Uno sguardo positivo sulla realtà: la cooperazione tra i popoli

Incontro promosso da AVSI

Riflessioni sul rapporto tra povertà e debito nelle aree mondiali del sottosviluppo

 

 

Giovedì 27, ore 16.30

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Relatori:

Hanna Gronkiewicz Waltz, Presidente della Banca Centrale di Polonia

Diarmuid Martin, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

Daniele Giusti, Direttore Sanitario Ospedale Diocesano di Matany (Uganda)

Rino Serri, Sottosegretario di Stato Ministero degli Affari Esteri

Giuseppe Andreozzi, Direttore Ufficio Nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese (CEI)

Patrizia Toia, Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri

Stefano Boco, Senatore della Repubblica Italiana

Gian Guido Folloni, Presidente del Gruppo Federazione CDU

Moderatore:

Alberto Piatti

Gronkiewicz Waltz: Sono da sei anni presidente della Banca centrale di Polonia, un paese che è un notevole debitore pur non essendo un paese povero; dobbiamo ancora rimborsare 31 miliardi di dollari circa. Sono debiti che abbiamo contratto negli anni Settanta e che ripagheremo completamente nel 2012.

I due termini che sono al centro di questo incontro, la povertà e l’indebitamento, potrebbero essere oggetto di lunghi dibatti, circa ad esempio il tipo di povertà e il livello di indebitamento che ci dovrebbero preoccupare maggiormente. Alcuni possono infatti ritenere che la realtà sia semplicemente uno stato in cui ci sia una fame ad oltranza, altri invece possono ritenere che sia uno stato di minore prosperità rispetto ai paesi circostanti. In un determinato tipo di situazione ci si può preoccupare dell’entità del deficit fiscale o dell’indebitamento pubblico, ma in altre situazioni ci si può preoccupare della capacità di pagare gli interessi sui debiti.

C’è una definizione molto popolare delle zone di sottosviluppo, che si riferisce al livello di Prodotto Interno Lordo pro capite che si registra in questi paesi. Il programma di assistenza del Fondo Monetario Internazionale per i paesi poveri ad elevato indebitamento, ha definito come "poveri" i paesi che non sono in grado di togliersi da una determinata situazione facendo leva soltanto sulle proprie risorse, per una combinazione di diversi fattori: gli effetti esterni, per esempio le condizioni degli scambi commerciali, le lotte civili, una cattiva gestione delle riserve in valuta estera, l’incapacità di effettuare riforme strutturali, l’attuazione di politiche imprudenti nella contrazione continua di nuovi debiti. Desidero appunto parlarvi di questa iniziativi del programma di assistenza del Fondo Monetario di assistenza per i paesi poveri ad elevato indebitamento, perché spesso le istituzioni finanziarie vengono criticate per non risolvere i problemi dei paesi poveri oppure per non risolvere i problemi di indebitamento.

In base a questa iniziativa, il Fondo richiede la cancellazione dell’80% dell’indebitamento corrente dei debiti dovuti ai paesi più ricchi, che hanno concesso il prestito caso per caso. Ci sono alcune precondizioni per tutto questo, per esempio il mantenimento di una disciplina finanziaria per tre anni, fino a quando si raggiunge una situazione in cui il servizio del debito non richiederà più del 20/25% dei proventi delle esportazioni annue del paese debitore. Questa iniziativa richiede la messa a punto di una strategia individuale per ciascun paese; richiede la definizione di un periodo triennale durante il quale il paese beneficiario deve dimostrare la sua disponibilità ad utilizzare razionalmente l’opportunità concessa dalla cancellazione del debito; prevede la messa a punto di meccanismi finanziari per impedire situazioni in cui certe azioni intraprese dai paesi prestatori possano migliorare i mercati finanziari interni e quindi rappresentare una situazione di pericolo. Queste sono le condizioni alla base della richiesta della cancellazione dell’80% dell’indebitamento corrente. Attualmente, sono sei i paesi poveri - Benin, Bolivia, Burkina Faso, Guyana, Mali e Uganda - che hanno accettato queste condizioni poste dal Fondo Monetario Internazionale e dalla iniziativa della Banca Mondiale.

Talvolta considerare il PIL pro capite come una misura della povertà di un paese è una eccessiva semplificazione. Sono importanti anche le politiche fiscali e dei redditi; per esempio, se anziché supportare l’assistenza sanitaria, l’educazione in generale e l’istruzione, i fondi vengono incanalati per l’acquisto di nuovi tipi di armi, allora questa non può essere definita una scelta giusta per assicurare al paese un futuro migliore. In questo caso si tratta non tanto di colpa del creditore ma di colpa del debitore.

Osservando la situazione in Russia si può vedere quello che è il rischio sia da parte del debitore che da parte del creditore. I creditori vogliono, anche nel caso della Russia quando l’inflazione era al 10%, semplicemente un profitto rapido, il più veloce possibile, malgrado tutti i rischi connessi. Un altro peccato del creditore è lo stipulare accordi con paesi non democratici: questo è stato il caso dell’Ungheria, della Polonia, della Bulgaria e di altri paesi. Sono i debiti degli ani Settanta, quando questi erano paesi comunisti, non governati democraticamente. I banchieri che elargivano i crediti credevano più ad una banca pianificata centralmente di quanto non ci potessi credere io che vivevo all’interno del paese.

Ci sono naturalmente anche i peccati dalla parte del debito, ad esempio quando il debitore cerca di prendere a prestito del denaro contando soprattutto sulla possibilità di riscattare questo denaro. Prendere a prestito è una cosa, ricevere è un’altra cosa e non si può pensare che ad un certo punto il prestito si debba mutare in una donazione. Un altro peccato da parte dei debitori è la corruzione dei governi: molto spesso il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale concedono fondi che vengono però utilizzati dai membri del governo per costruire delle bellissime case per sé medesimi, quindi la popolazione non ne può trarre benefico; a questo punto non si deve accusare la Banca Mondiale quanto piuttosto il governo corrotto del paese. La mancanza di un buon governo è un errore dei debitori: un esempio di questo è la crisi in Asia, in cui si è visto che cosa succede per la mancanza di un buon governo, pur non essendo coinvolti in questa crisi paesi poveri.

La crescita economica corrente non è endogena ma esogena per sua natura e quindi non è dovuta esclusivamente al livello della ricchezza accumulata ma dipende anche dalla distribuzione del reddito. E più c’è investimento a livello dell’infrastruttura per lo sviluppo e più si può ottenere una crescita economica ben bilanciata ed equilibrata; per questo, ancora non sono sufficienti i progetti e gli accordi a lungo termine che si basano sul capitale umano. AVSI è un esempio eclatante di come si possa investire in capitale umano e si possa insegnare agli altri come trarre il massimo beneficio dalle proprie capacità.

