo sotto l'influsso di un grande teologo russo emigrato in Francia, e si è convertito all'ortodossia, Clément ha scritto: "Se i cristiani potessero diventare sin da quaggiù degli esseri capaci di comunicare la vita, allora tutto diventerebbe possibile, anche superare i due suicidi totali che ci minacciano: quelli della materia, il suicidio atomico, e quello delle anime, il suicidio nichilista". Noi siamo quindi veramente contenti che il prof. Clément sia qua, questa sera tra di noi ad aiutarci a sviluppare questa capacità di comunicare una vita. E con questo gli cedo senz'altro la parola per l'intervento introduttivo del nostro incontro.

O. Clément:

Vi presenterò delle riflessioni personali sull'Europa e sul cristianesimo. Parlerò dapprima dell'Europa, l'Europa come trampolino del cristianesimo, poi l'Europa come tradimento dei cristianesimo. Infine parlerò della metamorfosi nella quale tutti oggi siamo impegnati e che, mi sembra, va dal nichilismo alla divino-umanità. Tra l'Oriente asiatico, dove l'uomo si fonde nel divino, e l'Occidente antico, dove l'uomo di potenza e di fortuna (Alessandro o Cesare) si deifica, troviamo la rivelazione biblica, rivelazione del Dio personale che pone l'uomo come una persona; la rivelazione dei Dio fatto uomo affinché l'umano e il divino possano avere una comunione senza pertanto confondersi. Il cammino dell'uomo non è più, in questo modo, una scienza dell'interiorità o dell’io, l'io supremo che coinciderebbe con l'assoluto. Bensì qui si tratta della fede, adesione personale ad una presenza personale, contemporaneamente rivelata e nascosta. L'affermazione della epistola agli Ebrei: "è con la fede che Abramo parti senza sapere dove andava" costruisce forse la migliore evocazione dell'avventura europea. L'uomo liberato dai divieti e dai tabù, ormai per guidarlo ha solamente la temibile, la regale responsabilità dell'amore. "Ama e fai quello che vuoi" diceva Sant’Agostino. Il simbolo più profondo dell'immaginario europeo potrebbe essere la ricerca del Santo Graal. Ricerca di che cosa, se non di questo Dio "sempre ricercato" - se vogliamo riprendere qui un'espressione di San Gregorio -, che ciò non di meno traspare nell'inesaminabile dei visi, dei volti (come lo dimostra sull'icona della Trinità di A. Rublév la scena dell'ospitalità di Abramo, questi ospiti di cui la genesi dice che sono tre, a volte un unico ospite, tre volti di uomini: l'unità di Dio)? L'asse della storia europea è il mistero della persona, la più alta e definitiva formulazione della nozione di persona. Questa va cercata nelle elaborazioni dei padri dei Concili dei IV e V secolo. Abbiamo celebrato due di questi incontri: quello di Costantinopoli nel 381 e quello di Efeso, 50 anni dopo. La Chiesa ha sviluppato all'epoca le conseguenze delle grandi affermazioni di Giovanni quando Gesù disse: "Io e il Padre formiamo un tutt'uno". E però sono due e tre con il Paraclito. Quando Gesù chiede al Padre che gli uomini siano uni, della stessa unità, allora si è espressa per la prima volta nel pensiero umano la grande antinomia dell'amore: quella dell'unità e della differenza, quella delle persone distinte in modo irriducibile e però sostanziali Nella storia profonda dell'Europa, la rivelazione dell'Uni-Trinità appare come quella della persona, della persona in comunione, perché l'uomo è stato fatto ad immagine di Dio, chiamato a vivere della sua vita. Boris Pasternak a questo proposito mette sulla bocca di tino dei suoi personaggi del suo "Dottor Zivago": qualcosa si è messo in movimento nel mondo". Morta, direi piuttosto ferita a morte, la potenza del mondo, la necessità; la persona, il predicare la libertà, li hanno sostituiti. La vita umana personale è diventata storia di Dio e ha riempito l'universo intero. Certo questo fermento non ha interrotto il movimento della storia. Anzi è stato un lievito, ha trasformato i suoi cieli ben analizzati dal pensiero greco, e questo in una spirale il cui asse verticale è praticamente un affinamento della coscienza personale. il fermento della persona agisce sul Medio Evo europeo, consente il passaggio dalla schiavitù al servo, poi all'uomo libero; il passaggio altresì dal guerriero al cavaliere. Asseconda il movimento dei comuni e delle città libere, dà infine al mondo slavo questi Santi Principi che sanno "dare la loro vita per i loro amici". Il fermento della persona agisce anche sul Rinascimento: crea saggezza, moderazione, vero umanesimo. Ad esempio, quello di un Vitoria, quando scrive il suo "De Indiis" per sottoporre la ragione di stato al rispetto dell'uomo. Impedisce alla società russa di chiudersi in una sacralità chiusa, grazie alla protesta dei pazzi di Cristo. Il fermento della persona agisce anche all'epoca dell'Europa illuminata per dare all'affermazione dei diritti dell'uomo una segreta apertura verso il trascendentale. Agisce anche nel XIX secolo nei confronti dei pensieri totalizzanti, oppure totalitari in potenza; nella passione esistenziale e personalistica di un Kierkegaard, di un Dostoevskij e di un Proudhon. E quando questi totalitarismi, in questo nostro secolo, entrano nella storia, il fermento della persona agisce nelle resistenze, nelle dissidenze, in una affermazione rinnovata dei diritti dell'uomo, dell'uomo scoperto e visto sempre più come una persona che non si può ridurre, come un volto al quale devo rispondere, davanti al quale sono responsabile, se vogliamo qui riprendere le bellissime parole di E. Levinas: questa tensione sempre rinnovata verso la persona ha trasformato il tempo ciclico in storia, ha portato l'accerchiamento del pianeta e l'esplorazione scientifica della materia. La Rivelazione dei Dio di Israele, del Dio vivente, che dà del 'tu' all'uomo e la Sua incarnazione in Cristo, strappano l'uomo ai cicli delle stelle e delle trasmigrazioni, per portarlo, per situarlo in una reciprocità interpersonale, contemporaneamente inter-umana e umanodivina, dove il tempo ormai si orienta teso verso la trasfigurazione ultima, che segretamente in modo sacramentale lo feconda e lo attira come un magnete. Nel cuore di ogni uomo la storia si apre sul Regno. La vocazione di Abramo, l'attraversare il Mar Rosso, la croce e la resurrezione di Cristo, fondano la storia come un immenso dramma d'amore tra Dio e l'uomo, tra Dio e l'umanità. Contemporaneamente gli Europei scoprono, unificano il pianeta; le spiegazioni con la tecnica o la demografia non hanno qui nessun senso. L'Europa dei 1500 contava 50 milioni di abitanti a malapena e le grosse giunche cinesi che potevano portare ciascuna 1300 persone, erano ben superiori alle caravelle di Cristoforo Colombo. Per sfidare l'immensità degli oceani e anche l'immensità delle terre (qui voglio pensare anche al pugno di avventurieri russi che attraversando l'Asia Settentrionale hanno. raggiunto il Pacifico), ci voleva qualcos'altro. Un qualcosa d'altro che fin dal terzo secolo aveva portato i primi missionari cristiani sulla costa indiana del Malabar. Qualcosa d'altro infine, che dal VII al XIII secolo quasi faceva riuscire l'evangelizzazione della Cina da parte dei cristiani nestoriani. Un'altra cosa: sempre l'impegno evangelico "andate ed evangelizzate tutte le nazioni". Ancora e sempre, la fede di Abramo, che Cristoforo Colombo esalta nella lettera al re dell'isola della Giamaica in data 7 luglio 1503. Certo, e tornerò su questo, tutto ciò si è mescolato alla sete dell'oro, alla volontà di potenza, all'avventura per l'avventura. Ma la persona, anche perché supera il mondo, non può essere fermata da nulla finché qualcosa non sia stata completamente assunta da essa: per offrirla a Dio o per vampirizzarla in modo egoista. Questa è una scelta, la nostra scelta. Assumere il mondo significa anche esplorare in modo scientifico la materia. Non si può mettere in dubbio le origini giudeo-cristiane della scienza europea. La Bibbia, unica, ha visto nel mondo non il manifestare illusorio dell'assoluto o una tomba, oppure lo strumento dell'anti-Dio (materia malefica) opposto allo spirito, bensì la creazione buona dei Dio vivo, benedetta da Lui, penetrata dalla Sua saggezza, offerta alla responsabilità dell'uomo, incaricato di nominare i vivi e di coltivare questo giardino cosmico. Creazione contemporaneamente consistente in sé e capace di rivelarci l'intelligenza e d gloria di Dio, di diventare luogo di un immenso dialogo tra Dio e l'umanità. Intuizione che nonostante il dirompere dei materialismo ha animato sempre i pionieri e gli antesignani della scienza europea, da Keplero ad Einstein. "Le opere di Dio sono degne di essere contemplate" diceva Keplero. Così il Cristianesimo, lungi dallo schiacciare la ragione umana, le offrì, alla luce dei "Logos", della grande ragione divina, delle possibilità sconfinate non per chiudersi sugli esseri e sulle cose bensì affinché si apra sempre di più al loro mistero, alle parole divine che le portano e che ci invitano a dialogare con quello che le pronuncia. Se l'Europa è stata vivificata dal Cristianesimo, se in un certo senso questo le è servito da trampolino, basterà constatare il nichilismo nel quale siamo immersi per sapere che l'Europa lo ha tradito. Questo tradimento lo sentiamo nelle ambiguità della cristianità, nelle dissociazioni che dall'interno hanno fatto scoppiare il Cristianesimo europeo, nell'urto, infine, di due atteggiamenti errati simmetricamente: Dio contro l'uomo e l'uomo contro Dio. Le ambiguità della cristianità. Certo, la cultura che nasce dal sangue dei martiri e dall'alta ascesa monastica è una bozza di divino-umanesimo. Nell'Europa di San Benedetto, di Cirillo e di Metodio, le energie spirituali accumulate nei chiostri con la preghiera dei popolo trasformano parzialmente il retaggio dell'umanesimo antico, la verità avventurosa del mondo germanico, il senso del mistero cosmico del mondo celtico e del mondo stavo. E allora è scaturito un immenso patrimonio di santa bellezza, di cui i nostri animi ancora oggi si nutrono: la musica gregoriana, la liturgia bizantina, Ravenna, Santa Sofia e l'arte romanica. A partire dal XII secolo si sente la spinta dell'umano che creerà l'Europa moderna. Ma l'umano non si separa ancora dal divino; è in Dio che l'uomo è pienamente uomo. E' tempo questo dei primi rinascimenti che sono rinascimenti trasfigurati, il '300 italiano illuminato dal francescanesimo, il rinascimento bizantino, che comincia in Macedonia per poi svilupparsi a Mistra, a Costantinopoli, in Francia i mistici Cistercensi dei XIII secolo, la prima arte gotica e la Russia del '500. L'arte di Teofane, di Rublév, dove ritroviamo e trasfiguriamo la fluidità platonica. Ciò non di meno è vero che nel basso Medio Evo la cristianità sembra a volte diventare "l'ideologia dominante di una società chiusa". L'assalto dell’Islam trasforma la cristianità in una fortezza, assalita dagli infedeli, che qui non si tratta di evangelizzare (unico, S. Francesco d'Assisi ha tentato) ma di combattere con le armi in mano. L'Europa si trasforma (mai totalmente, è vero) in una società sacrale, che nega la libertà e l'indifferenza. L'inquisizione appare nel XIII secolo; gli Ebrei, più o meno tollerati a lungo, sono allora perseguitati, costretti all'esilio. Le partenze per le Crociate spesso si accompagnano a massacri di Ebrei. La coesistenza feconda delle tre religioni monoteiste nella penisola iberica sfocia in un disastro e nell’intolleranza peggiore. Più tardi anche la Russia segue la stesso via, coi massacro degli Ebrei, da parte dei cosacchi, e la persecuzione dei Vecchi Credenti. Questo Cristianesimo, che diventa sempre più duro nella sua ideologia, spiritualmente scoppia. La prima separazione, la scissione fondamentale, quella che, si potrebbe dire, ha messo il mondo occidentale in uno stato di scissioni a catena, è quella tra l'Occidente e l'Oriente Europeo dall'XI al XIII secolo. Ho motto riflettuto su questo scisma e certo presenta degli aspetti spirituali e di teologia. Ma questo non è l'essenziale secondo me. Tutte queste differenze potevano trovare il loro posto in un'unità ed arricchirsi a vicenda. L'essenziale è essere sommersi dall'amore evangelico e questo scisma è stato fatto dall'orgoglio delle società chiuse. E' la non violenza creatrice dei vangeli che è stata sommersa dalla problematica del potere. Qui una Chiesa che si centralizza per affrontare l'impero ma anche facendolo con i mezzi dell'impero. Là una Chiesa che rimane più differente, più conciliante, ma sotto la tutela dell'impero o del reame che aspira ad un suo statuto. E con lui trova una vita sempre più statica. Che mutuo impoverimento! Fino a oggi Roma, nella sua vocazione prima, non di dominazione delle chiese locali ma di servizio alla loro comunione, manca all'Ortodossia. Le manca anche quella dimensione occidentale fatta di spirito critico, di responsabilità etica, di carità attiva a imitazione di Gesù. Viceversa la dimensione orientale manca al Cristianesimo latino. Una ecclesiologia pienamente eucaristica: l'unità del mistero e della libertà nello Spirito Santo, il senso delle energie divine che irradiano da Cristo resuscitato per trasfigurare l'uomo intero, ivi compreso il suo corpo e, tramite l'umanità, l’universo. Tragedia del Cristianesimo europeo: l'Occidente è riuscito a suscitare un fantastico dinamismo storico, però non aveva più quella dimensione di un cristianesimo cosmico, capace di illuminare il mondo esplorato dalla scienza. L'Oriente cristiano è riuscito a proteggere il segreto di questa trasfigurazione nell'ascesi dei monaci, nella bellezza delle sue liturgie, ma nascondendolo a latere della cultura e della storia. Così si sono costruite due Europe: l'una nata da Roma, l'altra da Costantinopoli. L'una lungo trionfante, l'altra a lungo umiliata. Una che colonizza l'altra da un punto di vista culturale: e questo fino ad andare ad esportare in modo funesto il marxismo. Lungo malinteso, questo, che solo l'avvento di un Papa slavo ai giorni nostri comincia a superare, ricordandoci che l'Europa non è soltanto occidentale. La spaccatura fra Oriente ed Occidente cristiani nel Medio Evo ha reso inevitabile una spaccatura fra la cristianità occidentale nel XVI secolo. Privo del suo Oriente spirituale, l'Occidente non è riuscito a mantenere le tensioni feconde della Chiesa una; e fu lo scontro della cultura e della tradizione, del sacro e del profano, del sacerdozio di ordine e del sacerdozio universale, della comunità e dell’individuo, del mistero e della libertà. Indebolita da queste spaccature interne, la cristianità europea non è riuscita a mantenere l'unità di queste due sfaccettature dell'Eucarestia che un S. Giovanni Crisostomo affermava altamente quando parlava dei sacramento dell'altare e dei sacramento dei fratello. Quando le fabbriche si sono moltiplicate, creando nel cuore dell'Europa un primo baluardo, un pietismo moralizzante, nel senso di una morale individualista, dominava il Cristianesimo, ma la dimensione sociale dell'Eucarestia andò persa; è come se avessimo dimenticato il 25° capitolo di S. Matteo, "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito, senza casa e mi avete accolto.... Ogni volta che avete fatto ciò al più povero dei miei fratelli l'avete fatto a me", perché "il povero, come il prete, è un altro Cristo" dice il Crisostomo; quindi si è sviluppato il socialismo, che è all'origine almeno in parte un’eresia cristiana. Allora la giustizia era legata all'ateismo in modo paradossale, perché se non c'è né rivelazione né trascendenza da dove può scaturire l'idea stessa di giustizia? Così questa modernità europea nasce da una doppia opposizione, quella di Dio contro l'uomo e quella dell'uomo contro Dio. Alla fine del Medio Evo, ossessionato dalle marce macabre, pieno dei sistema dell'inquisizione si è riusciti a costruire un Dio terrorista, un Giove tonante piuttosto che il Padre di Gesù Cristo. Il pensiero teologico, riprendendo in modo inconscio schemi arcaici che Réne Girard ha appena analizzato, ha proclamato