Mercoledì, 28 agosto, ore 11.15

DROGA: USCIRNE E’ POSSIBILE

partecipano:

Mons. Ersilio Tonini,

Arciverscovo di Ravenna

Claudio Calisti,.

frate minore conventuale, animatore del centro di solidarietà C.E.I.S. di Ravenna

Emanuela Bisi

Marco Antonetti

Franca Sama.

Mons.E. Tonini:

Cercherò di fare emergere quella misteriosa realtà che è la Chiesa, sempre chiamata a manifestarsi in ogni tempo in modo nuovo. Quando disperazione dell'uomo e mistero della Chiesa si congiungono, divengono insieme una manifestazione dei disegni di Dio, della presenza di Dio sulla terra. Io non parlerò del problema droga, ne sapete già fin troppo, vorrei soltanto portare qui insieme con i nostri amici un frammento d’esperienza umana. Infatti, questo è il problema droga: frammento di dolorosa e segretissima esperienza umana, uno dei momenti in cui la condizione umana si manifesta in tutta la sua complessità, tale da stordire e da stupire. Inizierò con una breve narrazione. Perché la nostra comunità diocesana è giunta a realizzare quest’esperienza che del resto si va facendo in Italia e in tutto il mondo? Iniziò qualche hanno fa’ con la richiesta di un farmacista che venne dal suo Vescovo a denunciare il dramma della sua coscienza, ma prima ancora il dramma di queste creature la cui sorte andava consumandosi. Vi ci si aggiunse un medico dell'ospedale alle prese, tutti i giorni, con questa realtà e infine un assistente sociale e un prete che già per conto suo aveva iniziato a raccogliere e assistere queste persone. Si aprì una casa guidata da un comitato, durò quattro anni, poi la si dovette chiudere. La buona volontà non basta, l'approssimazione è causa di gravissimi guai; la si chiuse soprattutto per mancanza di animatori, gente cioè che alla buona volontà, alla generosità, unisse la professionalità. Allora avemmo due anni di ripensamento, finché si decise di partire di nuovo, ma con uno stile ecclesiale...Fu costituita una cooperativa i cui soci erano i rappresentanti di tutte le parrocchie della città. Nacque così un primo organismo promozionale anch'esso rappresentativo dell'intera comunità. Le parrocchie poi furono invitate a dare il loro contributo effettivo. Oggi ogni parrocchia si tassa da sé per un contributo annuo. Quello che è stato fatto finora, è stato fatto senza un soldo offerto da pubbliche istituzioni o da enti pubblici locali: tutto è stato fatto in seguito alla generosità dei cristiani che si sono sentiti chiamati a farsi carico della sofferenza dei fratelli. E allora, scelto il metodo C.E.I.S., la grazia di Dio fece scoprire ad un gruppo di giovani la propria vocazione...Dio ci costringe a riconoscere l'impotenza per farci capire che è sempre dono quel che c’è concesso di fare. Ecco allora offrirsi un religioso, una religiosa e sette nuovi operatori: tutta gente che ha preso la decisione di fare una scelta di vita a favore di questi nostri fratelli. Ed ecco allora, cominciare l'epoca della manifestazione.... è la Chiesa impegnata a tradurre, in effetti, l'amore di cui è carica. Dentro la comunità sono emersi i carismi, le vocazioni...Ma ecco comparire e manifestarsi la realtà della famiglia. La famiglia appare essere davvero il centro, il lago di un'angoscia nascosta ai più, celata, perché non abbia a disturbare i ben pensanti, le discoteche e i loro frequentatori; la famiglia, centro dell'angoscia, sigillata da un'impotenza. E l'amore impotente è l'angoscia più drammatica e tragica che mai sia esistita...In ogni famiglia dove emerge la tossicodipendenza, emerge la povertà umana, marito e moglie finalmente scoprono di essere poverissima cosa e si accorgono di essere spesso cattivi padri, cattive madri, impreparati alla missione. Hanno creduto che bastasse generare e un po' di buona volontà: ed ecco emergere l'incapacità. E’ una delle verità più gravi su cui la Chiesa va riflettendo: la "Familiaris Consortio" ce ne dice qualche cosa. Moltissimi per un buon tratto di strada, padre e madre, diventano collaboratori del compromesso con i figli, si fanno corresponsabili della loro distruzione, per pietà, la pietà che distrugge. Ed ecco allora l'emergere a questo punto della Chiesa come realtà, fatta apposta per umanizzare e restituire agli esseri umani la dignità, la nobiltà, il sapore originario del vivere. E nell'accostarsi dei genitori alla fase dell'accoglienza, parlo naturalmente dell'esperienza C.E.I.S., del progetto uomo, essi vengono a scoprire quanto stavano sbagliando, come stavano barando senza saperlo. E viene loro una gratitudine infinita verso gli operatori che gli vari svelando le loro