La lotta contro la povertà richiede il prendere a prestito del denaro per poter acquistare delle canne da pesca, per esempio, e insegnare a imparare a pescare, non tanto invece per donare per l’ennesima volta del pesce che servirà semplicemente a fornire un misero pasto a troppo poche persone. Gli insegnamenti sociali della Chiesa forniscono una premessa ottima per rompere quello che è il triangolo vizioso di arretratezza, dipendenza economica e perdita di dignità umana. Questo decennio ha dimostrato quanto importanti fossero queste parole contenute nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, ovvero che il sistema globale, dal punto di vista monetario e finanziario, è contrassegnato da un eccessivo cambiamento a livello dei metodi di scambio e di interesse; tutto questo a svantaggio della bilancia dei pagamenti e della situazione dell’indebitamento nei paesi più poveri. La politica svolta in questo decennio non ha funzionato pienamente, come si vede dalle grandi crisi nel sud America, nell’Europa centrale ed orientale e adesso in Russia.

Martin: Il Santo Padre ha indirizzato un saluto ai partecipanti al congresso sui diritti umani promosso dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace in cui ha affermato: "Le condizioni economiche e sociali in cui vivono le persone, assumono oggi giorno un’importanza particolare. La persistenza della povertà estrema che contrasta con l’opulenza di una parte della popolazione, in un mondo caratterizzato da grandi progressi umanistici e scientifici, costituisce un autentico scandalo, una di quelle situazioni che ostacolano in modo molto grave il pieno esercizio dei diritti umani nell’ora attuale".

Il fatto che la povertà estrema continui ad esistere nel nostro mondo è uno scandalo. Non si può ad esempio non ricordare la crisi economica dell’Asia. Quando noi leggiamo i giornali o guardiamo la televisione, si parla di questa crisi generalmente in termini di valuta di borsa, però non si parla del fatto che nella sola Indonesia in poche settimane, 30 milioni di persone sono ricadute nella povertà estrema. Persone appena uscite dalla povertà attraverso il loro lavoro sodo di cui anche l’Occidente è beneficiario, 30 milioni di queste persone sono di nuovo in una situazione di povertà estrema.

Lavoro da undici anni al Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e il primo compito che ho avuto, alla fine del dicembre 1986, era di correggere le bozze di un documento sul tema del debito internazionale. Questo documento si caratterizzava per la scelta di due direttrici: la soluzione del problema del debito è questione urgente; la soluzione si trova solo nel contesto della solidarietà dei paesi ricchi e paesi poveri, del mondo delle finanze e delle organizzazioni internazionali. A undici anni dalla pubblicazione di quel documento il problema del debito rimane urgente, e costruire una rinnovata solidarietà rimane ancora tra le sfide più urgenti alla famiglia delle nazioni e alle sue istituzioni. Aggiungerei ora un terzo principio per quanto riguarda il debito: occorre procedere alla rapida e flessibile applicazione dei nuovi termini della riduzione del debito, nei confronti del maggior numero dei paesi possibile. Questo non è un compito impossibile. Mentre noi parliamo e discutiamo, mentre le istituzioni conducono i negoziati, sono i poveri che pagano i costi dell’indecisione e dei ritardi.

Il governatore della Banca polacca ha appena fatto riferimento a due cose che per me sono interessanti. Sono molto contento che abbia parlato dei peccati dei creditori poiché qualche volta i creditori, che sono anche giudici del loro stesso comportamento, dimenticano troppo rapidamente i loro patti, e la crisi del debito è in parte dovuta a prestiti concessi in maniera irresponsabile, accettati in maniera irresponsabile, ed infine spesi in maniera irresponsabile. Tutti devono assumere le conseguenze delle decisioni prese, e bisogna cercare di tradurre queste responsabilità in termini finanziari. Si riconosce il significato dell’iniziativa della Banca Mondiale e del Fondo Monetario per ridurre notevolmente il debito di alcuni tra i paesi più poveri e fortemente indebitati. Questa è la prima grande iniziativa della comunità internazionale che affronti in maniera radicale i debiti di alcuni paesi. Il significato di questo è importante: una drastica riduzione del debito di alcuni paesi è una necessità economica oltre che morale e questi paesi non hanno possibilità di far parte dell’economia globale se non si affronta il problema dei loro debiti. L’iniziativa dimostra anche che quando esiste la volontà politica è possibile delineare un programma che affronti globalmente i diversi debiti bilaterali o multilaterali commerciali dei paesi poveri e di trovare le modalità per finanziare un progetto.

Il problema del debito è soprattutto oggi un problema di volontà politica. Occorre dare riconoscimento ai responsabili di questa iniziativa soprattutto a titolo personale, al presidente della Banca Mondiale e al direttore del Fondo Monetario, e auspicare che il massimo numero dei paesi aventi diritto possano trarre beneficio entro l’anno 2000. Bisogna accelerare i tempi: bisogna riconoscere la buona volontà dei paesi poveri e poterla verificare concretamente. Nonostante l’impegno dimostrato dai responsabili, questa iniziativa va avanti troppo lentamente: quaranta paesi avrebbero avuto la possibilità di accedervi, ma ad un anno dall’iniziativa sono solo sei che ne hanno beneficiato. Viene il sospetto che alcuni paesi non vogliano che il numero dei beneficiari vada molto oltre i 12/14 paesi. Per questo, le nostre iniziative non devono indirizzarsi solamente alle istituzioni finanziarie internazionali, devono indirizzarsi soprattutto ai governi dei paesi più forti del mondo, e soprattutto ai governi dei G7. Il titolo di "economie più potenti del mondo" che questi paesi rivendicano porta con sé responsabilità maggiori verso le economie più deboli. In gran parte il futuro delle iniziative per risolvere il problema del debito è nelle mani di questi paesi, Italia inclusa: si richiede in maniera particolare maggiore trasparenza nella maniera di negoziare il debito. Sembra un paradosso che le nazioni ricche richiedano ai paesi poveri più trasparenza nella gestione del governo e dell’economia e nello stesso tempo constatare che i negoziati sul debito siano condotti in grande segretezza, a volte anche senza il controllo del Parlamento dei paesi debitori.

Come influire sui governi dei paesi più forti? Questo si dovrà fare creando un’attenta opinione pubblica nei paesi ricchi; ciò richiede che i cittadini dei paesi ricchi non si arrendano alle politiche di isolazionismo e di protezionismo ma diventino fonte di promozione in ogni società dello spirito della solidarietà. C’è una mancanza di conoscenza nell’opinione pubblica riguardante questi problema.

