Le catene e la libertà

 

 

Domenica 23, ore 18.30

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Relatori:

Marco Bertoli, Psichiatra, Responsabile dell’Unità Operativa di Riabilitazione Psichiatrica dell’Azienda Sanitaria Bassa Friulana

Gregoire Ahoungbonon, Fondatore dell’Associazione San Camillo per l’accoglienza e la riabilitazione di persone malate di mente

 

Bertoli: Voglio raccontarvi quello che ho visto in Costa d’Avorio dove sono andato un anno fa con altre quattro persone. La realtà che abbiamo incontrato è stata una realtà scioccante: quando parliamo della trascuratezza dell’io, mi viene in mente molto di ciò che ho visto in Africa, dove la persona senza Cristo sembra veramente perduta.

La cosa che ci ha più impressionato come tecnici e come psichiatri è stato che tutto il lavoro che stiamo cercando di fare in Africa nella nostra azienda sanitaria per il recupero e la riabilitazione di questi malati è proprio quello che tentiamo di fare anche qui in Italia: recuperare il malato la possibilità di una casa, di un lavoro e di relazioni sociali.

Gregoire, che è un tassista, per tre anni ha fatto questo lavoro, ha liberato 800 persone dai tronchi o dagli alberi, accogliendole in alcune fattorie, dove attraverso il lavoro dei campi o l’accudimento del bestiame, sono state riabilitate e messe in condizione di poter lavorare per guadagnare. Dopo un periodo di riabilitazione li riaccompagna nel villaggio, dove la persona viene riaccolta, perché è sempre un membro del villaggio che viene perduto, e che quando ritorna viene riaccolto. Mi ha sempre colpito che in Costa d’Avorio le uniche persone totalmente nude che giravano per le città erano i malati mentali: si tratta quindi di una realtà tragica, che però si apre ad una speranza, come quella suscitata da un personaggio come Gregoire.

Come occidentali e come persone tecnicamente preparate, ci stupiva che la tecnica addottata da Gregoire è molto vicina alle tecniche erudite nostre, senza il passaggio per quella che è stata l’esperienza del manicomio. Il nostro contributo all’opera di Gregoire può essere una collaborazione perché la sua opera possa progredire, possa funzionare e continuare; quindi ci siamo messi al suo fianco perché questo possa accadere nei termini della speranza per queste persone che soffrono, che molto spesso sono considerate solo pericolose, invece sono persone sole.

Voglio concludere con una citazione da Porta la speranza di Giussani: "A tutto il dinamismo dell’anima umana Cristo ha posto come legge la carità. Occorre chiarir bene il senso di questa legge e per riuscirsi c’è altro che meditare quel che Dio stesso ha fatto: egli ha "condiviso" la nostra vita fino a "condividere" la nostra morte. Carità è condividere gli altri, il "prossimo". (...) Il condividere non si può limitare a quelli che si hanno attorno, ma bisogna condividere tutti gli uomini. Il limitare la carità a quelli che si hanno vicino sarebbe non più un condividere, ma una scelta in base al proprio criterio e quindi un’affermazione di sé. Limitare infatti la propria apertura di convivenza è cercare d’imporre una propria misura alla legge profonda dell’essere, è confondere l’amore con il calcolo, è scambiare il condividere con un tentativo di dominio. La Carità è una legge senza confini, universale, ‘cattolica’" (pp. 14-15).

Per me giovane medico e giovane psichiatra, aver incontrato Gregoire un anno fa ha significato capire profondamente queste parole. Da allora mi sono sentito anch’io un po’ più libero. Il titolo di questo incontro è "Le catene e la libertà": vivere con Gregoire è un’esperienza di libertà proprio perché parte da un incontro che lo ha sorpreso, l’incontro con Cristo.

Ahoungbonon: Mi chiamo Gregoire Ahoungbonon, sono beninese di origine e dal 1971 vivo in Costa d’Avorio e precisamente a Bouaké. Sono sposato e padre di sei figli. Ho ricevuto il battesimo da bambino nel 1952; nel 1971 sono partito all’avventura per cercare fortuna in Costa d’Avorio. In Costa d’Avorio ho imparato il mestiere del gommista: riparavo pneumatici. All’inizio tutto funzionava bene, ho incominciato anche una impresa di trasporti, fino ad aver cinque taxi che è una cosa notevole in Africa. Devo riconoscere che quando ho iniziato la mia avventura in Costa d’Avorio, come il figliol prodigo ho abbandonato la Chiesa.