incapacità, i loro segreti tradimenti; gioia, gratitudine, proprio perché è restituito loro, finalmente il modello del padre e della madre, viene insegnato loro uno degli aspetti incredibili dell'amore materno e paterno che è quello della durezza per la verità e per la pietà. E’ uno dei punti più forti su cui don Picchi insiste ed ha perfettamente ragione. Ci sono padri o madri che si accorgono di amare di più quando rischiano con i loro no definitivi di dire al ragazzo: "Se vuoi andare, vattene! Ma il giorno che tornerai, dovrai tornare volendo la tua salvezza". L'aspetto più interessante, dove maggiormente ci si concentra, è l'animo del ragazzo. Perché l'animo del ragazzo tossicodipendente è uno dei frammenti più delicati, più misteriosi e più complessi della condizione umana. Lascio da parte per un momento i motivi che portano il ragazzo, alla tossicodipendenza; c'è dentro una realtà complessa su cui psicologi e sociologi hanno indagato. Dico solo quello che ho incontrato nella mia esperienza. Il ragazzo tossicodipendente, nel giorno in cui la durezza del padre e della madre la tragicità del dolore lo investono, inizia a fare l'esperienza del nulla. Nessuno fra gli esseri umani fa l'esperienza del nulla come i tossicodipendenti, un nulla esistenziale; egli sente il peso del nulla, diventato le sue ossa, la sua carne, il suo sangue, la sua anima. Non per niente mi cantano, quando io vado a trovarli, la canzone che più è gradita loro: "Il vagabondo", e la cantano con tanto gusto, in atto accusatorio; sono dei bei pubblici ministeri contro se stessi! E’ una ladra la droga, perché distrugge lentamente i più forti sentimenti umani, quelli che consentono all'uomo di essere felice. E si arriva alla disperazione cinica...Qui è il momento critico; per alcuni accade dopo un anno, dopo tre o dopo 5, per alcuni forse mai e anche a Ravenna abbiamo avuto qualcuno morto, qualcuno assassinato da un altro tossicodipendente. Ma abbiamo, grazie a Dio, anche dei salvati. Punto critico è il dolore: la prima breccia l'apre il dolore, in quelle muraglie spesse ed alte, un dolore inimmaginabile. Spinta dal dolore per il proprio nulla, ma soprattutto dal dolore fisico, l'anima ricompare come forza invocante, come grido, come voce che invoca la vita. Nessuno credo abbia mai sentito più forte aspirazione, cioè pathos, tensione totale dell'essere verso una liberazione, verso una nuova esistenza, come il tossicodipendente. E provo allora una gioia infinita nell'accostarmi ad essi, perché lì dove c'era la morte alla fine ho riscontrato l'inizio, lo stato originario dell'uomo. Quando appare loro la possibilità di liberarsi, si buttano dentro la breccia con la totalità di sé; e c'è una aspirazione, una sete, una volontà disperata. Cercano il valore. Per questo sono il riflesso più forte della condizione umana allo stato originario, perché c'è in ogni uomo una realtà di ordine metafisico, ontologico, c'è un bisogno radicato nel loro essere, nella loro costituzione umana. Qual è? Il bisogno di valere, di recuperare la vita, il bisogno di pensare che possono riuscire a compiere qualcosa di buono, quindi la proiezione sul futuro come recupero e riconquista di sé, come rinascita...Perché quando ridiventa importante la destinazione del proprio essere diventa l'idea dominante...Ecco allora offrirsi la Chiesa come risposta al bisogno di valere. Cosa accade a questo punto? Accade l'emergere di nuovi sentimenti che sembravano per sempre scomparsi, ricompare la figura materna e paterna e recuperando, a poco a poco, la sua preziosità, la sua unicità...E chiudo proprio con il tema della Chiesa. Dinanzi a questi ragazzi e dinanzi ai genitori è apparsa questa benedetta Chiesa così carica di difetti, limitata e incongruente, a volte così contraddittoria. Essa è la risposta alla domanda dell'essere. Ed è qui che appare uno degli aspetti più interessanti: è chiaro e così evidente che il denaro non serve! Ci sono enti locali che hanno speso 500.000.000 per preparare delle case per la raccolta di tossicodipendenti, ma quando fu l'ora di aprirle, mancava chi le potesse gestire...Ecco la piccola ma enorme testimonianza della Chiesa di oggi: noi siamo quella Chiesa in cui ancora respira l'amore di Dio, in cui traspare la sollecitudine di Dio per le sue creature. Io chiudo con questa lode a Dio, che fa emergere la Chiesa presso la Croce. Ebbene, il nostro posto è presso la Croce presso la Croce non ci si gloria, presso la Croce si soffre, ci si riconosce al proprio posto. Non facciamo altro che il nostro dovere, con una sola richiesta: che ci si lasci amare.

