La fede e le opere.
Vivere la Chiesa in terra araba

Venerdì 27, ore 18.30

Relatori:

S. Ecc. Mons. Fouad Twal,
Vescovo di Tunisi

S. Ecc. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli,
Vescovo di Tripoli

Moderatore:

Ambrogio Pisoni

Pisoni: Guardando alla situazione, alla condizione in cui vivono i cristiani in Nord Africa è facile comprendere come il cristianesimo non ha e non può assolutamente avere come ideale quello di una egemonia, ma piuttosto quello della gloria umana di Cristo vivente nella storia: questa gloria è documentata dalle cattedrali medioevali e dalle catacombe dei primi secoli dell’era cristiana.

Oggi da più parti, dentro e fuori la Chiesa, si parla della necessità di mettere tra parentesi le differenze per puntare invece su ciò che unisce, in nome di una tolleranza che è ultimamente indifferenza, o in nome di un ecumenismo, non evitabilmente astratto. Proprio di fronte a questa situazione, vogliamo approfondire le ragioni di una Presenza originale che proprio nella misura in cui è libera di esistere diventa fattore di dialogo nella pace e perciò capace di edificare la pace per tutti gli uomini che la incontrano.

Twal: Voglio esprimere anzitutto la mia gratitudine al Signore che mi ha dato la grazia di essere con voi esprimere la mia gioia di essere qui con voi questa sera, esprimere la gratitudine agli organizzatori di questo incontro. In questo bel pubblico vedo volti già conosciuti ed altri, altrettanto amici che ancora non conosco: a tutti il mio saluto cordiale.

La Tunisia annovera 9 milioni di abitanti, ha una sola diocesi che conta approssimativamente 22.000 cristiani, tutti stranieri e io sono il meno straniero degli stranieri. Dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1956 la diocesi ha perso, o meglio dire ha ceduto, il 95% dei suoi beni ed ha potuto conservare cinque Chiese e alcune opere quali una clinica, 15 scuole di vari livelli ed alcune biblioteche sparse nei quartieri poveri.

Mi ricordo che prima di andare a Tunisi passando da Roma ho visto il mio ex-capo, in pace requiescat cardinale Casarolli che era già in pensione e mi diceva: "Twal vai a Tunisi. Abbiamo perso il 95% e fai il tuo possibile per salvare il salvabile". Ho capito a che missione mi mandava il Santo Padre.

Tentare di definire gli elementi di una spiritualità in ambito arabo musulmano equivale a prendere in considerazione i fattori che compongono tale realtà, sia cristiana che musulmana.

Da parte cristiana, da parte nostra, limitando le nostre osservazioni al Nord Africa, in modo più speciale alla Tunisia, si rileva la sparizione delle Chiese un tempo fiorenti. Questo è successo a causa del mistero delle violenze perpetrate nel nome di Dio. I cristiani sono quindi diventati un piccolo resto: un piccolo gregge, un piccolo gruppo di stranieri. Le Chiese sono sparite: al tempo di sant’Agostino, e in generale dal III al V secolo, i vescovi contavano 400-500 vescovi, mentre adesso in tutto il Nord Africa vi sono 9-10 vescovi.

Considerando la diversità delle religioni, una spiritualità nel nostro mondo arabo musulmano si alimenta innanzitutto nella meditazione del Mistero della Grazia di Dio, che segue vie da Lui solo conosciute per salvare tutti gli uomini, cristiani, musulmani ed ebrei.

La presenza della Chiesa in Tunisia non può prescindere, anche materialmente, dalla sua unità con la Chiesa universale, con voi qui presenti, rapporto non sempre facile, dal momento che dall’estero giungono spesso incomprensioni che impediscono a governi e Chiese di collaborare alla nostra missione. Oltre che di fondi, manchiamo di seminari e noviziati e siamo quindi costretti a ricorrere all’aiuto esterno.

All’interno della nostra Chiesa e soprattutto da parte delle congregazioni presenti da lungo tempo in Tunisia, si sentono nascere in questi giorni le inquietudini sulla nostra missione, sulla nostra presenza, sulla nostra utilità. L’avvenire e le ragioni della speranza sono meno evidenti; procediamo a tastoni nella trasmissione della nostra esperienza ed esiste una difficoltà reale ad adattarsi alla situazione odierna: abbiamo l’impressione, come gruppo straniero, che per la società musulmana nella sua globalità, la nostra presenza sia di troppo. Siamo nell’ignoto e perciò abbiamo paura.

