La lauda medioevale

Presentazione della mostra

Domenica 24, ore 18.30

Relatori: Alessandro Rovetta, Enrico Parola,

Antonio Tombolini, Docente di Storia della Critica studente universitario

Traduttore e Curatore dell’Artepresso l’Università Cattolica Loredana Alfieri,

della Collana Teologica "Sacro Cuore" di Milano attrice

per l’editoriale Jaca Book

 

 

 

 

Tombolini: L’allodola è un uccelletto piuttosto comune, che normalmente non attira granché l’attenzione. Se però si pensa all’etimologia di questo nome, a(d)laudula, diminutivo di alauda che significa "lode a", "piccola lode a", non può non venire alla mente san Francesco, che vestì i suoi frati di un saio color allodola, color terra, (humus-humilitas), come per riconoscere l’origine dell’uomo, la sua sostanza, perché nella loro umiltà potessero cantare lode a Dio. E questa stessa allodola la ritroviamo in Shakespeare, nella scena quinta dell’atto terzo del Romeo e Giulietta: è l’allodola, uccello del mattino, e non l’usignolo come pensa Giulietta (il nome inglese di usignolo è "nigthingale", che richiama evidentemente la notte) a svegliare i due amanti: l’allodola è segno dunque della luce, di una luce che anche nel laico Shakespeare può illuminare la vita dell’uomo (in negativo, anche il romantico Shelley dedica un’ode all’allodola, ma nella sua visione atea della vita dice che essa "ha in dispregio la terra", l’esatto contrario di quel che diceva san Francesco).

Ma ascoltiamo anche la voce di Pascoli che in una delle poesie raccolte tra i "Canti di Castelvecchio", Il fringuello cieco scrive: "Ma la lodola su dal grano saliva a vedere ove fosse [l’oggetto sottointeso è il sole] / lo vedeva lontan lontano tra le belle nuvole rosse / e, scesa al solco dove mosse, trillava: / C’è, c’è, lode a Dio". Canta lode a Dio per il sole, che simboleggia il significato ultimo dell’esistenza, che illumina, guida, orienta il cammino di ogni uomo, è il tutto che l’uomo veramente desidera e per cui è fatto. E infine, Claudel che nel prologo dell’Annuncio a Maria parla della lodoletta "ad ali distese, piccola croce veemente", paragonata anche ai serafini che levano il loro acuto canto davanti al trono di Dio. E Pietro di Craon dice a Violaine: "Canta nei più alti cieli, lodoletta di Francia!", e lei risponde "Sì, perché Dio mi ha creata per essere felice".

Ma se per san Francesco la lode a Dio è un’esigenza che nasce da un’esperienza viva della presenza di Dio nella sua vita e nel mondo, una vita orientata e guidata verso il suo vero destino (anche le Chiesa, in particolare nell’arte romanica, erano "orientate", cioè con la facciata rivolta verso Oriente, là dove era nato il salvatore del mondo), oggi quale canto di lode possiamo trovare, quale preghiera?

In un articolo apparso sul "Corriere della sera" di qualche settimana fa si parlava in un lungo articolo della preghiera come di "devozione fai-da-te", e veniva riportato il testo di una canzone tratta dall’ultimo album di Jovanotti dal titolo "Questa è la mia casa": "O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso / che ha perso il filo e non sa dov’è / e che non sa neanche più parlare con te / ho un Cristo che pende sopra il mio cuscino / e un Buddha sereno sopra il comodino / conosco a memoria il Cantico delle Creature / grandissimo rispetto per le mille sure [sono 114!] / del Corano / c’ho pure un talismano / che me l’ha regalato un mio fratello africano / e io lo so che tu da qualche parte ti riveli / che non sei solamente chiuso dentro i cieli / e nelle rappresentazioni umane di te. / A volte io ti sento in tutto quello che c’è" ("Corriere della sera", 25/7/97).

È un misto di sincretismo e di panteismo, ma soprattutto è un chiarissimo indizio di un enorme disorientamento. È un disorientamento dovuto quindi ad una posizione di panteismo, e anche di nichilismo: si arriva così ad una decomposizione, ad una distruzione dell’io, del volto umano. Questa distruzione dell’io ha come conseguenza la distruzione di un popolo.

