venerdì 28 agosto, ore 11

L'UOMO CAPITALE DELLA MEMORIA

incontro con:

Alexander Tisma

jugoslavo, scrittore, le sue opere sono tradotte in numerose lingue

conduce l'incontro

Davide Rondoni

Uno scrittore, dopo anni, rilegge le pagine di un suo diario personale che ha tenuto fin dalla giovinezza, ed inaspettatamente vi scopre l'avvenimento che un giorno ha ridestato in lui la memoria e l'impeto dello scrivere.

A. Tisma:

Penso che esistano due tipi di memoria: una diretta e l'altra a scoppio ritardato. Allo stesso modo, esistono delle bombe che esplodono immediatamente ed altre che esplodono un'ora o diverse ore dopo essere state poste in un luogo. La differenza consiste nel fatto che il tempo della nostra memoria non è il tempo dei nostro orologio, e così può accadere che la nostra memoria, quella a scoppio ritardato, esploda dopo molto tempo e senza che ce lo aspettiamo minimamente. Quello che vi dico ora, questa piccola teoria su due tipi di memoria è il risultato della mia recente esperienza, l'esperienza col mio diario. Tengo un diario da quando avevo diciotto anni, più precisamente dal settembre 1942. Non lo scrivo tutte le sere, ma solo se mi accade qualcosa che meriti di essere memorizzato, di essere trattenuto nella memoria. Poiché un diario è anche una memoria artificiale, esso è anche un mezzo per conservare per l'avvenire gli avvenimenti che altrimenti sarebbero dimenticati.

Dico che un diario è anche questo perché evidentemente non è solo questo, cioè una memoria artificiale. In particolare, un diario, un diario intimo, il cui scopo non è di essere pubblicato, è anche l'ambito in cui si trattano e si discutono i problemi apparsi durante un giorno, o un'ora, o un periodo più lungo o più corto, soprattutto se si tratta di un problema strettamente intimo. Ma il problema viene dopo l'avvenimento. Per avere un problema, occorre anzitutto che accada qualcosa: un incontro, un dialogo; oppure un avvenimento di più ampio significato, un incidente, un litigio o una guerra. Quando cominciai il mio diario, l'avvenimento generale era la guerra. A quel tempo la guerra durava per me già da un anno e mezzo, dal settembre 1942. In Jugoslavia, dove vivevo e dove vivo ancora, la guerra scoppiò nell'aprile 1941, quando una domenica gli aerei tedeschi bombardarono Belgrado, naturalmente senza dichiarazione di guerra, come era la norma hitleriana e mussoliniana in quegli anni. La Jugoslavia fu invasa in dodici o tredici giorni, e divisa in diverse parti. Una parte divenne la Croazia autonoma, una parte fu occupata dalla Germania, una dalla Bulgaria, una dall'Italia, una dall'Ungheria.