Le iniziative devono essere indirizzate anche ai paesi poveri, ai governi dei quali è affidata la responsabilità del futuro delle loro popolazioni. Alle azioni in favore della riduzione del debito dei paesi poveri deve corrispondere un impegno da parte loro di introdurre sistemi di governo e di amministrazione più giusti e trasparenti. Senza l’applicazione di tali necessarie riforme, i paesi poveri si troveranno rapidamente al punto di partenza con nuovi debiti e senza un’adeguata politica sociale. Questo si deve ottenere non solamente attraverso le prediche o puntando il dito verso i paesi poveri, ma attraverso programmi di cooperazione che offrono ai paesi un aiuto tecnico per mettere in pratica le nuove politiche. È importante che queste riforme economiche e politiche di buon governo contengano come componenti prioritarie programmi concreti di sviluppo sociale. Troppo spesso nel passato i tagli alle spese pubbliche legate alla riforma economica hanno avuto un effetto negativo e sproporzionato sui più poveri. I poveri il più delle volte accettano in silenzio mentre il settore commerciale ha sempre una voce più forte in capitolo.

Le nostre riflessioni sulla questione del debito devono anche essere indirizzate al settore privato, alle banche, alle industrie. Si tratta infatti del settore che forse ha la maggiore opportunità di guadagno dal nuovo assetto globale dell’economia. Questo settore deve trovare il modo, attraverso l’investimento, attraverso la condivisione di conoscenze e tecnologie, di poter dare il suo contributo allo sviluppo e alla crescita dei paesi più poveri. Una delle sfide più grandi per i prossimi anni in campo economico consiste nel delineare le responsabilità sociali del settore privato. Nessun settore della vita sociale ed economica potrà ritenersi dispensato dall’assumere responsabilità specifiche per lo sviluppo, e dove mancano le norme giuridiche le responsabilità morali rimangono.

Si tratta quindi di una questione che tocca tutti noi: la solidarietà internazionale comincia dal cuore di ciascuno di noi e dall’impegno di ciascuno di noi. Occorre cercare di trovare un nuovo consenso sulla solidarietà internazionale e nuovi modelli di questa solidarietà. Uno dei principi che può contrastare la nuova apatia dei cittadini o i vecchi programmi di aiuto statalisti, è quello che il Papa chiama "la soggettività della società". Si deve cercare di promuovere, sia nei paesi donatori, sia nei paesi beneficiari, la piena partecipazione della società; si deve cercare di rendere le persone le vere protagoniste del loro destino e del loro futuro. Il modello della solidarietà internazionale è uno dei motti di questo Meeting, "più società fa bene allo stato": nei paesi donatori la società deve essere presente per spingere i politici ad assumere questi impegni sociali a livello internazionale, nei paesi beneficiari invece i politici devono creare la società civile dove questo manca, in maniera che questi paesi possano diventare veramente democratici, ovvero paesi fondati dalla partecipazione dei cittadini. Solo in questa maniera si eviterà la situazione di cui ha parlato anche il governatore della Banca polacca, situazione in cui i crediti ricevuti saranno spesi per spese militari, per spese di prestigio o per la corruzione. Questo non si ottiene con le prediche ma con progetti concreti di aiuto tecnico che possano aiutare questi paesi a mettere in sesto la loro situazione: in questo modo torneremo ad avere collaborazione e solidarietà, le uniche maniere per risolvere rapidamente il problema del debito.

Giusti: Sono stato per dodici anni direttore di un ospedale non profit in nord Uganda, e quindi mi sono trovato coinvolto - mio malgrado, perché mi sarebbe piaciuto fare il medico e invece ho dovuto fare l’amministratore - in questioni di soldi, visto che gli ospedali per funzionare hanno bisogno di soldi. Il mio intervento vuole descrivere un’iniziativa della società civile, che è intervenuta insieme ad altri a favore dell’ospedale da me diretto, e tramite consensi e pressioni ha trovato un riscontro positivo da parte del governo ugandese. Prima darò un breve background per contestualizzare i termini dell’iniziativa, poi la descriverò brevemente e concluderò dicendo quelli che sono i passi che ci aspettano e quello che desidero possa avvenire.

Sono in Uganda da venti anni: ho sentito parlare spesso dell’Uganda in termini negativi, ma come missionario sono felice di parlarne in termini positivi. La storia dei servizi sanitari ugandesi è legata a doppio filo a quella dell'evangelizzazione: fin dagli inizi dell’evangelizzazione in Uganda nel secolo scorso, la Chiesa ha espresso la sua cura per i più poveri, tra cui gli ammalati, con uno sforzo notevole, aiutata in questo dalla carità delle Chiese e più tardi dalla solidarietà del mondo sviluppato (ad esempio, la cooperazione italiana in tempi più recenti ha avuto un ruolo importante in tutto questo). Tutto ciò l’ha portata a costituire una rete capillare di ospedali e di dispensari. I primi ospedali dell’Uganda risalgono all’inizio del secolo, e sono gli ospedali cattolici e protestanti; la costituzione di queste opere ha preceduto di decenni l’impegno del governo, coloniale prima e in seguito indipendenti. In Uganda come anche in molti altri paesi di missione le opere sanitarie ed educative sono state compagne inseparabili dell’annuncio cristiano, espressione caratteristica della passione che il cristiano ha per l’uomo nella concretezza dei suoi bisogni. La novità e l’innovatività del settore sanitario, l’attenzione data fin da subito alla formazione del personale locale documentano la vivacità e l’intelligenza dell’intervento dei missionari prima e di quella parte dell’autonoma iniziativa di cui la società civile è capace in sostituzione delle istituzioni dello Stato.

Attualmente il settore sanitario che per brevità chiamerò non profit costituisce il 40% delle strutture sanitarie del Paese: di 90 ospedali 39 sono privati, e la quantità di lavoro fatta da questi si colloca al 50% di tutto il servizio erogato. Nella storia recente di questi ultimi venti anni - gli anni del secondo governo Amin - si può dire senza timore di smentita alcuna che sia stato proprio il settore privato-sociale che ha retto il peso del servizio sanitario davanti allo sfacelo dell’amministrazione dello Stato, che si rifletteva nella inefficienza e nella inadeguatezza dei servizi cosiddetti governativi. Inoltre, è in queste istituzioni non profit che si è continuato a nutrire e a tramandare una cultura che vede il lavoro non in termini meramente commerciali, ma come espressione della creatività dell’uomo e come servizio all’uomo nel suo bisogno. Questa cultura del lavoro, che ha resistito al disastro delle coscienze che sempre la guerra, le insicurezze e l'instabilità si portano con sé, è il patrimonio non quantificabile ma senz’altro più importante che il settore in quanto tale ha da offrire al paese.