La coscienza di appartenere a questo mistero ha informato invece tutta la mentalità medioevale di fronte a tutto, anche le più tremende difficoltà: "la fede cattolica è stato il fattore propulsore che ha edificato la persona, dando motivazioni adeguate per vivere e mettendo così in condizione di vivere un rapporto costruttivo e positivo con la realtà (...). Questa fede cattolica guida alla costruzione della cultura nella società nel periodo che va dall’VIII-IX secolo fino al XIV, non è un’ispirazione individuale ma la fede di un popolo. È il popolo cristiano che costruisce, vivendo nelle condizioni obiettive di vita in cui si trova... La cultura, la società sono state costruite dalla vita di questo popolo"1.

Ma il Medioevo non è tutto uguale: troviamo in esso sia una continuità, sia un’originalità sorprendentemente variegata. "A mano a mano che si studia e che si estendono gli ambiti di interesse la denominazione di Medioevo si rivela sempre più inconsistente e vuota, se non deviante, sotto diversi profili. Intanto è difficile pensare ad un’età di mezzo che si estenda per tanti secoli, si può dire un millennio; poi appaiono confusi e labili gli estremi dentro i quali essa si porrebbe... Ma soprattutto, di là dai confini cronologici, sono i contenuti stessi del Medioevo a non tollerare questa posizione mediana: un’epoca così ricca di espressioni umane e cristiane d’ogni genere non può che esigere una propria originalità e non essere in funzione di nessun’altra.

Ecco, quindi: da un lato la continuità, che fa crollare le censure, nella misura in cui costringono i confini al servizio di altre epoche; dall’altro lato l’originalità che, in ogni caso, mal sopporterebbe una pura interpretazione di passaggio.

E infatti il Medioevo domanda di essere riconosciuto nella sua identità sorprendentemente variata e non risolubile né in una denominazione, né in un esito comune; non nel senso che neghiamo delle periodizzazioni, ma nel senso che ne riconosciamo più d’una. Il secolo XII non è il secolo XIV, e l’unificarli sarebbe riduttivo e non eviterebbe il fraintendimento, anche se sono riconoscibili le connessioni e in certo modo i condizionamenti. Con questo metodo attento ad evitare le semplificazioni il Medioevo presenta il suo volto vero, anzi i suoi volti e le ricchezze svariate e proprie che lo costituiscono (...) Il Medioevo è monastico e scolastico (...), è tempo di dialettica e di preghiera"2.

Un chiaro esempio di tutto questo è la figura di Anselmo, d’Aosta per gli italiani, o di Canterbury per tutti gli altri. Il grande pensatore, teologo e arcivescovo dell’XI secolo che muore agli inizi del XII, nella sua ricerca razionale di Dio (si pensi al suo Proslogion, dove fa uso del cosiddetto argomento ontologico per provare l’esistenza divina: il crede ut intelligas di Agostino si integra nell’intellige ut credas), si inginocchia davanti al suo Signore e creatore per pregarLo, e scrive le sue Orazioni e Meditazioni. Si pensi alla terza meditazione: il titolo (Meditatio redempiotnis humanae) e i passaggi successivi fanno capire che è tutto l’uomo che viene redento, in tutta la sua intelligenza e in tutta la sua affettività. "Fac, precor, Domine, me gustare per amorem quod gusto per cognitionem. / Sentiam per affectum quod sentio per intellectum (...) / Totum quod sum tuum est conditione; fac totum tuum dilectione"3.

Sant’Anselmo supera i moduli dei formulari carolingi, essenziali e quasi impersonali con l’uso della prima persona plurale, destinati sostanzialmente alla liturgia: egli dà totale spazio all’io orante. È una svolta decisiva nella storia della preghiera cristiana4. Questa evoluzione è percepibile anche nella storia della spiritualità, che vede nascere una pietà più personale, più affettiva rispetto alla devozione soprattutto collettiva, liturgica e "oggettiva" dell’epoca carolingia. Di qui una tensione costante tra l’individuo e la comunità, tra l’interiore ed esteriore – è la comunità che esalta l’io – tra la contemplazione e l’azione, che si risolve nell’armonia trascendente della carità. Così farà ad esempio, in un altro ambito, quello dei canonici regolari, Ugo di san Vittore.