C. Calisti:

Parlare di droga oggi fa paura perché si pensa che uscirne non è possibile. Il Centro di Solidarietà è una risposta tra le tante e oggi siamo qui per dirvi che dalla droga si può uscire. Lo può fare l'interessato in prima persona, ma non da solo; vicino a lui è necessario che ci siano delle persone che condividono la sua esperienza...La mia avventura è iniziata dall'incontro con una persona che soffriva e per me è stato in qualche modo l'incontro con il Cristo Crocifisso, con il quale ho scelto di vivere. Cominciai a conoscere le varie esperienze educative di recupero dei tossicodipendenti, finché approdai al C.E.I.S. Chi è il tossicodipendente per noi del Centro Italiano di Solidarietà di Ravenna, del "progetto uomo"? La legge del 1975 diceva che era un malato. Don Mario Picchi sintetizza questa problematica in questo modo: è una persona che ha un problema in più. Tossicodipendente è una persona che fugge dalla realtà, vuol uscire da se stesso perché ha paura, delega le sue responsabilità e preferisce porsi come vittima perché così può raggiungere i suoi obiettivi, cioè trovare una ulteriore dose. Noi diciamo che la prima responsabilità è della persona...Il "progetto uomo" è un percorso educativo, che al centro di tutto pone l'uomo che, crediamo, può prendere in mano la sua vita se cammina insieme ad altre persone. Per noi il tossicodipendente non è una persona da isolare e neanche da emarginare perché diverso, ma una persona da amare. Il nostro programma si divide in tre parti. Il primo momento è quello dell'accoglienza in cui al ragazzo viene chiesto di interrompere con qualunque tipo di sostanze e incominciare, attraverso il confronto e l'aiuto dei gruppi, a capire che il problema è lui come persona e non la sostanza. Il secondo momento è la comunità terapeutica, dove si fa il vero e proprio lavoro. E’ un momento definitivo, è una piccola società all'interno della quale il ragazzo incomincia a conoscere se stesso, a lavorare su se stesso, a interiorizzare dei valori, in modo particolare l'onestà, la responsabilità e il rispetto di sé e degli altri: perché conoscere se stesso significa innanzi tutto avere la capacità di rapportarsi agli altri. Il terzo momento è il reinserimento, dove il ragazzo riprende i contatti con la società nella quale si inserisce pienamente con un lavoro e una casa propria, in piena autonomia. "Progetto uomo" non è solamente un programma terapeutico. Come dice don Mario Picchi, "progetto uomo" è un ideale concreto che consiste nell'essere liberi e realizzati. Pertanto la eliminazione delle dipendenze è solo uno dei suoi aspetti. L'uomo è il primo e centrale valore della creazione, ma non è l'assoluto. Nel programma, unitamente al cammino dei ragazzi, c'è il cammino dei genitori, perché crediamo che la famiglia debba e possa stare accanto al proprio figlio... La droga è un problema che va affrontato facendo in modo che ogni uomo abbia la possibilità di avere nella sua vita l'ideale, il riferimento a dei valori.