In tempi più recenti - dall’85/’86, con l’avvento del nuovo governo che dura tutt’oggi - la ripresa dell’organizzazione dello Stato ha coinciso e in parte acuito una crisi del settore privato-sociale, che si è trovato stretto nella morsa di un servizio con costi crescenti. Il lievitare di questi costi è spesso legato a scelte di politica finanziaria del governo certamente non fatte per quello scopo, ad esempio l’aumento dei salari, una cosa buonissima in sé ma che va a toccare vari erogatori di servizi oltre ai dipendenti dello Stato, oppure una certa politica fiscale, nella quale l’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto ha comportato un aumento dei costi di produzione del servizio. Il settore si è quindi trovato stretto da una parte da questo aumento dei costi di servizio, dall’altra parte da una aumentata capacità di contribuzione da parte dell’utente: i poveri continuano ad esserci e sotto i nostri occhi è sempre più frequente il passaggio da una povertà relativa a una povertà assoluta. In questi ultimi anni il settore si è trovato così di fronte ad un dilemma: o rimanere fedeli al mandato esplicito della costituzione di quasi tutte le strutture sanitarie non profit - o legate alla Chiesa - e inerenti alla natura dell’intervento in quanto tale, mandato che consiste nel fornire un servizio accessibile in termini finanziari e adeguato alla dignità umana in termini di qualità, con il rischio della dissolvenza finanziaria, oppure rassegnarsi a perdere capacità funzionale, a diminuire la la quantità o qualità delle prestazioni date, ad abbandonare punti qualificanti dell’intervento quali la formazione del personale. Questa seconda alternativa equivale ad una morte non decretata ma lenta.

Abbiamo vissuto questo dramma giorno per giorno; di fronte ad esso, ci siamo anzitutto resi consapevoli che il mandato che abbiamo ricevuto dalla Chiesa era irrinunciabile e chiaro, e non potevamo dimenticarcelo: servire i poveri. Il grande disagio che provavamo davanti alle difficoltà crescenti ci ha spinto a metterci insieme: risale al 1996 la prima Conferenza nazionale dei dirigenti degli ospedali cattolici e protestanti, cui in tempi più recente si sono aggiunti anche i musulmani. Ci siamo ritrovati e abbiamo ripreso coscienza della nostra identità in quanto privato sociale: privato, ma con una collocazione all’interno del privato tutta particolare. Ci siamo resi conto che la nostra esperienza e la nostra storia erano ricche e che il nostro lavoro era importante per il bene comune, e conseguentemente che era compito nostro anche quello di urgere lo Stato a prendere atto di questo dato che emergeva dalla realtà, e di riconoscere a pieno titolo che le opere presentate da noi si collocano nel contesto globale dei servizi sociali, come coattori e non come servizi di ripiego. Si trattava dunque di riaffermare la necessità dell’attuazione di quello che nella Chiesa è riconosciuto come principio di sussidiarietà. Questo lavoro ha anche avuto una caratteristica ecumenica, come dicevo prima: da allora è cominciato un dialogo serrato con il governo, teso innanzitutto a far comprendere la situazione del non profit, le sue caratteristiche, la sua importanza, documentandone da un lato l’efficienza relativa al settore sanitario governativo, e d’altro lato la crisi incombente. Non è facile documentare in che cosa consistono i fattori della crisi perché di fatto gli ospedali continuavano a lavorare, si faceva di tutto per non chiudere le porte alla gente. Davanti ai dati raccolti, il ministro della sanità, a nome del consiglio dei ministri, con notevole coraggio, ha annunciato che il governo sarebbe intervenuto davanti alla crisi incombente. Il primo intervento decretato dal ministro risale allo scorso anno, e consisteva in un esborso straordinario all’interno della legge finanziaria di 800.000 dollari a sostegno di una serie di ospedali che erano in particolari difficoltà. Ma il ministro della sanità è andato più in la e ha affermato che l’identità delle opere sociali sanitarie è il fattore determinante della loro efficienza della loro qualità, e si è impegnato a rispettare questa stessa identità, anche là dove proprio questa identità potesse creare alcuni problemi nell’erogazione dei servizi. Questa è la posizione del ministro: il tempo ci dirà come questo proseguirà, quanto il dialogo sarà facile o difficile.

È immaginabile ed avvertibile fin da ora un certo malcontento dei funzionari pubblici, poiché sicuramente si troveranno a lavorare fianco a fianco con partners che con molto meno danno molto di più; di conseguenza dovranno implicitamente giustificare la loro inefficienza. Ma in questo credo che l’Uganda non sia differente dall’Italia piuttosto che dalla Francia. Quest’anno la legge finanziaria del paese ha previsto uno stanziamento di 2.500.000 di dollari, circa 3.000.000.000 di scellini, per il settore non profit, estendendo l’aiuto anche ai dispensari e non soltanto agli ospedali. Questa decisione è sicuramente stata facilitata dalla cancellazione di una parte del debito che ha avuto luogo recentemente.

La nostra esperienza - che fin qui considero positiva - indica anche la strada da percorrere nel prossimo futuro. La problematica del settore non profit nel contesto richiede un inquadramento dei provvedimenti attuati in un quadro legislativo che riconosca e definisca l’identità del settore non profit al di là e in modo più stabile di quanto non possa farlo un decreto ministeriale o una legge finanziaria. Nel contesto più globale della problematica della cancellazione dei debito, c’è da spingere che questo processo avanzi più speditamente e più ampiamente. In Uganda, secondo il dato attuale, un piccolo passo avanti in questa direzione ha già avuto effetti positivi, documentati da quanto ho detto: occorre tuttavia non solo vincolare genericamente le risorse liberate dallo sgravio ad un sostegno dei servizi essenziali, ma in modo più preciso ancora occorre vincolare l’uso di queste risorse perché vadano a rafforzare quella parte di società che ha già espresso autonomamente la sua capacità di prendersi cura dell’uomo nei suoi bisogni fondamentali. La parola vincolo può non essere gradita: di fatto, vengono posti talvolta dei vincoli che non sono rispettosi della cultura e delle tradizioni di un paese - come ad esempio il pesante condizionamento che ricevono i ministri e i parlamentari dell’Uganda perché certe pratiche anticoncezionali vengano introdotte e sostenute o perché la legge sull’aborto passi -, quindi se ne potrebbe chiedere uno più importante e rispettoso, ovvero che i soldi liberati dallo sgravio del debito vengano incanalati in modo più generoso verso il settore privato sociale. Sarebbe una attuazione pratica del principio di sussidiarietà.

Si parla molto di riforme democratiche nei paesi poveri e, spesso, queste riforme vengono fatte coincidere col multipartitismo: è una questione che in Uganda viene riproposta di continuo. Ma il multipartitismo in sé non è garanzia sufficiente di democrazia: la democrazia reale esiste quando la società è forte e può esprimersi non solo con la voce ma anche con le opere che può e sa mettere in piedi e gestire. Il rafforzamento delle opere sociali è la strada maestra verso una democrazia effettiva, non nominale, non limitata al bilanciarsi di forze partitiche; è il modo privilegiato per favorire chi opera per la dignità e per l’uomo nella sua integralità per un compito che noi abbiamo ricevuto e accolto con gioia e creatività.