Nel 1978/79 le mie imprese hanno cominciato ad avere problemi finanziari. Le difficoltà in quel momento erano tali che mancava poco che mi impiccassi. E ogni volta che prendevo la decisione di impiccarmi c’era in me una voce che diceva: la vita che è in te non viene da te. Queste difficoltà mi hanno permesso di ritrovare il cammino della Chiesa. Passavo molto tempo nella lettura della Bibbia e nella preghiera.

Nel 1982 ho avuto la fortuna di partecipare a un pellegrinaggio a Gerusalemme, nel corso del quale mi ha colpito soprattutto una frase detta dal padre che lo guidava: "Ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa ponendo la sua pietra". Questa frase mi ha toccato profondamente, mi ha sconvolto, e mi chiedevo quale fosse la pietra che io dovevo porre per costruire la Chiesa. Al ritorno a Bouaké questa frase era ancora dentro di me; decisi di creare un piccolo gruppo di preghiera con la gente del mio quartiere. Era un quartiere a prevalenza mussulmana, e ho trovato solo otto persone disposte a formare questo gruppo.

Un giorno uno dei membri del gruppo è venuto a dirci che c’era un bambino gravemente ammalato nel quartiere: era stato riportato a casa dall’ospedale perché non avevano i mezzi per curarlo e stava morendo in casa. Mi chiese se potevamo andar a pregare per questo bambino; gli risposi che non c’era nessun problema, purché la famiglia mussulmana avesse accettato. L’indomani mattina ci siamo recati a pregare e la madre del bambino è venuta a ringraziarci dicendoci che il nostro Dio è veramente forte perché il bambino aveva ripreso a mangiare. Si stava così delineando la mia missione: mi sono detto "Dio ha bisogno di noi - di me e del mio gruppo - da qualche parte", e abbiamo deciso di recarci all’ospedale per visitare gli ammalati. Queste visite mi rendevano contento e nello stesso tempo mi scioccavano. Ero contento perché vedevo la gioia di questi ammalati e scioccato per il fatto che si chiedevano come mai noi cristiani cattolici andassimo a pregare negli ospedali, dove di solito si vedono soltanto i protestanti. A partire da questo momento abbiamo capito che Dio aveva bisogno di noi proprio in questo ospedale: attraverso queste visite Dio ha bisogno di molti Simone di Cirene per aiutare quelli che portano la croce, di molte Veroniche sula via del Calvario per asciugare il suo volto sofferente.

Per capire il contesto in cui operiamo, bisogna descrivere brevemente la situazione sanitaria dei nostri paesi d’Africa. In Costa d’Avorio e in quasi tutti i paesi dell’Africa le cure non sono gratuite: quando uno entra in ospedale deve pagare tutto, dalla consultazione al materiale. Se ad esempio deve operarsi, deve pagarsi il cerotto, il filo, l’ago. Se non hai i soldi, ti lasciano morire.

Ho cominciato anche a chiedermi se poteva bastare pregare soltanto per queste persone, oppure se dovevo mettermi a lavarle, a pulirle, a cercare di guarirle, a comperare le medicine perché erano abbandonati dalla famiglia e da tutti. La associazione san Camillo da noi costituita è diventata così un punto di riferimento soprattutto per certe situazioni tragiche: un esempio sono le donne che arrivano all’ospedale per un taglio cesareo spesse volte muoiono sul tavolo di travaglio perché non possono comprare il necessario per questa operazione. Così i medici hanno cominciato a chiamarci anche la notte per venire, per cercare medicine, per cercare il necessario per salvare queste donne; ne abbiamo salvate parecchie.