E. Bisi:

Mi sono bucata per due anni. Alla fine di essi sentivo che non ce la facevo più. Pensavo di avere molti amici e tanta gente intorno a me e invece mi sono ritrovata sola. Ho chiesto un aiuto ai miei genitori, perché erano andati prima di me al C.E. I. S. e avevano già iniziato a fare dei colloqui con gli operatori. Poi ho iniziato il programma. Penso che sia stata la cosa più importante che ho fatto nella mia vita, la prima cosa che sono riuscita a iniziare e a terminare. Sono entrata in comunità e ho chiesto per la prima volta un aiuto alle altre persone. In vita mia non avevo mai chiesto niente, avevo sempre cercato di ottenere le cose in maniera disonesta senza chiedere. Ho chiesto e mi sono trovata per la prima volta fra degli amici, fra delle persone che mi davano una mano: questa mano non era regalata, ma era qualcosa che io ho dovuto imparare a guadagnarmi. Ho imparato dei valori che avevo completamente dimenticato: l'onestà, la responsabilità e, una cosa molto importante per me, l'interesse per le altre persone. Verso la fine della comunità, dopo i primi 5-6 mesi, ho cominciato a dare una mano alle persone che entravano e questa cosa mi faceva e mi fa stare molto bene. Ho finito la comunità e sono entrata nella fase dell'inserimento e ho iniziato ad aiutare così i ragazzi della prima fase. Poi sono ritornata al mio posto di lavoro, alle Poste, nella mia città e ho trovato moltissima disponibilità. Quando ho portato anche sul posto di lavoro quei valori che avevo imparato in comunità, ho chiesto una mano anche qui e mi è stata data fino in fondo. Ora mi sono trovata la casa e vivo con una mia amica, faccio del volontariato, sono rimasta legata al C.E.I.S., inizierò a fare dei colloqui ai ragazzi nel carcere perché sento di avere dentro di me un patrimonio, qualcosa da dare...Una cosa molto importante è il fatto che è cambiato il rapporto con i miei genitori. Dopo sette mesi di comunità ho rivisto i miei genitori, ho visto il dolore di mia madre e ho sentito tutto l'amore che avevo per lei e anche l'amore che lei provava per me...Ora voglio andare avanti, voglio vivere. A volte mi torna ancora la voglia di farmi, perché credo che la roba sia una cosa indimenticabile. Per non farmi mi attacco a queste cose che ho imparato: all'amicizia, alla speranza, all'amore, alla vita...