È giusto farci una tale autocritica: i buoni sentimenti e la generosità che tanti religiosi e religiose laici dimostrano quotidianamente non devono alterare la lucidità del giudizio. Abbracciare gratuitamente una bella e santa causa, come la nostra missione nel Nord Africa, in una massa musulmana che ci schiaccia, non ci dispensa dall’esercizio del nostro senso critico.

Siamo mandati là, non siamo mai stati invitati cordialmente dal governo tunisino, siamo mandati come Gesù lo è stato; il Padre che l’ha mandato, poteva ovviamente scegliere un luogo in cui suo Figlio avesse maggior successo, oppure in un’epoca in cui potesse spostarsi con mezzi più rapidi, o ancor meglio prevedere dei mass-media, come abbiamo oggi, che lo rendessero più famoso...

La definizione della vita di Gesù, così come Egli l’ha sempre e comunque espressa, è di esser inviato dal Padre per compiere una missione. Così noi: siamo là per una missione, non siamo là per un destino nefasto, ma per eseguire il disegno di un Altro, questo Altro misterioso e infinito che mi ha dato la vita e che è mio, nostro Padre in ogni momento.

Per quanto riguarda la violenza nel Maghreb, mi permetto citare un brano del discorso del Santo Padre nella cattedrale di Tunisi, il 14 aprile 1996, che per noi è un richiamo e un programma di vita e che entra al 100% nella nostra missione. Diceva il Santo Padre: "Nella vostra testimonianza il rapporto con i credenti dell’islam occupa un posto particolare. Voi fate spesso l’esperienza della vulnerabilità del piccolo gregge e a volte sopportate prove che possono giungere fino all’eroismo. Tuttavia voi fate anche l’esperienza, la bella esperienza, della gratuità del dono di Dio, che desiderate vivere con tutti.

Ciò che voi testimoniate così nella fede vi fortificherà per un rapporto fraterno con i musulmani, sempre più profondo e spirituale, che vi porterà a scoprire anche con essi i benefici di Dio, ad accoglierli e a condividerli. Laddove infieriscono la violenza e la discordia, siate messaggeri della pace, questa pace che viene da Dio e della riconciliazione, cammino che conduce a Lui. Nessuno può uccidere in nome di Dio, nessuno può accettare di dare la morte a un suo fratello".

Per quanto riguarda questa violenza, grazie a Dio, con soddisfazione notiamo alcuni segnali positivi per combattere la violenza: vengono create organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo, della donna, dei bambini, degli handicappati, con l’appoggio delle autorità civili. La maggior parte dei governi arabi sono coscienti del pericolo, tanto che ogni sei mesi si svolge un incontro dei loro Ministri dell’Interno per coordinare una strategia, per fermare, combattere la violenza di cui anche loro sono vittime; assistiamo anche al formarsi di correnti di liberi pensatori musulmani, sia in Europa che in Tunisia. Questi predicano un islam moderato, al servizio dell’uomo e questo prova che la grazia di Dio è sempre all’opera nel cuore dell’uomo. Bisogna però rilevare che spesso questi pensatori assumono categorie del pensiero laicista occidentale: un’idea di tolleranza in cui tutto è uguale, una concezione della modernità come laicismo indifferente che dovrebbe salvare gli uomini dal fanatismo ed anche una concezione di Chiesa divisa tra progressisti e conservatori, in cui il Concilio Vaticano II viene citato come emblema del progressismo. Queste organizzazioni, associazioni, sono anche sforzi che fanno i governi arabi per togliere la possibilità per gli islamisti di invadere, di convincere, di organizzarsi.

Dio ci ha voluto cristiani nel mondo musulmano e per il mondo musulmano. Per la maggioranza di noi, si tratta di accettare, amare, di essere il piccolo gregge. Accettare la nostra vocazione e la nostra vulnerabilità vuol dire obbedire a Dio e capire perché Egli ci abbia chiamati a vivere in questo ambiente. Perché ci ha messo dentro? Non è né per subire le difficoltà né per soggiacere alla paura e metterci ai margini. Gesù da detto: "Non abbiate paura, confidate, poiché io ho vinto il mondo". Ha già vinto la causa, per questo non c’è ragione di avere paura.