l'assassinio del Figlio da parte del Padre. La Riforma si è impantanata nella doppia predestinazione. Mille anni di guerre religiose, un secolo di repressione sessuale e sociale, hanno finito coi trasformare il Dio vivente e vivificante in un Dio poliziotto, in un padre sadico e castratore, un nemico della carne, della vita e della libertà. Allora l'uomo si è alzato contro queste caricature di Dio: slancio segretamente provocato dalla rivelazione biblica ma che sradicato dalla divino-umanità, è stato finalmente sfruttato da forze di morte. L'umanesimo è diventato un antiteismo, un'avventura titanica, da Prometeo. La scienza ha giustificato lo scientismo. Il socialismo ha voluto fondare nel divenire della materia sola la sua esigenza propria di giustizia. I diritti dell'uomo si sono sciolti con spiegazioni totalizzanti, riduttrici, dove la coscienza -personale ormai è solo un riflesso delle energie cosmiche o della lotta fra le classi. E quelli che tenevano queste spiegazioni, questi cosiddetti segreti della potenza e della storia, si sono autodati un potere illimitato sugli altri. All'assassinio del Figlio dal Padre abbiamo opposto l'assassinio dei Padre da parte dei Figlio. Così siamo passati dall'Umanesimo all'anti-umanesimo. Così siamo arrivati al tempo dei nichilismo. Erich Fromm ha detto che l'uomo europeo ha spinto il razionalismo fino al punto in cui il razionale stesso si trasforma in totale irrazionalità. Durante la Rivoluzione francese una prostituta dal petto nudo, il cappello frigio sulla testa, salì sull'altare di Notre Dame e fu chiamata la Dea della Ragione; questo fu l'inizio del terrore. Il discendere in inferno oggi sfocia nell'ultima scelta, la follia o la santità. L'Europa, forte della sua esperienza tragica, è forse chiamata a diventare il laboratorio di un divino-umanesimo a livello planetario. Sì, l'Europa ha conosciuto e conosce ancora una vera e propria discesa all'inferno. Questi fenomeni di industrializzazione, di massificazione, hanno rovinato le comunità tradizionali, certo imperfette, ma che portavano l'uomo e che gli davano una certa saggezza. La maggior parte degli Europei sono stati nel senso più profondo, sradicati, strappati ai ritmi della terra e alla benedizione dei cielo. L'uomo discende dalla scimmia ed è il mondo che è infinito, un'infinità nera dove ormai tutti siamo persi. I teorici del socialismo nel secolo scorso, un Saint-Simon, un Fourier, un Engels, temevano questa morte della terra, votata, dicevano, a diventare un blocco di ghiaccio che viaggiava nello spazio ormai vuoto. li nulla diventava l'orizzonte, oltre al quale la cultura europea non poteva andare. La prima reazione, quella dei profeti dei XIX secolo, fu di elaborare ciò che chiamerei un "nichilismo pieno": l'esaltazione della vita, della bellezza, del gioco creatore in Nietzsche; la certezza, in Marx, che finirà col crearsi una società giusta dove gli uomini saranno trasparenti gli uni agli altri, pervenendo a una genialità polivalente, assumendo le energie cosmiche in un ultimo sforzo di immortalità terrena. Sotto questa maschera della scienza ritroviamo i vecchi paganesimi, i vecchi millenarismi, nella forma di un panteismo scientista e di una pseudo-religione fusionale. Ma i danni così provocati, le decine di milioni di morti delle guerre mondiali, dei campi nazisti e di un Gulag, che si ricostituisce in modo implacabile sotto tutti i climi, hanno dimostrato che questa pienezza, questa esaltazione, erano soltanto un epigono dei nulla. Contemporaneamente la prima bomba atomica lanciata su Hiroshima, un 6 agosto, festa della trasfigurazione: non più reintegrazione eucaristica della materia bensì una sua disintegrazione luciferina. Così siamo passati dal nichilismo pieno dei totalitaristi al nichilismo vuoto della nostra società: nessuno sa più perché vive e non abbiamo nessun'altro scopo se non quello di scappare dall’insicurezza, dal rischio, dalla solitudine: il nostro scopo è quello di dimenticare la morte. Perché la morte, non solo individuale, ma da Hiroshima anche planetaria, non è mai stata così nuda, assurda, insostenibile, La rivelazione biblica ha strappato definitivamente l'uomo europeo alla pace impersonale della sfera magica delle società tradizionali. Ha definitivamente partorito la macchina dal ventre della terra madre, ma ha dimenticato il Cristo, Pasqua, la risurrezione. Ed eccolo orfano davanti all'abisso, sapendosi unico ed irrisorio allo stesso tempo. La cosiddetta società dei costumi è una bulimia degli angosciati, ma l'angoscia mangia tutto e distrugge l'istinto di vivere, suscita un coinvolgersi distruttivo dove la politica è soltanto un pretesto, quando l'unica cosa che conta è la violenza e la sua estasi spinge i più poveri verso la droga o verso le sette. Sempre più vediamo delinearsi la scelta fra la follia e la santità. La vecchia, vecchissima Europa ha potuto finché voleva andare fino alla fine della libertà, arrivando all'ateismo ambedue resi possibili dal Cristianesimo, perché Cristo non si impone, non scende dalla sua croce, risuscita nel segreto, vuole il libero amore dell'uomo. E ora numerosi sono gli Europei che, dopo aver provato tutto, esplorato tutto fino ai confini del nulla, scoprono nel loro cuore una ferita che nulla di terrestre potrebbe guarire, una ferita d'angoscia, meravigliandosi, una ferita di trascendenza. Si potrebbe applicare anche all'Europa il mito origeneista dell'anima, partita da Dio per fare l'esperienza della libertà, dell'anima animata da una sete di infinito, che cerca l'infinito lontano da Dio, ma che un giorno capisce che solo Dio può rispondere a questa sete. Oppure, più semplicemente e più fondamentalmente ancora, la parabola del figliol prodigo, come è stata rappresentata da Rembrandt, quello che nasconde il suo viso, lo perde e lo ritrova infine contro il cuore del padre. Oggi l'uomo europeo può voltarsi verso Dio, con una esperienza ormai complessa, raffinata, tragica, con una libertà disperata che non troviamo in nessun altro posto. Ed è questo ritorno che darà più gioia al nostro Dio. Ed e questo ritorno certamente che darà più gioia lucida all’uomo, perché viene dal più profondo della disperazione. I tempi sono arrivati, perché la casa dal padre non è più quella della fedeltà chiusa, cattiva del figliolo, ma la casa purificata dal sangue dei martiri, più numerosi forse in questo nostro secolo nell'Europa dell'Est che nella chiesa primitiva. Con la mediazione del mondo slavo, l'emigrazione e la dissidenza russa, la Polonia sacrificata e creatrice, il Cristianesimo europeo ritrova infine il suo Oriente, tutto un sapore mistico della vita e i due fili, il rosso e l'oro dei martiri e dei trasfigurati, che orinai non si possono più separare. Oggi la cristianità europea, approfondita dalla prova, è sempre meno quella dei benpensanti, e sempre più quella della comunione dei santi, questi peccatori che accettano di essere amati. E allora appare in un'umiltà feconda la verità spuria del Cristianesimo. Si chiama vita e amore, se vogliamo dare a queste parole troppo utilizzate tutta la loro carica di eternità. Vita: donazione della vita stessa di Dio, una vita più forte di qualsiasi morte, perché non si tratta qui del Dio che schiaccia, bensì del Dio che per follia di amore si apre e si svuota per dare uno spazio alla nostra libertà, del Dio che si incarna e muore sulla croce per riempire con la morte stessa la sua luce. Del Dio che scende in Inferno per vincere l'inferno e per aprirci nella profondità del Suo corpo ecclesiale, eucaristico, uno spazio di risurrezione, di vita pura, di vita liberata dalla morte. Lo spazio dello spirito, dei soffio vivificante che libera la nostra libertà e la rende pienamente creatrice. "Ero morto e tu mi hai risuscitato, sono vivo"; felice quello che muore ogni giorno di tristezza, di insufficienza, di abbandono al nulla, ma a cui ogni giorno ancora e ancora e senza tener conto dei suoi errori la vita è resa con la gioventù, la fiducia