Anselmo scrive le sue Orazioni e meditazioni a partire da sé, e le scrive innanzitutto per i suoi monaci, ma anche ad uso e profitto di ogni cristiano.

Anche Jacopone da Todi scrive per i suoi confratelli, e parte anch’egli dalla propria esperienza, che vede questo passaggio da prassi a contemplazione: nella spiritualità jacoponica non si dà altra direzione, nell’itinerario a Dio, che quella ascesi che porta alla contemplazione. In lui questo affectum si riversa nelle laudi con toni del tutto originali.

Un francescano e un benedettino: due spiriti così diversi, ma accomunati dalla stessa coscienza di appartenere al mistero, cui tendono con tutta la loro espressività, la loro intelligenza, la loro azione pastorale e perfino politica

"Il popolo cristiano è dunque grande protagonista di quest’epoca, il soggetto che crea un’unità organica senza termine. Il concetto di res publica christiana, di società cristiana, è tra i fondamenti della fede che è una, ma varia nelle sue forme, nei modi, nelle strutture. La fede infatti ha una forma non ideologica, ma che si esprime nella varietà delle realtà che incontra animandole in modo nuovo, con uno spirito nuovo"5.

 

 

Parola: Senza addentrarmi in una spiegazione della mostra, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti. Quello che colpisce più di tutto nell’accostarsi al Medioevo è la scoperta di un sincero e vero atteggiamento religioso presente in ogni cristiano. Le laudi nascono proprio da questo, da una familiarità con il Mistero, dal riconoscimento di ciò che era la sostanza di ogni cosa. Contemporaneamente voleva essere anche un aiuto a radicare tale coscienza. Infatti le laudi erano una volgarizzazione, una riproposizione delle preghiere non più in latino, che rischiavano di non essere più comprese dal popolo, ma nella lingua conosciuta. Quindi il popolo si ritrova cantando le lodi per potersi immedesimarsi di più con l’avvenimento cristiano e sentire sempre di più la concordanza del Dio incarnato con la propria esistenza. Aprendo qualsiasi laudario e vedendo quali sono i motivi predominanti, si nota come questi sono veramente vissuti nella loro carica umana, cioè il Mistero è sentito come veramente corrispondente e compimento di tutto ciò che è proprio dell’uomo. Ad esempio la Vergine è spesso ritratta nell’episodio dell’annunciazione. Le laudi sottolineano l’umiltà della Vergine a cui viene fatto l’annuncio, e l’immediatezza nella risposta, per far capire quanto la proposta cristiana fosse confacente all’umano.

Nelle laudi trova espressione una profonda immedesimazione con quanto narrano, dalla natività alla passione, di cui vengono sottolineati tutti i particolari più cruenti, come fosse un evento presente. Una cosa che colpisce è che mai la Vergine e il Figlio durante la passione si mettono ad affermare il significato del sacrificio proprio del Figlio di Dio, mai si ha un coro trionfale cui si afferma che questo è per un disegno del Padre, ma ne viene sottolineate la sofferenza, lo smarrimento umano ed è alternativamente la Vergine che conforta il Figlio ricordandoGli la Sua missione, o è il Figlio che ricorda alla madre che doveva passare attraverso questo la salvezza del mondo. Pur dentro la coscienza del significato ultimo tutta l’umanità dei protagonisti viene presa dentro. Questo ci fa capire la forte immedesimazione che era suscitata dalle laudi, il cui contenuto veniva a coincidere con l’esperienza di ognuno che nella fatica, nei tentennamenti, nei cedimenti, nel peccato cercava di affermare il Mistero, fra l’altro attuando uno scarto con l’ideale classico, secondo il quale chi conosceva il vero vi aderiva automaticamente. In questa visione non è contemplato il peccato, mentre nel Medioevo viene presa dentro tutta la fragilità umana, ma trapassata da questa coscienza. Nelle laudi ai santi non si parla di uomini perfetti, ma di uomini caratterizzati da gioia e da amorosità, si evidenzia questa umanità cambiata: gioia, allegrezza e amore sono i termini che più accompagnano l’incontro e l’adesione alla proposta di Cristo.