Anche per noi, nonostante il nostro piccolo numero, nonostante ogni situazione difficile, per noi Gesù è risorto e ha fatto di noi degli uomini pieni di speranza. Siamo quindi chiamati a far parte del mondo musulmano al fine di testimoniare la nostra speranza, per noi e per il nostro ambiente arabo musulmano. Attraverso questa speranza siamo chiamati a contribuire alla costruzione di questo mondo musulmano, che è l’ambito umano, che è il contesto storico, geografico della nostra vocazione e nel quale siamo chiamati a vivere, per portare in esso le ricchezze della nostra fede.

Considerando la nostra condizione di minoranza, ed anche voi siete una minoranza, non dimenticatelo, non pretendiamo di realizzare grandi progetti, né di rivoluzionare tutta la società. Anzi, più che mai siamo costretti a vivere l’essenziale, cioè la nostra amicizia con il Signore. "Chiedete piuttosto il Regno di Dio e il resto vi sarà dato". La grazia di Dio vissuta, l’amore di Dio vissuto semplicemente e fedelmente ogni giorno segna la società, segna gli uomini più di una valanga di progetti e di attività sociale. La presenza del cristiano, in particolare del cristiano arabo, nella società musulmana, non ha come unico scopo quello di difendersi o reclamare i propri diritti di minoranza. C’è molto più di questo: il cristiano, vivendo in questo ambiente, con la sua fede vissuta senza complesso, annuncia, dona, mette le ricchezze spirituali della sua fede al servizio di tutta la società araba, cristiana e musulmana.

Il cristiano che vive in terra araba si trova di fronte al Mistero di Dio che ha permesso le differenze e si trova di fronte all’unico comandamento che Gesù ci ha dato: "Amare Dio e il prossimo". Amare lo straniero, amare il nemico che ci fa del male, amare perché Dio ama gli stranieri, quelli che sono diversi da noi; Gesù ama anche quelli che peccano contro di noi, li ama come ama noi, nonostante i nostri peccati e il male che permane in noi. Per loro, come per noi, Gesù ha dato la sua vita.

Amare non significa rinunciare ai propri diritti. In nessun dizionario amare significa rinunciare alla propria fede o cedere sull’una o sull’altra verità del nostro credo.

Il musulmano ha una fede diversa dalla nostra. Rispettare la sua diversità è, una volta di più, rispettare la volontà di Dio nel Mistero della distribuzione della sua grazia. Non è per nostro merito che Dio ci ha dato la grazia di conoscere Lui e Colui che ha mandato, Gesù Cristo. "Non siete voi che avete scelto me", ci avverte Gesù. Questo ci invita a meditare sulla gratuità di Dio in noi e in ogni uomo. Accettare l’altro nella sua differenza di religione, di colore, di opinione, è riconoscere la dignità di ogni essere umano e la sua libertà di fronte alla libertà di Dio. In Cristo si trova la pienezza della verità e la pienezza della divinità. Ogni essere umano è in cammino verso questa pienezza, come abbiamo detto, ma secondo la Grazia che Dio gli dà e secondo la sua corrispondenza di tale grazia.

Inconsciamente, l’islam raggiunge in parte quella mentalità contrassegnata da una religiosità autentica, che per la civiltà occidentale si riscontra nell’epoca medioevale. Dice lo storico Dawson: "Il Regno di Dio è un Regno universale: non vi è aspetto della vita umana che si trovi fuori di esso o che in qualche modo non gli sia tributario". O ancora, con le parole di monsignor Giussani: "Una mentalità autenticamente religiosa è proprio ciò che rendeva alla vita del Medioevo più facile l’adesione e la convinzione religiosa stessa: Dio era trattato e concepito per quello che veramente è, vale a dire la sorgente di ogni cosa, perciò la Presenza suprema in qualunque aspetto della vita" (cfr. Perché la Chiesa, tomo I, pp. 38-44).