M. Antonetti:

Anche io ho fatto il programma. Ho finito da alcuni mesi e adesso lavoro, ho una casa, vivo con mia moglie, ho degli amici. Non faccio niente di particolare: sto vivendo! Anch'io con il C.E.I.S. ho riscoperto la voglia di vivere. Ho fatto un cammino in cui ho rivalutato tutto di me, ho riscoperto i valori a cui mi ero chiuso. Non davo più importanza all'amore dei miei genitori, all'interesse per gli altri, all'amicizia. Adesso anch'io faccio del volontariato, cerco di aiutare gli altri, perché sono convinto che si può uscire dalla droga, ma non da soli. Io ho provato in tanti modi, prima di smettere: ho usato il metadone, rimanevo in casa, andavo in montagna, mi separavo da mia moglie, ma non ce l'ho mai fatta fino a quando ho cominciato a fidarmi e a vedere che da solo non ce la facevo. Se non ci fosse stato qualcuno vicino che mi voleva bene, che mi guidava, non ce l'avrei fatta. E adesso cerco di aiutare gli altri, come hanno fatto con me. Questa è una cosa che mi fa superare le difficoltà che incontro ogni giorno perché non è facile vivere, non è facile lavorare otto ore in una azienda, non è facile portare avanti una famiglia, mantenere una casa, gestire i soldi; sono tutte cose che prima non volevo fare. Adesso le faccio, sono più cosciente e riesco a trovare dei lati positivi alla vita... Non è così brutto il mondo, non è così egoista, ci sono ancora delle persone disposte a dare una mano agli altri. Penso sia proprio questo che aiuta a vivere bene, a continuare questa strada che è la vita...

F. Sama:

La famiglia di un tossicodipendente vive un'esperienza terribile di umiliazioni, di vergogna e soprattutto di impotenza, perché non sa cosa fare: vede il figlio che si distrugge, si chiude fra le quattro mura di casa, piange, cerca di parlargli... Abbiamo conosciuto il Comitato cittadino antidroga il quale ci ha suggerito di provare al C.E.I.S. Siamo andati la prima volta, io e mio marito, senza dir niente al ragazzo...Siamo entrati, ci hanno abbracciato e baciato, ci hanno detto: "Qui ci diamo tutti del tu, perché anche noi abbiamo il tuo problema". Gli operatori ci sono stati subito vicini, abbiamo capito che finalmente, dopo quattro anni, avevamo trovato un'ancora a cui agganciarci, per lo meno una speranza. Ci siamo chiesti, io e mio marito: dove abbiamo sbagliato con questo ragazzo? Abbiamo convinto mio figlio con le buone maniere, anche perché il 30 ottobre 1984, era entrato in coma nel bagno di casa dopo essersi iniettato una sostanza probabilmente già vecchia di qualche tempo. Mio marito ha buttato giù la porta e l'ha salvato. Il ragazzo si è svegliato in ospedale e per la prima volta ha detto: "Papà, mamma, aiutatemi, voglio uscire da questa situazione che mi sta sommergendo!", ed è venuto al C.E.I.S. Ha fatto nove mesi di accoglienza, con alti e bassi, perché la voglia della strada è forte. Qualcuno ogni tanto cede, esce, perché al C.E.I.S. non chiudono le porte. Comunque mio figlio ha fatto i nove mesi e poi è entrato in comunità. La mattina che l'abbiamo portato in comunità, gli ho detto: "Alberto, nove mesi di accoglienza: è come se ti avessi partorito per la seconda volta! Stai rinascendo di nuovo e adesso sta a te proseguire". E l'esperienza più bella che abbiamo avuto mio marito e io dopo tanti anni, è stata l'abbraccio fortissimo di nostro figlio con la testa sulle nostre spalle, che ha detto: "Papà, mamma, ce la metto tutta perché voglio farcela". Per noi, gli operatori del C.E.I.S. sono più di fratelli, più di amici cari. Ci hanno aiutato anche come famiglia, perché quando c'è un problema così terribile in casa, anche i rapporti di coppia, quelli con gli altri figli, cedono... Tutto questo lo devo al "progetto uomo". Mio figlio sa che noi genitori stiamo camminando insieme a lui, che anche noi abbiamo cercato con tutte le nostre forze di cambiare per stargli sempre vicino. Grazie a Don Picchi, ai nostri carissimi operatori e a Sua Eccellenza.