e il coraggio di amare e quello di servire. Oggi l'angoscia europea e la lunga memoria europea costituiscono il luogo provvidenziale dove testimoniare della Risurrezione, dove testimoniare dell'avvento dello Spirito donatore di vita. E questa vita si identifica con l'amore. La nostra epoca, mi sembra, è chiamata a scoprire tutta la fecondità della nostra concezione dell'uomo e del Dio Trinità. Perché ad immagine del Dio-uomo e del Dio-amore, tutti gli uomini sono invitati ad una unità ontologica nella diversità dei volti. Ognuno nella misura in cui riesce ad aprirsi e a superare se stesso, nella misura in cui con un ascesi di servizio e di rispetto riesce a capire un po', riesce ad assumere questa immensa unità e diventa non simile ma unico, volto-icona che non è più una maschera bensì accoglienza, tenerezza, simbolo inesauribile di una trascendenza. Tarkovski, commentando il suo film su Andrej Rublév, scrive a proposito dell'icona celebre della Trinità, stilizzazione dell'ospitalità di Abramo: "Ecco infine la Trinità, grande, serena, compenetrata tutta da una gioia da cui scaturisce l'umana fraternità". L'apertura dell'Unico in Tre, la triplice unione in un Unico, offrono una prospettiva fantastica all'avvenire ancora disperso nei secoli passati. Così vediamo precisarsi una nuova vocazione cristiana dell'Europa, come laboratorio di un divino-umanesimo planetario. L'Europa oggi non è più dominatrice del mondo, come lo fu senza dubbio dal XVI secolo fino alle due guerre mondiali (un suicidio per essa), bensì un Cristianesimo rinnovato, che può fare di questa cancellazione un’occasione di approfondimento decisivo. Se l'Europa potesse, fecondata dal dinamismo trinitario, divenire sempre più un servizio dell'unità nel rispetto dell'Altro! Il ritorno in Europa e soprattutto in Francia degli Ebrei dall'Africa dei Nord, la venuta fra di noi di milioni di lavoratori mussulmani, devono consentirci un incontro profondo delle grandi tradizioni di Abramo, un senso rinnovato dei Dio vivo. L'unica cosa che può strapparci alla tirannia del potere, delle tecniche e del denaro. Noi cristiani dobbiamo avere il coraggio di dire che l’Islam ci interessa non a causa del petrolio ma a causa delle "sura" più belle del Corano, a causa della testimonianza dei grandi Sufi. L'Europa spirituale che noi vogliamo è un Europa aperta sul Mediterraneo, questo crogiolo dei monoteismi. Allo stesso tempo vediamo e capiamo bene che l'Europa diventa la memoria dei mondo, nei suoi musei, nelle sue esposizioni, nei suoi libri e con i suoi dischi. Nell'opera dei suoi scienziati, orientalisti, etnografi, si accumula il patrimonio incredibile dei simboli, dei miti di tutte le culture umane. Per la prima volta nella storia appare una civiltà veramente aperta, che non si definisce più con una visione chiusa che rifiuta l'altro bensì con l'accoglienza appassionata dell'altro. Il primo problema alla fine di questo secolo potrebbe essere quello di assumere le conseguenze spirituali di tale apertura. Sarà l'entropia storica dell'Europa in un puro relativismo oppure un tradire il genio dell'Europa con questo immanentismo cosmico neo-pagano, oppure l'attualizzazione del se stesso che vuole identificarsi con l'Assoluto, oppure, e questo è il nostro compito, un Cristianesimo attento al doppio mistero della divino-umanità e dell’Uni-Trinità, una religione dei volti, capace di captare nell'immenso patrimonio delle mitologie i simboli della comunione. Noi cristiani d'Europa siamo chiamati oggi ad un Cristianesimo nel contempo umile e creatore, a una santità capace di rischiarare senza nulla opporre o imporre. Si tratta semplicemente di proporre tutta la complessità della cultura, della società della storia. Il XX secolo europeo è stato in modo massiccio, e rimane, purtroppo, il tempo dei nuovi martiri. E in modo significativo in questa ultima testimonianza ritroviamo e si ritrovano Ebrei e Cristiani. Ora da questa martirologia, come nel primo secolo, nasce la vita. Innumerevoli sono i martiri russi del nostro tempo che hanno fermentato le opere di un Pasternak, di un Solzenicyn, di un Maximov, dove soffia la Risurrezione; e più di 30 poeti cristiani lavorano oggi a Leningrado. Dagli innumerevoli martiri polacchi, dal nazismo allo stalinismo, scaturisce la creazione potente, sociale, culturale, della Polonia d'oggi, dove dobbiamo salutare, qualunque cosa capiti, la prima rivoluzione cristiana della storia. Un Cristianesimo della divino-umanità deve essere in grado di assumere, al servizio della persona e della comunione delle persone, tutte le esperienze autentiche dei divino nelle grandi mistiche della storia, tutte le grandi creazioni dell'uomo, anche quando l'umanesimo si è detto ateo. Non abbiamo nulla da rigettare di tutto ciò che l'Europa moderna ha creato per quanto attiene alla bellezza, alla giustizia e alla scienza. Un Cristianesimo della divino-umanità darà il pieno senso al cercare dell'umano che un Cristianesimo degenerato aveva spinto all'ateismo. Il senso della giustizia, molto meglio di quello di Marx: perché fondato sul mistero dell'uomo, sulla sua capacità di superare se stesso, la sua coscienza finalmente chiamata e richiamata dalla trascendenza. Il senso della creatività, molto meglio di quello di Nietzsche, perché Dio si e fatto uomo affinché l'uomo diventi Dio, cioè vivente per sempre, e perché l'eternità non è il mito derisorio di un eterno ritorno, bensì una luce, un magnete che irraggia dal viso di Cristo. Il senso dell'Eros, meglio di ciò che ha detto Freud: perché l'Eros si compie nel parto o monastico o nuziale del corpo di gloria. Nella prospettiva della divino-umanità siamo chiamati ad elaborare una dialettica dell'uomo integrale, aperto, irriducibile, con tutte le sue dimensioni della terra e tutte le sue dimensioni del cielo. Dialettica dell'incarnazione, che renda conto non solo delle lotte sociali ma anche della lotta per la santità e per la bellezza e che testimoni quindi non soltanto di Spartaco e di Rosa Luxemburg ma anche di San Francesco d'Assisi e di Mozart. Che infine testimoni ed aiuti, perché l'Europa di un Cristianesimo creatore deve essere al servizio di una giustizia planetaria, ben sapendo che la morte dei corpi nell'emisfero Sud è soltanto la conseguenza della morte delle anime nell'emisfero Nord dei nostro stesso pianeta. Lo scisma del sacramento dell'altare e del sacramento del fratello finisce oggi, quando è il proletariato polacco che chiede il diritto di pregare e quando è il Papa che da Roma, dal Brasile o dalle Filippine, spiega l'esigenza della giustizia in nome dell'uomo, immagine di Dio. E' una nuova civiltà che dobbiamo fondare, non con delle ricette ma con dei valori, con uno stile di vita, dando la priorità ad un'etica, essa stessa alimentata dallo spirituale e dalla capacità di limitarsi, sia per essere veramente liberi che per condividere con tutti su scala planetaria. Una civiltà dove l'angoscia finalmente sarà guarita con la celebrazione, dove l'ascesi e la creazione trasformeranno la violenza; dove la scienza e la tecnica rispetteranno il mistero degli esseri e delle cose, dove il Cristianesimo si riconcilierà con l'Eros e l'Eros con la persona. Una civiltà dove la Chiesa sarà un fermento, luce, un respirare dello Spirito, un apprendimento della Comunione, testimonianza gratuita di gioia, di tenerezza e di bellezza. Noi cristiani d'Europa, quando la nostra esperienza storica era ancora breve e un po' "naïf", abbiamo costruito Santa Sofia e Chartres, i campanili romanici e gli edifici delle chiese romaniche. Dopo i tempi della dissociazione, quale rinascimento trasfigurato, quale divino-umanesimo potremmo far sorgere all'alba di questo terzo millennio, se sapessimo soltanto offrire la nostra lunga, tragica, feconda e contraddittoria esperienza alla luce della Comunione dei Santi. Questi Santi che attorno a S. Benedetto, S. Cirillo e Metodio nostri padri, hanno voluto tracciare ne cielo l'Europa come una costellazione.

