Lo sport: quale impresa?

Lunedì 25, ore 11.30

Relatori: Valerio Bianchini, Eraldo Pecci,

Carlo Tranquilli, Allenatore Team Sistem Bologna Commentatore Televisivo

Medico Federale Federazione

Italiana Giuoco Calcio

 

 

 

 

 

 

Tranquilli: Sembra spesso esserci una sorta di contrapposizione tra un modo di fare sport semplice ed essenziale e un modo di fare sport ad alto livello. D’altro canto sembra forzato mettere nello stesso calderone questi due tipi di sport, quello "quotidiano" e quello di altissimo livello, lo sport dei miliardi, dei Ronaldo, che è molto più spettacolarizzato. Vorrei fare qualche considerazione sul "passaggio" dal primo al secondo tipo di sport.

Essendomi occupato soprattutto di sport giovanile, anche ad altissimo livello, ho visto spesso il momento del passaggio, quando giovani campioni molto promettenti all’improvviso diventano da prima pagina dei giornali. È una cosa molto particolare vivere questo passaggio, perché è un passaggio che riguarda soltanto pochissimi, pochi eletti, perché nella maggior parte dei casi invece tale passaggio non avviene, o comunque non a questi livelli. È difficile che chi inizia a fare sport abbia già l’idea di diventare un grande campione; accade poi che alcuni giovani si incanalano o vengono incanalati in una società e in un certo tipo di professionismo, e così a soli quattordici anni vengono trattati con un criterio di selezione, di allenamento, di preparazione fisica che a livello mentale e fisiologico è legato allo sport professionale. Il livello professionale non è infatti soltanto in relazione al guadagnare soldi: lo stimolo che c’è nell’attività sportiva professionale è uno stimolo che in qualche momento della vita, soprattutto in un momento di passaggio come quello del quattordicenne, dal punto di vista mentale e psicologico può portare a dei seri problemi, per il tipo di pressione cui si viene sottoposti.

Chi ce la fa è un campione anche dal punto di vista biologico: in quanto medico so che esistono delle differenze nel reagire allo stress, mentale e fisico. Lo stress è una reazione dell’organismo, che reagisce esattamente come farebbe un animale aggredito: un animale aggredito reagisce con lo stress, reagisce – come il gatto – arricciando il pelo o tirando fuori le unghie. La stessa cosa accade agli uomini, e la risposta diversa che si può avere a questo agente esterno negativo, lo stress, caratterizza il campione vero. Quello che distingue il campione vero dagli altri è proprio il modo in cui subisce lo stress, anche lo stress della sconfitta o della pressione esterna. È un fatto congenito: chi riesce a venir fuori dalla lotta era predestinato ad essere più forte degli altri, dal punto di vista biologico e psicologico. Chi a vent’anni ha la caratteristica di "uscire dal branco", di sfidare il maschio predominante – per rimanere nelle metafore del regno animale – , sarà il vero campione. Questo comporta che trasportato nell’impresa sportiva, quel soggetto vincerà tanti soldi, così tanti da fargli girare la testa, e questo comporterà un altro tipo di stress. Ci sono infatti alcuni giovani campioni che sono scomparsi trovandosi in questo tipo di situazione, perché l’euforia di trovarsi miliardari a vent’anni è uno dei grossi pericoli che corre il campione. Il campione vero supera anche questo, probabilmente perché ha qualcosa di diverso, ha dei valori ben diversi da quelli economici o dell’affermazione di se stesso, valori legati piuttosto al vero senso dello sport. Perfino lo sport miliardario deve avere dentro qualche valore diverso, umano, morale, e dunque anche religioso.

 

 