Questo è continuato fino al 1988. In seguito abbiamo iniziato un lavoro anche con i carcerati. La situazione della prigione è terribile: una prigione per 300 persone ne contiene 500, e le prigioni africane sono grandi stanzoni dove i prigionieri sono ammassati, dormono la notte su un fianco, molti devono restare in piedi perché non c’è posto per dormire neppure per terra - non ci sono letti naturalmente -, mangiano una volta al giorno un menù la cui qualità vi lascio immaginare. Non c’erano medicine, non c’era nessuno per curare queste persone, non c’erano nemmeno toilette, la gente doveva prendersi gli escrementi con le mani per versarli nel cortile del carcere. Abbiamo formato una persona in quanto infermiere, abbiamo aperto una infermeria, abbiamo potuto costruire delle toilette e questo grazie anche all’aiuto della diocesi di Gorizia dell’Italia che ci ha molto aiutato in questo senso. Questo fino al 1991-92.

Nel 1991/92 ci siamo incontrati con una realtà che è presente in tutta l’Africa: la situazione dei malati di mente. Vedevo a quel tempo queste persone nude che vagavano nella città, che dormivano nelle fogne, che mangiavano nella spazzatura. Bisognava ridare dignità a questi uomini. Queste persone sono considerate come una maledizione per la famiglia, come una stregoneria, oppure come posseduti dal demonio: sono rinnegati oppure abbandonati completamente. Quando ci sono delle visite di politici importanti o di capi di Stato stranieri in una città, tutte queste persone sono raccolte, messe in un camion e gettate nella foresta. Anche se qualcuno gli fa la carità, dopo non hanno la possibilità di comperarsi qualcosa perché nessuno vuole vendergli nulla. Per questo vanno nella spazzatura per cercare il nutrimento. Così, mi sono detto che dovevo avvicinarmi a loro, che dovevo diventare loro amico per comprendere ciò di cui hanno bisogno. Abbiamo iniziato a distribuire a queste persone il cibo durante la notte, dalle sette di sera fino a mezzanotte o l’una del mattino. Mi sono chiesto se questo bastasse, perché anche loro avevano diritto ad una casa; e per questo abbiamo iniziato la costruzione di un primo centro di accoglienza.

Parlando della costruzione di questo primo centro voglio sottolineare che tutto ciò che facciamo è a partire dalla provvidenza di Dio. Non abbiamo finanziamenti, è Dio che si occupa dei suoi poveri. Per costruire questo primo centro ho avuto dei problemi con tutte le persone che lavorano con me, perché effettivamente sono diventato pazzo, gli altri sono ammalati ma io sono diventato un vero pazzo... Tutti mi dicevano che era impossibile pensare di costruire un edificio che costa 60 milioni di lire quando non c’erano nemmeno i soldi per le medicine e per il cibo. Ho deciso di cominciare: ho chiamato dei muratori e ho iniziato le fondamenta. Un vecchio missionario che è il nostro tesoriere, vedendo i muratori che stavano scavando le fondamenta mi ha chiesto: "Cosa vuoi fare Gregoire?" e io gli ho risposto "È la casa per accogliere gli ammalati". "Dove sono i soldi?". Gli risposi: "Non sono io che abiterò questa casa, quindi il proprietario cercherà i soldi". Effettivamente il proprietario ha trovato i soldi: in sei mesi abbiamo costruito la casa e l’abbiamo inaugurata. E questo sulla provvidenza di Dio: il proprietario è Dio. Abbiamo iniziato subito a raccogliere questi ammalati, e cominciando a raccoglierli abbiamo scoperto che ci sono degli ammalati che subiscono delle sofferenze terribili nella loro vita. Nel nostro lavoro abbiamo recuperato almeno qualcuna di queste sofferenze e ridato una dignità agli ammalati.

Non c’è solo la famiglia che ha la visione degli ammalati come posseduti dal demonio: purtroppo ci sono anche alcune sette protestanti che vedono il malato di mente come un posseduto da Satana. Queste sette promettono una vita facile per tutti. Sono contento di aver scoperto che il tema del Meeting è "La vita non è sogno": al contrario, le sette promettono molti sogni, soprattutto ai giovani, e promettono alla famiglia di guarirli, di liberarli dal demonio, di farli venire ai loro centri, e si fanno pagare in anticipo 15.000 franchi, 45.000 lire, una somma notevole per la gente del nostro paese. Il loro metodo di guarigione consiste nell’incatenarli, sotto il sole e sotto la pioggia a degli alberi, nel frustarli gridando "Demonio esci, demonio esci" e nell’obbligarli a digiunare cinque giorni alla settimana, senza bere né mangiare. Finiscono per bere la loro urina.