Serri: Vivo a due anni, da quando faccio il sottosegretario agli affari esteri, una crisi continua, costante, che si rinnova ogni volta che vado in Africa - una delle mie competenze - e torno in Italia: vedo infatti due società, due modi di vivere, due condizioni umane che fanno scandalo. Fanno scandalo entrambe: quella della povertà e della miseria più incredibile e quella dello spreco, quella del consumismo esasperato senza senso, senza finalità, deformante. Dentro di me vivo questa contraddizione, lacerazione continua, e vivo nel concreto quella distanza tra i poveri e i ricchi, distanza che il rapporto dell’ONU dice essere aumentata.

Viviamo una fase di ripensamento? Posso porre solo il quesito, e per ora è già importante. Questo decennio, questi mesi in particolare sono davvero stati caratterizzati dalla crisi, come ha detto il governatore della Banca polacca. La crisi prima nel Messico, poi nell’Asia, Giappone compreso, la Russia adesso, l’Africa che sta riesplodendo... Qualche mese fa parlavo con Nelson Mandela in visita in Italia, e mi permisi di dire che il termine "rinascimento africano" forse era troppo ottimista. C’è una guerra adesso in atto, tra le tante, che coinvolge il Congo ed altri sette o otto paesi. Questo deve anzitutto farci rendere conto che non è vero che i paesi sono destinati, seppure con velocità diverse, ad andare gradualmente nella stessa direzione, verso gli stessi traguardi. Sta accadendo il contrario, stanno accadendo lacerazioni, scompensi, violente regressioni. La Banca mondiale, almeno per certi aspetti, ha compiuto un ripensamento un anno e mezzo fa, ma probabilmente bisogna portarlo più a fondo. Qualcuno parla di crisi del Fondo monetario: ad esempio, tanti soldi vanno in crediti all’Indonesia, alla Corea del Sud, alla Russia e vengono così a mancare per dare credito ai paesi più poveri del mondo. E, come abbiamo sentito da Daniel, anche dove si fanno politiche rigorose ed efficaci di risanamento, c’è il pericolo che per vie traverse queste politiche si scarichino negativamente su servizi essenziali quali la sanità o la scuola. Ci sono dei paesi che hanno risanato l’economia, ma che nel contempo hanno fatto gravissimi passi indietro sul piano della scuola e della sanità: ad esempio, l’Africa complessivamente ha ridotto la percentuale di alfabetizzazione nel corso degli ultimi dieci anni.

Questo ripensamento da fare - che deve essere fatto dalla Comunità europea, dalla comunità internazionale, e dall’Italia per la sua parte - deve cominciare da un programma straordinario, che riguarda il debito, l’aiuto pubblico allo sviluppo, la mobilitazione di tutte le energie. Se tutto rimane così come è, temo che le esplosioni, che ormai sono a catena, mettano in discussione persino il nostro status: forse questo è il momento in cui possiamo creare un’opinione pubblica che torni a capire che il problema dello sviluppo, del superamento della condizione inumana, è un problema nostro, un problema di cui dobbiamo farci carico. Credo che questo programma straordinario della solidarietà internazionale sia una necessità assoluta.

Su che cosa deve fondarsi? Sulla questione del debito, chiaramente, sulla cancellazione e conversione del debito, anche se temo che le condizioni siano sempre quelle che dà colui che si ritiene superiore e che ritiene di dover guidare e correggere gli esseri inferiori. Per questo sostengo anche la necessità di fare delle battaglie culturali e civili, di dialogare, di discutere, in maniera tale che la cooperazione e anche la cancellazione del debito non avvengano nelle stanze segrete come puro rapporto tra i governi, ma coinvolgano la nostra e la loro opinione pubblica.

L’Italia non ha fatto abbastanza rispetto alla questione del debito: abbiamo rimesso circa due miliardi di dollari, all’incirca tre miliardi e mezzo di lire, e abbiamo contribuito a ristrutturare un valore di circa 30 miliardi di dollari, 45/46.000 miliardi di dollari. Credo che sia uno sforzo insufficiente; abbiamo ancora una legge del ‘91 che impedisce, una volta cancellato il debito a un paese, di dargli credito. La conversione del debito è stata supportata per la prima volta l’anno scorso con la finanziaria: adesso si può fare la conversione del debito, ma sono sicuro che essa rischia di essere soltanto la conversione del debito commerciale che si fa al di fuori del parlamento tramite un rapporto finanziario con delle società internazionali, delle banche a cui si vende il credito a sottocosto. La conversione a cui penso io significa rimettere il debito e favorire lo sviluppo degli investimenti. Credo che questo vada fatto: dobbiamo fare una battaglia a livello europeo, e l’Unione europea potrebbe cancellare la sua parte di debito.

Abbiamo sicuramente superato la fase in cui la cooperazione era vista di malocchio, quasi negata dall’opinione pubblica. L’opera di risanamento non riguarda solo questo governo, è cominciata almeno dal ’93: tuttavia, questo governo ha compiuto uno sforzo particolare per avviare la nuova legge che si sta discutendo in Parlamento. Il primo obiettivo che si propone questa legge è di togliere la cooperazione dalla gestione puramente statalista e burocratica dello Stato. Allo Stato deve rimanere l’indirizzo, la programmazione, il controllo, ma la gestione non deve essere azione diretta del ministero o dello Stato. In secondo luogo, la cooperazione deve essere concepita come un’azione congiunta dei governi e della società. Quando penso alla società penso non solo alle competenze, ma a tutta la società, incluse le missioni, le organizzazioni non profit, il privato sociale, le piccole-medie aziende che possono contribuire allo sviluppo del Paese. La cooperazione, ed è il terzo scopo della legge, deve acquisire una priorità assoluta, che è quella di guidare la formazione della capacità del governo, capacità istituzionale, capacità tecnica, capacità manageriale: questo deve essere il primo compito di una cooperazione allo sviluppo che non deve trasferire progetti o opere, ma deve trasferire dall’alto verso il basso competenze e capacità. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare, ed è una battaglia che va al di là di una maggioranza di governo.

Andreozzi: Ci sono molti missionari italiani: noi calcoliamo 15.000, tra religiosi e laici, impegnati su diversi fronti dell’evangelizzazione, che è un fronte della promozione umana. Questi missionari si muovono per il vangelo, per il desiderio di Cristo, e rappresentano il volto bello dell’Italia in tanti paesi dove c’è la frontiera della povertà, un dono di fraternità universale che porta a riconoscere la paternità di Dio su tutti i suoi figli senza distinzioni. "Parto, metto la mia fatica, dono la mia vita": questo sono i missionari. I missionari stanno a cuore a tutti, e attorno a loro c’è la più grande solidarietà, al di là delle professioni religiose.