Bianchini: L’impresa sportiva è legata strettamente al problema dell’educazione dei giovani: per questo, dobbiamo porci dei grandi interrogativi in questo momento, perché se guardiamo la situazione dello sport italiano e dei giovani in Italia, ci accorgiamo che il nostro non è stato mai uno sport libero e popolare. È stato sempre uno sport elitario, essendoci due tipi di élite: i ragazzi che avevano i soldi per poter praticare lo sport a spese loro, e l’élite dei ragazzi bravi che non avevano bisogno di soldi per fare sport, ma che trovavano naturalmente chi si contendeva la loro prestazione sportiva. Era lo sport legato al sistema del vincolo del cartellino: un ragazzino particolarmente dotato si avvicinava alla pratica sportiva e se gli allenatori vedevano in lui qualcuno che potesse avere una carriera, che potesse diventare un giocatore di una certa utilità, veniva tesserato. Il tesseramento avveniva a quattordici anni ma funzionava tutta la vita: quel ragazzo dai quattordici anni in poi, o meglio la sua prestazione sportiva, sarebbe stata proprietà di qualcun’altro. Questo ha creato un piccolo meccanismo, geniale, seppure perverso. Nel momento infatti in cui il ragazzo diventava proprietà, diventava come un oggetto che si poteva trasferire, e i ragazzi diventavano un soggetto molto interessante dal punto di vista commerciale. C’era anche un mercato, una richiesta, una domanda, un’offerta, e questo ha di fatto tenuto in piedi lo sport italiano, soprattutto lo sport di base, perché era un sistema che creava un movimento di soldi con cui poi si pagavano gli istruttori, le palestre, con cui si continuava a produrre giocatori per i sistemi professionistici fino alle Olimpiadi. Ma nel contempo questo sistema era penalizzante nei confronti di tutti quei ragazzi che avrebbero voluto fare dello sport semplicemente come strumento di crescita, per imparare tutte le cose meravigliose che sono dentro lo sport e che invece spesso la pratica estremamente agonistica dimentica o addirittura nega e contraddice.

La conseguenza di questo sistema è che la massa si è accostata allo sport senza conoscerlo, soltanto informata dai giornali, senza mai avere sperimentato realmente che cosa è lo sport, che cosa significa la disciplina, la voglia di migliorarsi, il gusto di battere l’avversario, ma anche la necessità di accettare di essere battuti per migliorarsi. Sono questi dei valori che non vengono riconosciuti nella pratica sportiva perché fortemente portata all’utilitarismo, e che nello stesso tempo non vengono vissuti da chi poi diventa spettatore dello sport.

La situazione sportiva italiana è adesso pronta al cambiamento. La sentenza Bosman ha infatti liberato tutti i giocatori, dando loro la possibilità di scegliersi una strada: siamo dunque arrivati al punto in cui abbiamo bisogno di ricostruire, perché abbiamo la libertà per farlo, pur non avendo una struttura in cui mettere questa libertà.

Sono convinto che l’unica reale possibilità per mettere a frutto questa libertà e dunque per riappropriarsi dei valori dello sport come componente necessaria dell’educazione dei ragazzi, al di là delle possibilità di ciascuno di diventare un campione o un semplice spettatore sia la scuola e il contesto educativo. C’è invece una netta separazione tra lo sport e l’educazione: lo sport infatti porta via tempo a un ragazzo, e la scuola di oggi – creata da Gentile negli anni venti – vive ancora la scissione idealista tra spirito e corpo, la prevalenza del primo sul secondo. Per questa scissione, i professori odierni non vedono bene il fatto che un ragazzo porti via tempo allo studio con lo sport, negando invece allo sport proprio quelle qualità di socializzazione, di autoresponsabilizzazione, di progettualità che sono indispensabili nella formazione di un giovane uomo.

L’immagine di sport cui dobbiamo puntare è un’immagine più umana, più rivolta con attenzione allo sviluppo globale del ragazzo: non l’immagine dello sport – cui accennava prima il dottor Tranquilli – tragicamente puntata al perfezionismo sportivo assoluto. Rabbrividisco ogni volta che penso che si possa destinare un ragazzo a diventare un campione: il segreto è diventare campioni di umanità, perché questo rende capaci di essere anche campioni di sport, di dare il significato adeguato ai soldi che giustamente si guadagnano. Se però si creano dei piccoli mostri che devono essere campioni, poi avremo una società di mostri sportivi o peggio ancora mostri e basta, come quel ragazzo che andando a Genova per vedere Genoa-Milan ha portato con sé un coltello. Non possiamo rimanere in questa sottocultura sportiva: apriamoci a un’idea nuova di sport in Italia.

 

 

 

 

Pecci: Quando uno fa il mestiere dello sportivo, parte dall’inverso della regola che si applica solitamente ai mestieri: di solito infatti uno va a lavorare e in seguito, se gli piace, può anche divertirsi nel lavorare. Mentre nello sport si parte dal divertimento: anche chi vuole arrivare lo fa perché gli piace, perché si diverte, e infatti se non si diverte tanto o se non gli piace tanto, a dei grandi livelli non potrà mai arrivare.

La grande passione iniziale instaura poi quel meccanismo legato all’attività professionale e al guadagno, di cui si è già parlato. È una sorta di fabbrica. Questo modo di fare lo sport porta a dei disadattati.

Come evitare che questa fabbrica porti a dei disadattati? Bisognerebbe trovar la maniera di far fare agli atleti qualcosa di diverso dalle attività strettamente sportive, porli a contatto con la realtà, e nel contempo recuperare la dimensione iniziale dello sport, la passione di cui parlavo prima.