venerdì 28 agosto, ore 15

BAYAN KO

partecipano

Sandro Tucci

fotogiornalista del Time Magazine

Reza

esule iraniano, fotogiornalista del Time Magazine

conduce l’incontro

Robi Ronza

"l'esperienza del popolo filippino è stata un'esperienza di pace. (...) Il tempo, la grande fede e la grande passione di questi uomini, di queste donne, di queste monache, di questi preti, ha fermato la potente macchina militare guidata dai generali fedeli a Marcos". (Sandro Tucci)

S. Tucc

Io sono stato mandato dal Time Magazine nelle Filippine tre anni fa per seguire la storia di quello che succedeva a questa gente. Fin dal novembre del 1985 si era capito che si era arrivati ad una svolta politica; purtroppo oggi dobbiamo fare lo stesso discorso, le cose non possono più andare avanti come stanno andando, tanto è vero che a Manila è scoppiata la guerra. Può darsi che questa guerra adesso si arresti, ma sarà solo un momento di pausa, perché le forze sociali che si contendono sono troppo forti e troppo polarizzate perché lo status quo che è venuto fuori dalla rivoluzione dell'86 possa continuare. Una certa domenica di marzo, alla fine di questa esperienza per noi di grande valore, eravamo seduti in una stanza a piangere sul fatto che la Rivoluzione era finita, perché per chi fa questo lavoro questi sono momenti irripetibili. Reza è entrato e ci ha detto: "Bisognerebbe fare un libro". Eravamo in quattro: un fotografo americano, Reza, io e un giornalista americano che scrive per un quotidiano della costa ovest dell'America. In un mondo di gente come la nostra, che è fortemente competitiva e che ha grossi problemi di relazioni perché siamo tutti una banda di gente scapestrata con grossi problemi psicologici, abbiamo invece trovato un accordo immediato. Il nostro problema è che lavoriamo per dei giornali che pubblicano tre fotografie formato francobollo come risultato del lavoro di dieci persone. Eravamo dieci fotografi a lavorare per il Time Magazine e questo il giorno della rivoluzione ha pubblicato undici fotografie. Normalmente dieci fotografi in un mese fanno 50.000 immagini, che poi finiscono in un cassetto e nessuno le guarda più, perché il problema della stampa è che vive 24 ore e alla venticinquesima nessuno se ne ricorda più. Perciò abbiano pensato di chiedere ai nostri colleghi di mandarci il loro lavoro e di farne un documento che rimanesse come testimonianza al popolo filippino, a questa gente che ha compiuto un miracolo battendosi contro i potenti della terra. Abbiamo trovato dei soldi perché non volevamo costrizioni editoriali, non volevamo che nessuno ci venisse a dire ciò che dovevamo o non dovevamo fare. Li abbiamo trovati rapidamente, abbiamo lavorato duramente e dopo sessanta giorni il libro era in stampa e tutto sommato ha risposto alle nostre aspettative. In questo libro c'è la storia di quello che è successo in 50 giorni da quando il Presidente Marcos ha indetto le elezioni del 7 febbraio, fino al 6 marzo, quando c'è stata l'ultima grande Messa con la Signora Aquino, in cui si è ringraziato chi si poteva ringraziare e ognuno di noi ha ringraziato qualcuno, perché le cose erano realmente cambiare. Quel che mi interessa dire è che se è vero com’è vero che si è esposti a delle situazioni in cui non si riescono a distinguere i buoni e i cattivi, perché io sospetto che alla fine siamo tutti cattivi, siamo diventati un po' cinici, nonostante questo credo che siamo gente che ha mantenuto uno sguardo abbastanza impegnato sulle cose, cercando di far sì che certi fatti di sperequazione sociale, di difficoltà delle classi meno privilegiate, d’ingiustizia, cambino anche grazie al pur modestissimo contributo dei nostro lavoro, che non è mai facile, spesso pericoloso, e sempre molto faticoso. L'esperienza del popolo filippino è stata un'esperienza molto importante, perché in fondo è stata un'esperienza di pace. E' stata un'esperienza fatta da gente che non voleva essere violenta, che non voleva fare una rivoluzione armata, che è stata spinta dalla Chiesa Cattolica ad unirsi con un gruppo di militari che alla fine ha avuto il grande coraggio di dire al presidente Marcos: "lo sto qui, se vuoi mi vieni a prendere".Il sabato 22, quando questo gruppo di militari ha fatto la secessione, eravamo una sessantina di giornalisti e 350 militari asserragliati dentro un campo che si sarebbe potuto bombardare senza nessuna difficoltà facendo fuori tutti: e invece le cose, qualcuno dice per intervento divino, qualcun altro perché pensa che le cose del mondo vadano in una certa maniera, le cose sono andate come sono andate. Il tempo, la grande fede e la grande passione di questi uomini, di queste donne, di queste monache, di questi preti, di questa gente che è scesa per le strade, ha fermato la potente macchina militare guidata dai generali fedeli a Marcos, con dei momenti abbastanza toccanti in cui abbiamo visto delle suore inginocchiate di fronte a della gente coi mitra spianati, abbiamo visto altre suore offrire fiori a dei marines scesi dai carri armati, abbiamo visto della gente comune sdraiarsi per la strada di fronte ai carri armati. Alla fine si è arrivati a capire che chi stava al potere se ne doveva andare.

Reza

Io vorrei presentare qual è il lavoro del fotogiornalista, che spesso è misconosciuto dal pubblico. Lavoro nel fotogiornalismo da nove anni, ho coperto degli avvenimenti importanti (si dice coprire in gergo).Ad esempio nel '78 la rivoluzione iraniana, quando lo Scià è stato costretto a partire, poi la crisi dell'ambasciata americana con la presa degli ostaggi da Teheran, la guerra civile in Iran e in Kurdistan e i primi sei mesi della guerra Iran-Iraq, visto che poi sono dovuto partire, rifugiandomi a Parigi dove sono profugo. Da allora sono stato un anno in Libano, in particolare a Beirut durante i tragici avvenimenti, poi sono stato in Sudafrica e nelle Filippine. Ho trascorso sette mesi nelle montagne dell'Afganistan con i mujaidin e parecchie altre cose ancora. Praticamente il nostro lavoro consiste nel registrare come una pagina di storia viene voltata, come cambiano le cose, come le cose avvengono e si scrivono nella storia. Questo per poter registrare nella memoria, nel patrimonio di tutti, questi avvenimenti. Oggi assistiamo a questo "potere del popolo", potere che consiste nell'essere attori della storia di cui registriamo questi avvenimenti. Finora la storia è stata sempre scritta o riscritta dagli storici, ma io credo che la nostra storia, quella in particolare del XX secolo, sarà sempre di più scritta dalle immagini piuttosto che dalla scrittura. Quindi sia questo libro sia altre immagini di questo tipo non sono più un fatto personale ma diventano una cartina di tornasole. In pratica trasmettiamo ciò che succede in realtà. Io credo che le parole chiave nel fotogiornalismo siano: giustizia e libertà. Posto questo, vorrei dire che il fotogiornalista non è un fotografo, è un giornalista che fa il fotografo, che scatta delle immagini, che consegna alle immagini ciò che vede e trasmette.