Il tema della riduzione o remissione del debito dei paesi poveri viene oggi scoperto anche da dirigenti e responsabili di istituzioni multilaterali finanziarie, economicamente interessate. Per quanto mi riguarda, io vivo questo problema come una richiesta forte e pressante che il Santo Padre ha legato alla prossima celebrazione del Giubileo. Quindi per me è soprattutto un motivo di impegno ecclesiale per un evento, il Giubileo, che non sia solo spirituale e devozionale, ma che abbia anche la sua valenza civile e mondiale per i problemi dell’umanità. E in effetti, il Giubileo fin dall’antichità era un evento religioso ma riguardava tutto il popolo di Israele.

La Chiesa italiana non vuole stare in disparte rispetto alle grandi tematiche sociali e civili: per questo ci stiamo muovendo sia sui temi della disoccupazione che su questo tema specifico della riduzione dei debiti dei paesi poveri. Nei confronti del Giubileo è già stato pubblicato dalla Conferenza Episcopale Italiana, un itinerario spirituale. Speriamo di riuscire, in occasione del prossimo Consiglio permanente dei vescovi che si terrà alla fine di settembre, a varare un itinerario completo per dare come Chiesa italiana quell’impulso di società per la riduzione del debito dei paesi poveri. Fino ad oggi, è stato un dibattito troppo alto quello che c’è stato attorno al debito, che ha riguardato le grandi istituzioni, i governi, certe lobby che sono legate a questi particolari temi. Noi vorremmo invece che il dibattito su questo problema diventasse patrimonio di tutti; la Chiesa forse ha degli strumenti per poter fare questa opera educativa, perché anche la casalinga, che è comunque legata all’azione educativa della Chiesa, possa arrivare a capire che ha un qualche rapporto col debito dei paesi poveri. Non è soltanto una questione dei grandi, dei potenti, ma è una questione che riguarda me, il mio stile di vita, ciò che ho in casa mia.

La CEI vorrebbe riuscire a fare innanzitutto questa grande opera educativa diffusa; questo corrisponde anche al desiderio del Pontificio consiglio, perché più volte ci è stato richiamato che se non c’è una pressione della opinione pubblica alla fine non si muovono i governi. L’Italia fino ad ora ha fatto pochissimo, per quello che so io, e stenta a trovare una propria posizione: per questo l’azione educativa che vogliamo portare fin dentro alle parrocchie, i gruppi, le persone e le famiglie, deve far pressione anche sul nostro governo e in qualche modo smuoverlo. Non possiamo solo attendere parole entusiasmanti che non hanno a che fare con la realtà, perché chi governa deve governare e i fatti devono essere coerenti con le parole che si dicono.

Come Chiesa italiana vorremmo anche mettere un segno accanto a questa azione educativa, un segno concreto di partecipazione: chiamare ogni uomo di buona volontà a metterci la sua parte, a pagare in qualche modo una porzione di debito. È un segno, e anche un segno può diventare educativo e può in qualche modo coinvolgere tutti, in modo che da un fondo comune possa essere acquistata una parte di debito da rimettere a disposizione nella relazione di parità tra gli Stati e le associazioni della società non governative. In particolare, vorremmo rimetterla a disposizione in un’opera di sviluppo, che sia di dirigenza politica, di sanità, o di educazione.

Al di là del titolo di questo Meeting, un sogno ce l’ho, ed è quello di vedere questa società italiana, che vuole aprirsi maggiormente alla universalità, prendere un posto significativo nella edificazione dei rapporti tendenti a una giustizia più planetaria.

Toia: Delinerò in modo molto sintetico tre punti. Il primo è quello della partecipazione della società civile su questi temi: la soggettività della società civile nei paesi in via di sviluppo. Credo che a noi politici tocchi prendere qualche impegno o dire cosa possiamo fare, condividendo tutti i ragionamenti e i presupposti fin qui fatti. Cerchiamo di fare una specie di alleanza, affinché le convinzioni appassionate e sincere che noi abbiamo ed esprimiamo, diventino una voglia in più perché l'Italia possa fare qualcosa per questi problemi. Penso che una discussione in Parlamento - ci sono già degli ordini del giorno alla Camera - possa diventare vincolante per il governo, e il Parlamento lo muove la società. Una società ricca e viva è una società che aiuta lo Stato ad essere ricco e vivo, e non c’è contraddizione: più è ricca e viva la nostra società, più forte è lo stimolo che dà allo Stato, che non è altro che la proiezione di questa società. È la sua rappresentazione, ed è quello che garantisce a sua volta spazi di libertà a questa società purché però lo Stato ci sia e non sia latitante. La nostra legge di riforma deve dare spazio alle ONG, proprio perché il volontariato è esigente vuole esserci non con due lire in più, o con un bussare alla porta del nostro ministero, ma vuole avere un ruolo, un protagonismo anche nelle decisioni.

La battaglia che qualcuno diceva educativa e di promozione va assolutamente fatta. Va fatta sul piano delle idealità, ma va fatta anche sul piano delle convenienze, delle razionalità, delle logiche economiche. Un mondo che non si interroga sui suoi meccanismi di sviluppo e che va verso una forma non di contrasto culturale ma di contrasto delle condizioni di sviluppo. Non abbiamo paura di una società civile esigente, che ci chieda di essere politici più seri; al di là delle intenzioni di alcuni parlamentari, il risultato non è entusiasmante, però siamo in un risultato che ancora può cambiare per presa di coscienza, per convinzione, per necessità. Forse oggi rischia di essere messa in discussione anche quella tranquilla serenità che il nostro mondo aveva sviluppato: tanto o poco che dessimo, nessuno lo metteva mai in discussione.

Il secondo tema è quello del mondo economico. Non è più possibile svolgere politiche separate: la politica dei servizi sociali, dell’assistenza in senso nobile, è una politica che si deve legare alla politica economica, alle politiche di sviluppo, alle politiche dell’occupazione. La politica riparatrice e la politica economica non possono andare in senso devastante per la società, anche se di sviluppo. Non ci possono essere logiche di sviluppo internazionale - circolazione dei capitali, allargamento del mercato, crescita - che si sostituiscano ad una responsabilità politica di altri elementi e ad una diffusa responsabilità sociale. Se di sviluppo si tratta, questo sviluppo dobbiamo vederlo insieme: questo sviluppo va considerato in termini di sviluppo umano - ed è una definizione delle organizzazioni internazionali -, e dentro questo termine umano ognuno porta la sua pienezza di concezione dell’uomo, che eventualmente aggiunge e non toglie nulla alla concezione di un altro.