J. Tischner:

La Polonia si trova oggi in una situazione paradossale. Per il cristianesimo polacco sono diventati importanti questioni che per gran parte dell'Europa non sono legate a problemi religiosi. In Europa sono vivi problemi come l'ateismo, il rapporto fede-scienza, l'atteggiamento dei cristiano verso la politica. Mentre in Polonia oggetto di interesse è diventata inaspettatamente la problematica dei lavoro. La Polonia sta passando attraverso la maggior crisi del lavoro della sua storia. Conosciamo tutti i suoi effetti. Meno conosciute sono le molle nascoste di questa crisi. Oggi vorrei spendere alcune parole su questo tema. Vorrei far notare l'opposizione fra l'interpretazione marxista del lavoro e la realtà effettiva dei lavoro. Questa opposizione è una delle fonti della nostra crisi. Il cavallo attaccato al carro, il cammello che trasporta un carico, il cane legato alla porta di casa non capiscono e non devono capire quello che fanno. L'uomo che venisse a trovarsi in situazioni simili dovrebbe capire. Il lavoro dell'uomo si distingue dal "semplice impiego di forza lavorativa" degli animali per il fatto che è fondato sulla facoltà della ragione e dalla ragione è determinato. La comprensione del lavoro fa parte dell'essenza del lavoro. Ma si può capire solo ciò che ha senso, che è comprensibile "in se stesso". Le cose e i fenomeni assurdi non si possono capire. Evidentemente si deve distinguere ciò che è sostanzialmente comprensibile ma per diversi motivi non è stato ancora compreso fino in fondo e ciò che è assurdo, che non è affatto soggetto a comprensione. Il lavoro appartiene al primo tipo di fenomeni. Non tutto in esso è chiaro, non tutto si lascia intendere all'istante, in un batter d'occhio - tuttavia risulta un fenomeno pieno di senso. Il lavoro che perde significato cessa di essere lavoro. Delineando questo senso nascosto, ancora sconosciuto del lavoro, ci serviamo di vari metodi di analisi. La scelta del metodo non consiste nell'assumere indifferentemente qualsiasi metodo e non resta senza influenza sui risultati raggiunti. Ogni cosa esige un metodo di analisi ad essa adeguato. A seconda del metodo dovremmo descrivere la natura del lavoro. Negli ultimi anni si è diffusa in Polonia una descrizione del lavoro basata sul cosiddetto "metodo dialettico". Quali aspetti del lavoro mette in luce questa descrizione? Quali aspetti lascia in ombra? La teoria dialettica del lavoro vede nel lavoro un "gioco" di forze in opposizione tra loro. Queste forze si confondono tra loro nell'unità degli opposti: sono in lotta, ma l'una senza l'altra non potrebbero esistere. Il lavoro è innanzitutto realizzazione della forza. La "tesi" lotta con l’antitesi, e da questo emerge la sintesi (alcuni spiritosamente dicono protesi), il frutto del lavoro. Attraverso il lavoro l'uomo domina la natura; grazie al lavoro egli entra nel sistema sociale di dipendenza da altri uomini. Il lavoro costruisce l'uomo stesso ("il lavoro ha umanizzato la scimmia" - ripetono con Engels i portavoce di questa concezione). La costruzione della comunità sociale è anche realizzazione della forza. Essa si manifesta principalmente nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione, degli strumenti. Chi è proprietario dei mezzi di produzione ha il potere sugli uomini. Il taglialegna, che va nel bosco con la propria scure, è un taglialegna indipendente; se la scure gli è stata data in prestito solo per il periodo di lavoro, il taglialegna è un essere dipendente dal possessore della scure. Il lavoro si lega quindi alla politica, cioè al sistema del potere - la contesa per la proprietà diventa contesa per il dominio e viceversa - domina solo chi ha potere sui mezzi di produzione. Questa descrizione esprime in modo adeguato la realtà contemporanea del lavoro? E il lavoro è la realizzazione della "dialettica delle forze"? Non possiamo qui entrare in tutta la complessità del problema. Facciamo dunque appello al buon senso. Notiamo innanzitutto: se l'essenza della realtà del lavoro fosse rappresentata dalla "dialettica della forza", il lavoro del cavallo che tira il carro e il lavoro dell'uomo che spinge la carrozzina col bambino è uno e identico. Qui e là abbiamo "tesi", "antitesi" e sintesi". Allargando il significato dell'idea di lavoro ad ogni caso di attività di qualsiasi forza, chiudiamo gli occhi su ciò che nel lavoro è un elemento specificamente umano: la "laboriosità" del lavoro. Il lavoro è manifestazione della "laboriosità" e la laboriosità è soprattutto una virtù morale e non solo forze. Più preoccupanti ancora sono le ulteriori conseguenze della "logica delle forze". Essa spinge a descrivere il lavoro facendo uso degli stessi concetti mediante i quali si descrive la lotta dell’uomo con le forze naturali e con l'altro uomo. Là dove c'è la lotta ci sono i nemici, c'è il pericolo della schiavitù e della morte. Mentre il lavoro esige qualcosa di diametralmente opposto: la pace, la comprensione e la fiducia, la collaborazione reciproca fra gli uomini. Se anche come esito ne deriva una dipendenza dell'uomo dall'uomo, è una dipendenza bilaterale, quindi diversa da quella della schiavitù classica o della sottomissione. Problematica sembra anche tutta la questione della proprietà dei mezzi di produzione. Il problema fondamentale del lavoro è la questione della proprietà dei frutti del lavoro. Non si tratta di stabilire di chi è la scure del taglialegna, ma per chi è l'albero che il taglialegna abbatte. Il problema del possesso e il problema del potere sembrano essere qualcosa di secondario rispetto al problema del lavoro. L'economia del lavoro ha le sue leggi e la politica le sue. Tutte queste ed altre simili ambiguità ci spingono ancora una volta a porre la domanda: che cos'è il lavoro?

Il dialogo del lavoro.