Nelle laudi sul tema della morte compare tutto ciò che nell’immaginario popolare poteva colpire e fare rabbrividire, non per un gusto fine a se stesso atto ad esaltare l’emotività del singolo, ma per mostrare come la bruttezza del male coincidesse con la perdita dell’umanità, con una privazione della sorgente dell’essere. Queste laudi di argomento escatologico finiscono tutte con un invito ad aderire alla fonte dell’essere capace di riscattare anche il momento della morte che addirittura viene preso a sommo paradigma di adesione della sorgente stessa dell’essere, dell’adesione a Cristo.

Nella mostra c’è una sezione su Jacopone da Todi la quale mette in luce che Jacopone non ha nulla a che spartire con le generalità dei compositori delle laudi; solitamente le laudi sono anonime, proprio perchè vennero scritte per le comunità laiche di oranti che andavano in giro a pregare e le recitavano. Jacopone invece le firma, tuttavia la sua coscienza teologica, la sua profondità umanana, la sua capacità letteraria, certamente superiori agli altri autori, nascono comunque da questa mentalità e testimoniano questo riconoscimento, questa coscienza diffusa, che Cristo è l’origine di ogni cosa e tensione ultima del proprio volere.

 

 

Rovetta: L’accostamento che questa mostra fa del fenomeno della lauda con l’evoluzione artistica di quei secoli su tutto il territorio italiano è una cosa abbastanza inedita; man mano che lavoravamo ci accorgevamo che era molto difficile trovare delle immagini che illustrassero in modo didascalico quello che le laudi dicevano, invece ci accorgevamo che era più il valore vocativo di queste immagini, come ad esempio i cicli di Assisi o di Padova di Giotto. Questa è un’indicazione interessante che ci dimostra che il Medioevo non è un mondo ideologico, ma un mondo che è stato capace di sviluppare attraverso ogni tipo di espressione una forma tipica e caratteristica. La lauda o l’affresco hanno un identico risultato attraverso una comunicazione diversa.

Un primo elemento che testimonia questa svolta, questo nuovo sentire che la lauda esprime in forma letteraria, è di carattere iconografico; alcune iconografie nel 200 cambiano radicalmente, basti pensare i crocifissi dipinti, l’elemento iconico per eccellenza della cultura del tempo. Da un Cristo trionfante, pur essendo in croce, si passa ad un Cristo che si accascia nella morte sul legno della croce: troviamo corpi flessi, lo sguardo non più aperto ma chiuso, la bocca rilasciata nella smorfia di chi ha esalato l’ultimo respiro. Questi crocefissi erano il punto di prospettiva di chi andava in Chiesa: questo fa capire che mutamento avveniva a livello non solo iconografico, ma anche della coscienza cristiana di quel tempo. Mutamento che sembra proprio voler dire che il punto di partenza dell’esperienza è l’umanità di Cristo ed è su questo che si vuole porre in modo particolare l’accento.

Un’altra virata importante è nel modo figurativo, il modo in cui viene realizzata la figura, in particolare quella umana. I personaggi che animano gli affreschi di questo periodo sono personaggi che si identificano soprattutto per gli sguardi e per i gesti. È impressionante, ad esempio, vedere come la Madonna guarda il Bambino e come la Madonna guarda Cristo nel ciclo degli Scrovegni a Padova.

Un terzo punto è il realismo, questo gusto, che diventa sempre più accentuato, del particolare realistico che vuole mettere in evidenza soprattutto gli elementi della sofferenza. Un esempio incredibile è il modo in cui il sangue sgorga copioso dai piedi trafitti del Cristo nella deposizione di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore di Assisi.

A conclusione dell’incontro l’attrice Loredana Alfieri ha letto alcune laudi (ndr).

NOTE

1 L.Negri, False accuse alla Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 90.

2 I. Biffi, introduzione a I lais di Maria di Francia, p. 9.

3 Ti prego, Signore, fammi gustare con l’amore ciò che gusto con la conoscenza. Che io provi nell’affetto ciò che provo nell’intelligenza (...) Tutto ciò che io sono è tuo per costituzione: fa che lo sia tutto per amore.

4 Cfr. Southern, che parla di "anselmian transformation", 1990.

5 L. Negri, False..., op. cit.

 

 

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