All’interno di avvicinamento delle politiche economiche alle altre politiche, e di questo avvicinamento dei soggetti che operano, dobbiamo avvicinare anche l’azione dei governi, delle società civili, del mondo economico, a quella delle grandi istituzioni finanziarie. È una riflessione che è cominciata e di cui si cominciano ad avvertire gli effetti; non è solo l'iniziativa sui paesi altamente poveri per la remissione del debito, ma anche una presenza maggiore di queste grandi organizzazioni internazionali nelle grandi conferenze. Dobbiamo spingere questa presenza sempre di più verso due versanti: la maggiore responsabilità degli uomini dentro questi organismi e la creazione di parametri nuovi. I parametri attuali sono ancora troppo poco completi rispetto al concetto dello sviluppo umano. Occorrono altri parametri, non buoni ragionamenti e buone intenzioni, ma altri parametri che portino a misurare il grado dello sviluppo complessivo.

Boco: Non parlerò della legge sulla cooperazione - di cui sono relatore e dunque colpevole se non funzionerà -, ma di discutere anzitutto il titolo dell’incontro, "Riflessioni sulla povertà".

Bisogna davvero andare fino in fondo dentro di noi per vedere dove è e dove sta andando questo nostro mondo. Solo così faremo una buona legge, facendo una rivoluzione interna dentro di noi. Ho avuto la possibilità di scoprire le missioni girando in Africa, e trovando queste isole ho cercato di capire cosa è la solidarietà: è un approccio con se stessi, che parte dal presupposto di mettere in discussione prima noi. È su questo che vorrei riflettere.

La povertà è l’insuccesso del nostro modello di sviluppo, e l’insuccesso di questo modello di sviluppo è l’insuccesso dell’Occidente. Non accettiamo la logica che un miliardo di esseri umani vivono oggi sotto la soglia della povertà, non abbiamo il coraggio di affrontare il fatto che un miliardo di esseri umani se contemporaneamente facessero un salto economico collettivo busserebbero nel nostro quotidiano. In questi cinquanta anni, da dopo l’uscita dai grandi conflitti mondiali di questo secolo, ci siamo affidati a una speranza legittima piena di buona fede e di positività, la speranza che il nostro modello economico risolvesse il problema di una non-coscienza del limite, che questo pianeta desse a tutti la possibilità di non dividere quello che oggi noi abbiamo.

Ma questo modello non funziona, se noi abbiamo il coraggio di affrontare questa sfida e di vedere quello che sta avvenendo nei paesi poveri. C’è un rifiuto del nostro modello. Ci sono dati incontrovertibili: il 65% degli investimenti della banca mondiale è finalizzato alla produzione di energia. Può essere giusto, può essere discutibile, è comunque un fatto che il 65% finisce nelle produzione di energia verso centri industrializzati, e questo significa che l’energia non va nelle case a portare la corrente, non va a illuminare le scuole, gli ospedali. Noi costruiamo poli industriali sul modello economico che noi riteniamo unico, indiscutibile, indiscusso. Il nostro Occidente - siamo il 15% della popolazione mondiale - consuma l’85% delle risorse del pianeta, mentre c’è un miliardo di esseri umani al di sopra della soglia della povertà.

Dobbiamo affrontare, al di la’ della appartenenza politica, una grande riflessione culturale; il nostro sforzo alla fine del millennio deve essere teso a vedere se c’è una speranza diversa, se c’è un modello diverso. Stanno cambiando i consumi nel Sud del mondo, e deve scomparire il concetto della mondializzazione del nemico: per questo occorre saper indirizzare il dono e il credito non più secondo il criterio quello che nella mia terra di Toscana con correttezza si chiamava usura, anche se oggi non abbiamo più il coraggio di chiamarla così.

Folloni: Pensare allo sviluppo dei paesi poveri oggi significa anche pensare allo sviluppo delle nostre comunità. Monsignor Martin ha ricordato che la soluzione dell’indebitamento di molti paesi poveri verso pochi paesi ricchi è una questione politica. Concordo e limiterò questo mio saluto a pochissime considerazioni sulla qualità della politica tra le nazioni. Se avrò tempo farò qualche indicazione dei possibili obiettivi che l’Italia potrebbe darsi.

Due luoghi comuni possono portare a due tesi erronee. Il primo luogo comune è che i paesi ricchi sono sempre più ricchi e che i paesi poveri sono sempre più poveri. È un'affermazione che, non priva di qualche fondamento, ha preso a circolare da qualche anno, e dà conto del fatto che nel rapporto tra sviluppo e sottosviluppo la velocità di crescita dei paesi più arretrati resta sempre più bassa della corsa all’espansione di quelli che sono possessori degli strumenti per la innovazione tecnologica e che al tempo stesso controllano le leve del credito e del debito. Se questo è vero in termini relativi, occorre però prendere atto che nel periodo di trent’anni, più o meno dall’inizio degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta, qualcosa è accaduto: la speranza di vita nei paesi più poveri è aumentata, la mortalità infantile è diminuita, e all’incirca nella stessa proporzione si sono modificati anche i dati relativi all’istruzione e alla sanità. Sono questi i dati di fonte ONU, e prendere coscienza di questa dinamica non elimina il giudizio critico su tutta la forbice crescente tra sviluppo e sottosviluppo, ma ci serve a confutare la perniciosa teoria che ha iniziato a circolare da qualche tempo, secondo la quale l’aiuto allo sviluppo non ha dato i risultati sperati, e anzi non sarebbe altro che uno stimolo all’istinto di dominazione. Tesi pericolosa, che sposandosi a un certo liberismo selvaggio che affida alla pura competizione la regolazione di cicli vitali per l’economia, per i popoli e per le società, porta come conseguenza la conclusione che la cooperazione internazionale va tendenzialmente abbandonata o quanto meno supplita e sostituita con una più forte politica commerciale che invece d’investire in solidarietà e in cooperazione sostenga la capacità di penetrazione commerciale degli Stati ricchi.

Un secondo luogo comune dal carattere più squisitamente politico e altrettanto se non più pericoloso, è che nel mondo contemporaneo, quello sopravvenuto con la fine della guerra fredda e dell’impero sovietico, con la caduta del muro di Berlino, gli organismi internazionali, Nazioni Unite in testa, vanno perdendo il loro ruolo universale. Una tesi più recente della prima, che trova alimento dal fatto che nei conflitti regionali ed etnici e nelle guerre civili che si susseguono da dieci anni a questa parte, l’azione decisiva viene svolta da un numero ristretto di nazioni, tanto con azioni di carattere militare affidate a forze multinazionali, quanto tramite la gestione di interventi di urgenza verso le ondate di catastrofi umanitarie. Di fatto questo luogo comune blocca la riforma democratica del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, giustifica la subordinazione della politica di cooperazione all’accettazione di un totale controllo delle condizioni politiche interne dei paesi bisognosi, riduce l’aiuto allo sviluppo all’altra faccia di politiche di sanzione, embargo. È come se gli aiuti allo sviluppo e le sanzioni fossero bastoni e carota di una medesima politica di controllo delle culture, delle forme di organizzazione sociale e politica dei paesi più deboli da parte dei paesi più forti.