La parola "dialettica" deriva dalla parola "dialogo", e il dialogo non è uno scambio di forza e di violenza, ma uno scambio di parole aventi un senso, che ha luogo secondo determinate regole di questo scambio - secondo la "grammatica del linguaggio" largamente intesa. Siamo l'uno di fronte all'altro. Da questo tuttavia non consegue che siamo avversari. Ci poniamo delle domande, forse anche litighiamo. Ma perché tutto questo abbia un senso deve esistere fra noi una comunione di intese fondamentali; la domanda deve significare domanda, la risposta deve significare risposta, sì sì, no no. La dialettica è la logica interna del dialogo. La logica del dialogo è quella logica alla quale dobbiamo essere obbedienti, anche quando non possiamo arrivare ad essere d'accordo se il giorno è racchiuso fra due notti o piuttosto la notte fra due giorni. Anche la diversità delle opinioni testimonia la comunione. Di ciò appunto vuole convincerci la dialettica. Questo non ha nulla in comune con la lotta, la forza, la violenza, la schiavitù e il possesso. Se la logica del lavoro è una logica dialettica, ciò significa che è più una logica di comunione che una logica dei contrasti. L'essenza del lavoro non consiste nella realizzazione della forza, ma nella realizzazione di una forma di comprensione dell'uomo con l'uomo. Ciò che soprattutto colpisce nel fenomeno del lavoro è la sua comprensibilità. Il lavoro è comprensione. Comprensione significa nell'etimologia polacca "afferrare la ragione". Il lavoro è innanzitutto e dal suo inizio un "afferrare la ragione" e non il bastone della lotta. Si tratta di un modo ragionevole di rapportarsi con la terra e un modo ragionevole di unirsi agli altri uomini. Il lavoro ha un senso poiché ha uno scopo pieno. Scopo del lavoro è il raggiungimento del frutto corrispondente del lavoro - frutto che soddisfa un qualche bisogno umano. La logica del lavoro è situata nel campo determinato dalle parole: "noi, attraverso i frutti del lavoro, siamo per voi". Questa relazione è reciproca: anche loro, attraverso i frutti del loro lavoro, sono per noi. Il lavoro è "afferrare la ragione", comprensione, realizzata a questo scopo, affinché i suoi frutti corrispondano ai bisogni. Non possiamo tuttavia tacere qui ancora un aspetto dei lavoro: la sua storicità. Il lavoro è sottoposto a continue trasformazioni storiche: diversamente lavoravano i nostri antenati, diversamente lavoriamo noi. Il tempo della storia conferisce al lavoro un carattere profondamente drammatico. Il dramma del lavoro si collega strettamente con le trasformazioni nella concezione del lavoro. Semplificando: una cosa era considerata il lavoro un tempo, un'altra cosa è oggi. Questo si riflette spesso in modo tragico sulle sorti dei lavoratori. Le trasformazioni, nell'ambito della concezione del lavoro, sono dovute principalmente a due fattori: lo sviluppo della scienza e lo sviluppo dell'etica. Gettiamo un momento lo sguardo sull'uno e sull'altro. La scienza influisce sullo sviluppo degli strumenti di lavoro, sull'allargamento del campo delle materie prime, sulla moltiplicazione delle fonti di energia. Il nocciolo delle trasformazioni però non sta nella quantità, ma nella qualità. La logica caratterizzante il modo di pensare della scienza contemporanea è penetrata al fondo della realtà del lavoro e ha trasformato profondamente la mentalità dei lavoratori. Il lavoro è diventato terreno di divulgazione della scienza. In questo modo è sorta e si è diffusa la tecnica contemporanea. Oggi il progresso dei lavoro è il più delle volte interpretato come il livello della tecnica tipico di una data società. Meno considerato, ma spesso più essenziale è l'influsso dell'etica sullo sviluppo del lavoro. Il lavoro apre agli uomini la possibilità dì unirsi in diverse comunità di lavoro. L'etica indica i valori etici che devono servire le diverse comunità di lavoro (comunità di medici, di scrittori, di lavoratori della comunicazione, ecc.). Ogni lavoro serve al mantenimento e allo sviluppo della vita. Ma al tempo stesso serve i valori che determinano il livello e lo stile di vita. Il processo regolare dei lavoro esige che in una data società siano riconosciuti determinati valori etici: la giustizia, l'uguaglianza, la verità. Il carattere drammatico del lavoro fa sì che la realtà obiettiva del lavoro sia maggiore della sua comprensione da parte degli uomini. Il lavoro diventa, a partire da un certo punto e per un certo gruppo di persone, un fenomeno incomprensibile. In questo modo ha inizio la crisi del lavoro. Questa crisi può avere varie origini: può derivare dal progresso della tecnica o dalle trasformazioni nell’ambito delle sensibilità etiche. La crisi derivante dalla tecnica ha i suoi effetti sulle forme di lavoro arretrate. Invece la crisi causata dal progresso etico dà origine alla coscienza dell'essere sfruttati. Molto spesso entrambe queste disgrazie appaiono nel mondo assieme. La Polonia è diventata ultimamente luogo di una crisi del lavoro particolarmente profonda (acuta). Si dice che l'essenza di questa crisi è la scomparsa della fiducia tra il potere e la società. Ma questa è solo una parte di verità, nella sostanza la crisi è più profonda, consiste nel processo di disgregazione di una struttura di lavoro ragionevole. Una struttura di lavoro ragionevole è condizione della comprensione sociale. Si è spezzata la logica fondamentale del lavoro, al posto dell'armonia del lavoro abbiamo una sempre maggior cacofonia. Questa crisi ha due aspetti: anzitutto un aspetto storico. Nello stesso paese coesistono antiche forme di lavoro ormai superate e forme attuali altamente sviluppate: il cavallo che tira l'aratro coabita con il calcolatore con il quale il carrettiere può calcolare le perdite. Si approfondiscono le sproporzioni tra le qualità dei lavoro in Polonia. Le scuole educano gli ingegneri ma alle fabbriche mancano i macchinari. Si è spezzato il ritmo normale di sviluppo storico del lavoro. Abbiamo la televisione, ma ultimamente mancavano i badili. Molti contadini si sono costruiti i trattori con i propri mezzi domestici. L'immagine generale della situazione è semplice: quanto più il lavoro è primitivo, tanto più resiste alla crisi; c'è in questo fatto un certo ottimismo, non tutto il lavoro cede alla distruzione, alla cacofonia. Il secondo aspetto della crisi è l'aspetto della concezione del lavoro: si manifesta una grande opposizione fra il lavoro e la sua interpretazione marxista. Da una parte si giunge a salvare il sistema dei lavoro come sistema di comprensione sociale fra gli uomini. Dall'altra si interpreta il lavoro sulla base delle categorie derivanti dalla dialettica delle forze. Quindi il lavoro deve essere una lotta, lavorando lottiamo. Contro chi? A questo punto si apre un campo d'azione per l'immaginazione dei politico. Dal momento che esiste la lotta si deve trovare un oppositore. Si cercano perciò nemici ovunque, ma solo non là dove essi sono. E infine la questione della proprietà dei mezzi di produzione. Siamo nel cuore dei sistema marxista. E' migliore il melo statale senza mele che non il melo privato carico di mele. Nell'interpretazione del lavoro come comprensione la questione della proprietà dei mezzi di produzione non è di primaria importanza. Questione primaria è la funzionalità e l'armonia del lavoro. Nella dialettica della forza, la funzionalità e armonia sono secondarie, la proprietà è primaria. Il lavoro diventa terreno di lotta per il potere. In sostanza non si tratta dei fatto che sui meli crescano le mele. Questa situazione è illustrata perfettamente dal linguaggio dell'ideologia e della propaganda da noi diffuso. Non è un linguaggio che descrive quello che c'è, ma un linguaggio che preme nella direzione di ciò che si vorrebbe ci fosse. Con questo linguaggio si fa pressione in vari modi: con la paura, con i moniti, con le richieste ed anche mostrando la sofferenza del potere-sofferenza caratteristica della virtù perseguitata. Giustamente, che valore ha infatti una virtù non perseguitata? Questo linguaggio svolge un ruolo importante nella creazione delle illusioni. Esso nasconde la dipendenza reciproca degli uomini nel sistema del lavoro. E' come se qualcuno fosse in cima ad una scala e lanciasse invettive contro coloro che in basso tengono ferma la scala. Penso che questa immagine grottesca abbia un secondo aspetto più serio: testimonia la crisi della concezione dei lavoro. La concezione dei lavoro è parte dell'essenza del lavoro. L'uomo non può lavorare se non comprende il proprio lavoro. L'uomo sa che il lavoro che non serve la comprensione non è più lavoro. Da qui la domanda drammatica: che cos'è in realtà il lavoro? Questa domanda è parte integrale della nostra crisi del lavoro in Polonia.