È questo il modo in cui vivono questi malati di mente. Ma Dio si è incarnato in loro, Dio ha privilegiato i poveri, Lui stesso ha detto: "Ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli, è a me che l’avete fatto". Questi poveri, questi ammalati rappresentano per noi il Cristo, la persona del Cristo. Dare da mangiare, dare da bere, vestire questi poveri, è dare da mangiare, dar da bere, vestire, Cristo. Non posso passare davanti a un ammalato e girarmi da un'altra parte, perché Cristo è in loro: sono Cristo.

Il nostro desiderio più grande è che la mentalità dei nostri fratelli africani nei confronti di questi ammalati di mente possa cambiare. Ho girato un po’ l’Africa, i paesi limitrofi, il mio paese, il Benin, e ho visto che anche negli ospedali psichiatrici i malati di mente sono incatenati. Lo psichiatra direttore dell’ospedale psichiatrico di Buoaké vedendo come curo questi malati di mente mi ha detto che sono uno stregone.

Da molte parti ci chiamano, e ne siamo contenti; non abbiamo mezzi, ma io ho fiducia in Dio, ho fiducia in voi tutti, perché l’uomo è troppo prezioso per essere abbandonato in questo stato. Non possiamo continuare a lasciare che l’uomo diventi una spazzatura in mezzo alla società. Dobbiamo unirci. Prego tutti coloro che hanno un cuore già rivolto verso i poveri di unirci per andare e soccorrere tutti questi oppressi.

Non ho dei segreti al di fuori di quello che Cristo ci ha insegnato: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Quando vedo un ammalato, un sofferente, un incatenato, penso alla mia esperienza, alla mia sofferenza profonda e mi immedesimo in loro; per questo non posso abbandonarli, perché Dio non mi ha abbandonato nella mia vita. Hanno bisogno di essere amati e hanno bisogno soprattutto della fiducia che noi gli doniamo. Il miglior trattamento è la fiducia e l’amore.

A un certo punto nella nostra opera abbiamo pensato di costruire un ospedale cattolico, perché i poveri in Africa non hanno diritto alla salute. Ancora una volta, mi hanno detto che ero pazzo, perché non avevo neppure cento franchi per cominciare a costruire un ospedale. Grazie a Dio ci sono stati degli aiuti dalla diocesi di Gorizia che ha costruito un padiglione di oculistica; Manos Unidas, un organismo spagnolo, ci ha regalato le medicine. Dio provvederà per il resto. Ho scelto dei malati di mentre da inserire in questo ospedale come lavoratori, nella farmacia o nell’accettazione: ancora una volta, mi hanno trattato come un matto, chiedendomi come potessi pensare di usare dei malati di mente per un lavoro del genere. Il medico capo non mi ha parlato per una settimana a causa di questa decisione, ma io ho tenuto duro. Un mese dopo il medico stesso è venuto a salutarmi e a dirmi che questi malati lavorano bene e che sono adorabili. Ho anche una piccola tipografia dove già lavorano quattro malati. Vi racconto questo per farvi capire che i malati sono degli uomini che hanno bisogno di amore e fiducia, le medicine da sole non possono guarire un malato di mente. Se il malato di mente non è accolto in una famiglia, in un gruppo, non ritroverà mai la salute.

Le mie attività sono talmente numerose che esco alla mattina alle cinque e mezzo e rientro tardi alla notte; dall’82, dopo il mio ritorno da Gerusalemme, ricevo la forza per lavorare dall’eucarestia che vivo ogni giorno. All’inizio mia moglie non era molto d’accordo, è stato difficile per lei accettare questo genere di vita, ma ha capito che non veniva da me. Così, anche mia moglie e i miei figli sono partecipi di ciò che faccio.