Se non è giusto parlare di razzismo e di nuovo colonialismo non vi è però dubbio che esista in talune nazioni la presunzione che sia legittimo costringere per vie economiche paesi in via di sviluppo ad una omologazione culturale e alle forme di democrazia politica gradite alle nazioni più ricche. È la tesi secondo la quale, per esempio, l’embargo iracheno dovrebbe finire solo dopo la caduta di Saddam Hussein. È una strada che non viene facilmente accettata dai paesi poveri, una logica di potenza alla quale chi può reagisce con una simmetrica logica di potenza. Attorno a questa tesi si muovono alcune iniziative autonome degli Stati Uniti, che non ritengono più necessario fare riferimento alle Nazioni Unite per decidere i loro modi di intervento, anche militare; attorno a questa tesi la cooperazione e la gestione dei crediti internazionali relativi al debito viene offerta in cambio di cessioni politiche spesso inaccettabili. Ad esempio, la Libia ha rifiutato per anni di estradare in Inghilterra i due cittadini sospettati per la strage di Lockerby - come del resto era logico non esistendo accordi di estradizione - ma ha offerto la propria disponibilità a consentire il processo in una sede internazionale. Solo a distanza di anni gli USA e l’Inghilterra hanno dichiarato di accettare la sede della corte ONU dell’Aia che nel frattempo aveva dichiarato la propria competenza. In tutti questi anni il braccio di ferro si è esercitato per verificare se la Libia avesse capitolato ad una prerogativa alla quale nessun paese sviluppato rinuncerebbe mai. E non è estranea a questa logica la decisione dei due paesi del cosiddetto terzo mondo, India e Pakistan, di chiamarsi fuori degli accordi di non proliferazione nucleare per iscriversi tra le nazioni in possesso di armi atomiche.

Solo uscendo da questi luoghi comuni si possono definire le nuove prospettive di cooperazione allo sviluppo nel tempo della globalizzazione. Il tema della globalizzazione pervade ormai ogni serio ragionamento sui rapporti umani e sociali, tanto nell’ambito privato che tra le nazioni. Voglio con questo sottolineare che ogni nuova politica di cooperazione non può sottrarsi a perseguire l’obiettivo della piena cittadinanza di ognuno e di tutti nel villaggio, o se si preferisce nel mercato, globale. Se vogliamo respingere le due tesi erronee, se vogliamo rendere praticabile un nuovo e pieno diritto di cittadinanza nel mondo globalizzato, in un serio progetto di nuova cooperazione, occorre salvaguardare pienamente il concetto di gratuità che è strettamente connesso al concetto di cooperazione internazionale ed in particolare al ruolo del volontariato.

Credo che il nuovo progetto di cooperazione che il Senato e il senatore Boco stanno elaborando, debba inquadrarsi come parte integrante della politica estera, che va ripensata proprio a partire da una nuova politica di cooperazione. Quattro obiettivi potremo darci come Italia.

Il primo aumentare la percentuale di PIL da destinarsi alla cooperazione: è un impegno che il governo ha preso, per una trasparenza che qualcuno ha invocato.

Il secondo: aumentare l’interscambio extra CEE. I paesi dell’Unione europea scambiano molto fra di loro, scambiano poco con i paesi poveri. Occorre aumentare l’interscambio: so che l’Italia è molto più avanti rispetto agli altri paesi dell’Unione, ad esempio nell’interscambio con i paesi dell’area mediterranea, ma credo che l’Italia debba esercitare un ruolo trainante nei confronti degli altri paesi europei.

Il terzo obiettivo consiste nel processo di cooperazione: difendere il principio di gratuità e inserire la cooperazione nella politica estera.

Infine, occorre sottrarre, come ha già ricordato qualcuno, alla logica di cassa di finanza il mercato dei crediti di aiuto.

Credo che una nuova politica di cooperazione internazionale sia non solo necessaria per l’Italia, ma che essa si connetta in modo sostanziale con una azione tesa a dare più forza agli organismi internazionali. Credo che sia questa azione congiunta il modo di operare una fondazione di quelle nuove regole di cittadinanza e di convivenza che sempre più urgono in un tempo in cui gli Stati e le nazioni dovranno cedere il passo ad una azione globale dei diritti e delle libertà.

Piatti: Vorremmo proporre ai presenti, protagonisti anche della scena politica, di sottoscrivere la seguente lettera che vorremmo inviare al professore Romano Prodi, presidente del Consiglio dei ministri:

"Signor presidente, i sottoscrittori del testo che ci permettiamo di inviarle desiderano, pur avendo naturalmente tenuto presente i suoi pressanti impegni, volerla incontrare non appena possibile. Le ragioni di questa richiesta che qui rapidamente riepiloghiamo sono con chiarezza emerse in occasione del Meeting di Rimini, quando nel corso del seminario promosso su AVSI sullo stato attuale della cooperazione internazionale con i paesi in via di sviluppo, in particolare sul rapporto tra debito estero e povertà nelle aree mondiali del bisogno, tutti i convenuti hanno sottolineato la necessità che il nostro paese si faccia promotore di una proposta. Questa proposta che brevemente vorremmo illustrarle, affronta due problemi, la cui soluzione offre almeno una ipotesi di possibile soluzione al tema dell’aiuto ai paesi in via di sviluppo.

Il primo riguarda la remissione del debito estero dei paesi poveri più gravemente indebitati, senza che ciò comporti come oggi frequentemente accade, un pesante condizionamento politico di alcuni Stati creditori nei confronti degli Stati debitori. Non raramente queti condizionamenti, che seguono la logiche espansionistiche e che non interessano i popoli, finiscono per colpire proprio le popolazioni, quando non sono addirittura strumenti di controllo e di pressione di Stati su altri Stati. Il secondo problema riguarda le condizioni di vita subumana dei paesi soggetti ad embargo. L’embargo indiscriminato nella quasi totalità dei casi colpisce soprattutto i bambini, e peraltro questa situazione non raramente è strumentalizzata dagli stessi governi sottoposti ad embargo. È dunque necessario denunciare che nella maggior parte dei casi l’embargo è strumento feroce quanto incivile. Poiché conosciamo la sua sensibilità, in particolare proprio in riferimento a queste tematiche, vogliamo sottoporle iniziative maturate nella nostra esperienza ed emerse in occasione del Meeting che mostrano la possibilità di soluzioni positive e concrete. In occasione del Giubileo del 2000 sarebbe tutt’altro che insignificante che un paese di grande tradizione solidaristica, cattolica e laica, indicare al mondo vie di uscita per i più diseredati, affermando come del tutto ragionevole il primato della carità".