E. Levinas:

La religione o la spiritualità religiosa può svolgere un ruolo in seno alle difficoltà nelle quali si dibatte l'umanità europea? L'esperienza della crisi europea del ventesimo secolo ha modificato o meno la coscienza religiosa? Ecco due domande che vorremmo porre. Rispondo alla prima domanda. Notiamo dapprima che la spiritualità religiosa, che si volge alla finalità essenziale dell'umano, sembra sempre agire da lontano, lontano dalle preoccupazioni immediate e fuori stagione, senza nessuna presa sugli eventi. Siamo portati a vedervi fantasia, un aspetto "naïf", e persino malafede, interessi soggettivi e privati da difendere. L'unico è il discorso scientifico. Solo l'azione tecnica, già avvolta negli interessi politici, appare degna degli uomini adulti, cioè moderni, che siamo oggi. Tutto il resto è ideologia. Nella gamma dei relativismo e degli scetticismi morali della saggezza occidentale odierna, il sospetto di ideologia segna probabilmente la fine di una tenuta morale dell'uomo e della sua coscienza. Un tempo la variazione dei valori tramite la storia si attutiva ancora nella misura in cui si lasciava capire come un razionalismo progressivo del pensiero medesimo; da Marx e Freud sappiamo che l'apparenza può essere più forte della ragione che la denuncia, che l'arte logica chiamata alla demistificazione corre ancora il rischio dì essere una mistificazione. Però noi occidentali siamo arrivati abbastanza lontano e profondamente nella nostra modernità, siamo stati ossessionati abbastanza da queste ideologie per arrivare a pensare ora che il discorso scientifico o l'azione politica non sfruttano e non svuotano tutte le manifestazioni del sensato, che il tempo è venuto di stare attenti alle grida, alle parole-grido che echeggiano fuori da qualsiasi sistema speculativo o politico, senza pertanto finire nella follia, nella retorica o in fonti di illusione. Forse nell'organizzazione matematica dello scibile e nella pianificazione della nostra amministrazione e della nostra economia non abbiamo potuto, in un passato irreversibile, capire e captare ciò, in questo XX secolo, che era tanto tronfio di questa cifra bella, rotonda, XX secolo, e che ormai è diventato una realtà di due guerre mondiali in trent'anni, che hanno rovinato le basi della società, di totalitarismi di destra e di sinistra, stalinismo, fascismo, Auschwitz, Gulag; una realtà di disoccupazione, della disperazione più duratura, di miseria, di fame e di sfruttamento nel terzo mondo, che in questo secolo appartiene ormai alla nostra civiltà. Forse alla fine di questo secolo cui ci avviciniamo, nulla è più sicuro che non il ritorno a tutto ciò che ho pronunciato finora, queste parole terribili che ho pronunciato ora. Forse queste grida, queste urla che possiamo sentire echeggiano nella memoria le parole profetiche della Bibbia, tutte quelle voci che hanno nel passato già urlato nel deserto e che già allora parlavano del mondo organizzato dove si vendeva il povero per un paio di ciabatte. Sono qui molto modesto e vedo in questo risveglio appunto un appello, un appello al religioso; infatti non è esatto dire che nella nostra modernità avanzata sussiste ancora o riappare un valore, fuori della verità scientifica e della probità dei ricercatore, che sono valori al di sopra di qualsiasi contestazione assiologica. Sopra di tutto sopravvive il valore dell'uomo, valore che si sostiene anche quando lo si contesta, sopravvive la priorità dell'altro, che l'astratto riconoscimento dei diritti dell'uomo non riesce ancora ad assicurare, ad ancorare nella sua freddezza giuridica: ecco una certezza residua che fuoriesce dal nostro scetticismo morale e dove, probabilmente, sentiamo annunciarsi una modernità più moderna: una certezza moderna quindi, nella misura in cui consiste nel fiutare, fiutare violenze anche là dove la società sembra equilibrata, retta da leggi, sottoposta a un potere che assicura l'ordine e nonostante tutte queste apparenze l'ingiustizia regna. La certezza morale è scomparsa nella misura in cui l'esperienza del XX secolo è stata quella di un certo fallimento, anzi di un fallimento certo delle rivoluzioni, che non riescono ad avere il sopravvento ed a creare una breccia nel sociale e nel politico che ricominciano e che sono ingiusti non appena sono instaurati, temendo le catastrofi precedenti del secolo. Certezza del valore dell'altro uomo, che differisce altresì e in questo modo dal progressismo occidentale tradizionale e che si volge verso un profetismo antico o almeno verso queste preoccupazioni del profetismo; c'è un nuovo suono, una nuova sonorità nell'esigenza di giustizia e una strana verità nata e scaturita dalla grande esperienza degli stati. In questa nostra Europa certo è ben diverso dai secoli passati: nei nostri stati ciò che è dovuto a Cesare è rimasto separato da ciò che e dovuto a Dio; però forse non abbiamo captato che ciò che è dovuto a Dio è prima di tutto la responsabilità stessa nei confronti dell'altro uomo, abbandonandola alle istituzioni. Tutto ciò avviene in Occidente come se la giustizia - ed è questa la grande rivelazione, è qui che comincia la rivelazione religiosa - si autoaccusasse, diventasse senile non appena le istituzioni politiche si accingono ad esercitarla. Tutto avviene nonostante tutto il ricorso che facciamo alle scienze dell'uomo, alle dottrine, ai riferimenti alla ragione, alle tecniche della rivoluzione. L'altro uomo invece va protetto perché possa apparire nella sua alterità santa, ma nessuna amministrazione è in grado di far rispettare questo. Si è cercato di scaricare queste ingiustizie sulle istituzioni, ma l'io che io sono deve esercitarsi sull'altro, come se nell'uomo esistesse una dimensione che la burocrazia impersonale, anche se di origine rivoluzionaria, nasconde, facendo entrare l'aspetto singolare dell'altro sotto l'aspetto di una falsa universalità. Un aspetto singolare che non si può ridurre al semplice individuo, non si può ridurre all'individuo umano e chiama all'etica. Forse è questo un sospetto di nostalgia per la profezia e il profetismo dell'Occidente. Qui vediamo aspetti ideologici: qui noi siamo in riposo ideologico, siamo in una situazione acquisita, contenti di noi stessi. Non esiste più l'interrogarsi sull’io che vuole avvicinarsi all'altro, non esiste più ciò che significa la mia responsabilità per l'altro, la mia responsabilità per l'altro uomo, l'aspetto paradossale, la responsabilità quasi paradossale - per una libertà avulsa - di cui parla Ezechiele nel cap. 20, nel cap. 9, responsabilità appunto che va secondo una parola audace fino alla responsabilità per la responsabilità dell'altro. Ecco quindi sul volto dell'altro uomo nascere e sorgere un'altra esigenza, rispetto a quella dell'ordine impersonale: un appello alla vera giustizia, il rifiuto dell’ingiustizia, che è venuto a mancare nelle nostre imprese politiche, nelle esperienze dei passato. E questo non ci precipita nell'ideologia, è qui senza dubbio che dobbiamo capire oltre a tutte le divergenze ideologiche il senso e il sentimento dell' "intellighenzia", occidentale e la sua attenzione volta ai temi biblici. Questo per la prima domanda. Le prove dei XX secolo - per la seconda domanda - non hanno forse creato delle modalità alla spiritualità che vengono dal passato? Forse questo è il fatto più rivoluzionario della