La parte dove io vivevo e vivo, il nord della Jugoslavia, era occupata dall’Ungheria, governata dal reggente Horthy. Fin dalla loro entrata le truppe ungheresi finsero un attacco armato di non-ungheresi contro di loro, e per rappresaglia fucilarono alcune centinaia di Serbi ed Ebrei, commercianti e intellettuali. Nel gennaio 1942, per evitare di partecipare più a fondo sul fronte dell'est, come esigevano i Tedeschi, le truppe ungheresi organizzarono una retata che durò tre giorni, durante la quale duemila abitanti della mia città, Novi Sad, furono uccisi; più della metà era costituita da donne e bambini. lo ero tra le vittime potenziali e tenevo le mie mani alzate mentre i soldati, con le baionette innestate, frugavano l'appartamento e s’informavano dai nostri vicini ungheresi se noi eravamo contro o per il regime, cioè se dovevano fucilarci o no. Parlo di questi avvenimenti perché erano memorabili e pure non trovavano spazio nel mio diario, diario che dovrebbe essere la mia memoria scritta. Questo fatto sorprendente non lo conosco precisamente, se non da qualche mese. Fino ad allora non mi ero preso la briga di leggere il mio diario, avevo delle altre cose da leggere che mi sembravano più interessanti. Ma siccome penso di essere arrivato al termine della mia creatività letteraria comincio lentamente a sistemare i testi che avevo scritto nel passato ma mai pubblicati per una ragione o per un'altra. Così da qualche mese mi occupo della battitura dei testo dei mio diario. Riferendomi agli anni dal 1942 al 1945, quando ero esposto all'occupazione, ai rastrellamenti, ai bombardamenti, alle notizie dell'uno o dell'altro dei miei amici che era stato arrestato, torturato, condannato a morte, impiccato o fucilato, quando io stesso mi trovavo sempre sul filo del rasoio, prossimo a diventare una vittima come loro, quasi nessuno di questi avvenimenti sono commentati nel mio diario. Si capisce solo dai nomi delle città scritte vicino alle date, che io cambiavo spesso luogo, lasciando ad esempio la mia città Novi Sad e partendo per Budapest, dove il pericolo che mi potessero arrestare a causa dei miei legami con i combattenti clandestini era meno grave, o che mi trovavo nelle montagne della Transilvania dove mi avevano deportato in un campo di lavori forzati per scavare le trincee contro i carri armati sovietici. Se voi leggeste le pagine del mio diario riguardo questo periodo transilvaniano vi trovereste più che altro delle descrizioni della montagna sotto la nebbia che si formava ogni sera attorno alle cime come una collana di ovatta, oppure delle espressioni dei miei sentimenti - di simpatia e qualche volta di antipatia - verso qualcuno dei miei compagni di sventura o verso i nostri carcerieri. Non è per un vezzo che nel mio diario io mi concentro su questi fatti ed espressioni personali invece di occuparmi della storia. La storia mentre viene vissuta è sempre all'ombra del quotidiano, la storia è qualcosa di ovvio, che va da sé, mentre il quotidiano ci prende alla gola come la mano dell'assassino dietro l'angolo. E’ lui, il quotidiano, che suscita dei sentimenti mutevoli e contraddittori, sentimenti che impongono di essere descritti ed analizzati in un diario che si tiene. Per me la vita quotidiana, data la mia età ed il mio temperamento, consisteva nella volontà di diventare scrittore e nelle tentazioni sensuali della mia adolescenza che si opponevano alla mia volontà. Dal conflitto di queste due preoccupazioni nascevano continuamente delle questioni morali, dei problemi di coscienza, sia verso di me, verso il mio dovere di impiegare tutta la mia energia a servizio del mio scopo, della mia ambizione senza perdere tempo altrove, sia verso gli esseri che stimolavano il mio amore, la mia passione e nei quali io a mia volta suscitavo l'amore. lo non mi credevo degno di quelle creature né sentivo di avere dei diritti come loro, proprio a causa della mia ambizione artistica che m’impediva di appartenere a qualunque altra causa, a qualunque altro essere con tutto il cuore. Il mio diario riflette fedelmente questi dilemmi che d'altronde non cessarono di porsi neppure quando la guerra era finita, quando avrei potuto finalmente abbandonarmi al mio lavoro. La questione si poneva subito: che tipo di lavoro? Su cosa? Su quello che io provavo di giorno in giorno? Sui miei appetiti carnali, sulla mia volontà artistica allo stesso tempo eccessiva e timida? Tutto ciò mi sembrava facoltativo, troppo leggero, troppo personale e per quest’indegno dello sforzo creativo dell'arte. Ma un giorno appresi la notizia della morte della proprietaria di una casa di tolleranza della mia città; essa entrava in conflitto con una nuova legge che proibiva il suo mestiere, e siccome era già vecchia e non poteva adattarsi a un nuovo modo di vivere si era uccisa. Non conoscevo questa donna se non superficialmente, e benché un tempo io frequentassi la sua casa non la menzionavo mai nel mio diario, poiché non era che un intermediario con le giovani donne che m’interessavano. Ora che ero divenuto testimone a distanza della sua fine tutta la sua figura emergeva nella mia memoria, tutto il suo comportamento, i suoi modi di fare, le sue parole, la sua voce, il suo sguardo, tutto quello che avevo sentito su di lei e da lei stessa sulla storia della sua vita di giovane donna, della sua caduta morale e del suo sforzo immenso di costruire, a partire da questa caduta, una vita regolare.

Ma era una sua illusione, perché la società aveva cambiato le regole e lei doveva pagare questo cambiamento con la sua vita. Scrissi un racconto su questa donna, che divenne il mio primo testo letterario coronato dal successo. Questo racconto non conteneva solamente la sua vita la sua sorte, ma dipingeva anche coloro che frequentavano la sua casa, le ragazze che vi si guadagnavano la vita, e gli uomini che vi andavano per raggiungere dei momenti d'estasi. Io descrivevo come la guerra e il dopoguerra si riflettevano sulla casa d'Ibi - era il suo nome, e il racconto s’intitolava La casa di Ibi, come l'occupazione sostituiva la clientela di una volta, commercianti, servi ed ebrei, con degli ufficiali ungheresi e tedeschi e come la fine della guerra introducesse un nuovo gruppo di possidenti. Esplorando la verità su di essi mi servii della memoria e improvvisamente tutto ciò che era sepolto si animò, il comportamento delle truppe e quello dei cittadini, gli arresti, i rastrellamenti, le esecuzioni. E questo irrompere, quest’esplosione di cose vissute mi fece comprendere tutta la tragica condizione di vittima di quella donna che si era suicidata, tutta la sua impotenza verso quello che noi chiamiamo la storia, tutta l'impotenza di noi tutti davanti a questi avvenimenti generali e tutta la compassione che meritano coloro che sono diventati vittime, mentre noi altri siamo sopravvissuti.