nostra coscienza nel XX secolo, nonostante gli eventi della storia santa, come la distruzione di qualsiasi equilibrio fra la teodicea esplicita e implicita dell'animo occidentale, che si ritrova inerme davanti al male del mondo, nonostante le forme che la sofferenza e il male presero nello svolgersi del XX secolo e sulle quali ho voluto insistere; sofferenze appunto e flagelli imposti agli uomini in modo deliberato, ma che nessuna ragione limitava, nel l'esasperazione della ragione politica svincolata da qualsiasi etica. E' dramma della storia santa, perché rischiamo perfino di rendere impossibile qualsiasi fede, in questo senso è dramma della morte di Dio, di cui Nietzsche aveva parlato in modo profetico fin dalla fine del XIX secolo. Forse non dobbiamo stupirci che questo dramma della storia santa conti fra i suoi attori principali un popolo, che da sempre è stato associato a questa storia. Quindi si avrebbe torto a far dipendere il suo destino da dei nazionalismi, anche se questi sono necessari in certi momenti della storia alla sopravvivenza di questo popolo; popolo le cui gesta, in certe circostanze, appartengono poi anche alla rivelazione, fosse solo come apocalisse, che ai filosofi dà molto da pensare e alla cui tragedia è difficile pensare oggi. Per me tutte le torture dell'umanità del XX secolo, da Guernica alla Cambogia o da Sarajevo a Teheran, nascono dai fumi tremendi di Auschwitz. Il problema religioso e filosofico posto dalla crisi politica dell'Europa odierna, dagli eventi che l'hanno amplificata e dalle minacce che ancor oggi pesano su di essa, riguarda il senso stesso - ed è questo un grande problema religioso - che si può ancora conservare dopo la fine della teodicea (perché la teodicea non è più possibile): si tratta della sofferenza dell'altro. La fine della teodicea è il fine che aspetta la moralità umana. Un filosofo ebreo canadese in un libro tradotto recentemente in francese pone questo problema specifico per gli ebrei, per lui infatti Auschwitz comporterebbe in modo paradossale una rivelazione del Dio che taceva, un comando alla fedeltà. Rinunciare dopo Auschwitz a questo Dio di Auschwitz assente dal mondo, non assicurare più la continuità d'Israele, significa dare l'ultimo tocco all'impresa criminale del nazionalsocialismo, che mirava ad annientare Israele e a far dimenticare il messaggio etico della Bibbia; la storia millenaria del popolo ebreo nelle sue difficoltà ne è testimonianza perché se nei campi di sterminio questo Dio non è intervenuto, il diavolo certamente era presente. Da lì per questo filosofo l’obbligo per gli ebrei di vivere, di vivere e di rimanere fedeli, per non trovarsi associati a un progetto diabolico. Ne voglio parlare qui perché la riflessione finale che egli espone, formulata in termini che parlano del destino del popolo ebreo; può essere espressa in modo universale: l'umanità infatti, che ha assistito da Sarajevo fino ad oggi a tante crudeltà - che riguardano sempre gli altri perché noi siamo i sopravvissuti in questo secolo dove, unica, l'Europa nella sua scienza umana è riuscita ad andare fino alla fine dei suoi fini -, l'umanità, che in tutti questi orrori aspirava già a vivere, respirava nonostante i fumi dei forni crematori della soluzione finale, dove la teodicea è scomparsa. Questa umanità indifferente abbandonerà il mondo alla sua sofferenza inutile, alla sua sofferenza per nulla e potrebbe andare così, fino a una politica della fatalità, alla deriva con le forze cieche che danno il "guai ai vinti" - vae victis - e ai deboli. L'umanità va in questa direzione, verso l'impossibilità di arrivare ad un ordine o ad un disordine, - pensiero diabolico - che si continuerebbe nel tempo, oppure, e questa è la mia domanda, in una fede più difficile di prima, una fede senza teodicea, vorrà continuare una storia che si richiama alle fonti e che nella sofferenza dell'umanità ispirata dall'altro uomo dà a ciascuno la possibilità di richiamarsi alla sua compassione: così che è una sofferenza non inutile, che non è più una sofferenza per nulla, ma che sin dall'inizio ha un senso. Forse ci ritroviamo come il popolo ebreo nella sua fedeltà, forse siamo tutti chiamati, dopo questa alternativa, alla fine di questo XX secolo, dopo il dolore inutile e che nulla può giustificare cui siamo stati esposti senza nessuna ombra protettrice della teodicea. C'è in questa fede, in questa fede difficile senza teodicea, una nuova modalità della fede odierna e persino delle nostre certezze morali. Modalità essenziale alla modernità che sorge, che urge. Kant, quando commenta il libro di Giobbe, scrive: in questo modo Giobbe avrà provato che non fondava la sua moralità sulla fede bensì la fede sulla moralità; e in questo caso la sua fede, anche se debolissima, era di una specie autentica e pura, di una specie che fonda non una religione dei favori sollecitati, bensì una vita. Ecco quello che volevo dire; per riassumere la prospettiva che mi appare davanti vorrei dire che dobbiamo insistere a far apparire nella nostra esperienza politica e spirituale delle forme di rapporto tra gli uomini che decisamente siano un taglio con il passato: sia rispetto all'uomo naturale che pensa soltanto a se stesso o che l'uomo è un lupo per gli altri, sia però anche rispetto a una società politica che si limita alle leggi e alle istituzioni. La reciprocità dei doveri sociali, reciprocità assicurata dalle istituzioni, è certamente migliore rispetto all'egoismo naturale, ma può anche diventare impersonale in lino stato totalitario, inumano e crudele. Ciò che ci viene dal fondo dell'evo antico, ciò che torna oggi nell’attualità, è forse appunto ciò che mancava alla nostra vita politica: un nuovo ordine fra gli uomini che si potrebbe chiamare amore dei prossimo - per riprendere la parola biblica - e che non si confonde certo con il funzionamento di un egualitarismo vuoto. Ecco la modernità più moderna, scaturita dagli orrori dei XX secolo e che non dimentica nessuno. Questa umanità è già stata persa nella città dove la legge stabilisce obblighi mutuali tra cittadini. L'interumano biblico sta nella non indifferenza degli uni nei confronti degli altri, prima che la reciprocità di questa responsabilità riesca a iscriversi nelle leggi universali e impersonali e venga ad annullare o anche solo ad attutire l'altruismo, perché l'amore di questa responsabilità è scritta nell'etica dell'io prima di qualsiasi contratto sociale. Il contratto sociale è invece il momento di reciprocità, dove si spegne l'altruismo del disinteresse, è un contratto che plasma l'ordine delle istituzioni; che sono guardiane della società, della politica, delle istituzioni prima e dopo l'etica, ma non è certo un compimento necessario dell’etica. Nella sua posizione etico-religiosa - ecco la posizione religiosa -, l’ego è distinto sia dal cittadino nato dalla città, sia dall’individuo che procede secondo il suo egoismo naturale. L'ordine che sta nella filosofia politica, come l'ha detto Hobbes, è cercare di trarre e di far scaturire l'ordirle sociale, politico, dalla città e dalla società. Ecco quello che ho voluto dire, in un linguaggio ottimista secondo me, forse un po' più ottimista rispetto ai miei colleghi; ho voluto distinguere ed enucleare l'apparire di una coscienza religiosa in una società che è nata da un ordine prettamente istituzionale. Grazie.