Precisamente, una delle ragioni invocate dal risveglio islamico contemporaneo è l’ateismo o il materialismo della tecnologia moderna che non riesce a risolvere i problemi dell’umanità. L’Occidente ha estromesso Dio dalla società, dalle scuole, dalle feste nazionali, dai discorsi della politica e dei politici. I musulmani, al contrario, fanno entrare Dio dappertutto, forse lo manipolano troppo.

In un mondo che si sta ricostruendo, che sta cercando la stabilità sotto tutti i punti di vista – sicurezza, economia, politica nazionale e regionale –, la vita nel mondo arabo è ugualmente dura per tutti, cristiani e musulmani. Vediamo in che modo e che misura.

È un fatto: l’islam soffre di un complesso. Dubita, cerca se stesso. Come esistere in armonia con se stessi e con la propria epoca, qui ed ora, come coniugare modernità ed islam? Gli mancano sei secoli di maturazione intellettuale rispetto all’Occidente.

Un cristiano che vive nel mondo arabo avverte maggiormente la durezza della vita, perché fa parte di un piccolo gruppo che non vede sempre in modo chiaro la propria vocazione e il proprio posto, che ha paura degli altri e per gli altri, che è sempre tentato di fuggire, di emigrare: in cerca di denaro, di ricchezza; per sfuggire alla situazione di inferiorità, alla condizione di straniero in casa sua, di gente di seconda classe o persone tollerate; per assicurare un avvenire ai propri figli. Qui tocchiamo il problema spinosissimo dell’emigrazione dei cristiani arabi, che alcuni vescovi hanno chiamato "emorragia umana" con il pericolo che i luoghi santi diventino solo rovine cristiane, ricordi del passato, senza alcun elemento umano.

Una spiritualità nostra in un ambito arabo musulmano non può sfuggire a tutto ciò che riguarda la giustizia e la pace. Le vie della pace sono anche quelle della giustizia. Un campo nel quale il credente ha il dovere di cercare e sostenere tutti coloro che soffrono per l’ingiustizia, tutti quelli che sono vittime di qualsiasi tipo di violenza. È un campo nel quale la definizione dell’ingiustizia non è facile a stabilirsi, poiché è legata ai grandi interessi dei popoli e alle diverse visioni politiche di questo mondo. Ma questa è una ragione in più perché il cristiano accetti di compromettersi talvolta di fronte ai grandi di questo mondo per dar testimonianza alla verità e alla salvezza che Cristo porta a tutti.

La Chiesa in Tunisia svolge un’azione sociale ed educativa attraverso le sue opere già precedentemente citate: la clinica di sant’Agostino, fondata nel 1933, la prima clinica privata a Tunisi; le biblioteche per studenti tunisini liceali ed universitari gestite da personale religioso; le scuole dirette in parte da congregazioni religiose e frequentate da bambini e ragazzi tunisini; la collaborazione di molti sacerdoti e suore con le associazioni tunisine a favore degli handicappati, persone anziani, bambini. Se in Europa o in Italia voi chiudete alcune scuole per mancanza di bambini e di studenti a Tunisi chiudiamo alcune scuole – ne ho già chiuse quattro – per il numero troppo elevato dei bambini e per la mancanza totale di personale religioso e consacrato per dirigere queste scuole. Questo è un appello a tutti quanti. Accanto agli indiscutibili meriti, queste opere di indole sociale comportano il rischio di essere gestite in maniera personalistica e non ecclesiale e di essere valutate in termini di riuscita nel loro particolare e non di testimonianza e di gratuità.

Inoltre, la sussistenza di tali opere è in buona parte affidata ai contributi che organismi europei e le Chiese occidentali ci elargiscono.

Il dialogo a Tunisi – oggi è di moda parlare il dialogo religioso – non è un’opzione facoltativa per i cristiani. È un’esigenza della fede, un passo voluto dalla Chiesa. Il primo dialogo è fatto e si fa ancora tra le tre persone della santissima Trinità, Padre, Figlio e Santo Spirito; il secondo dialogo di Dio con l’uomo fu talmente profondo che si è tradotto in una incarnazione e da quel giorno non si è mai interrotto e continua attraverso persone e avvenimenti. Il dialogo interreligioso sarà tanto più fruttuoso, a Tunisi ed in Italia, quanto più i cattolici che lo intraprendono saranno coscienti di ciò che sono, guardando e rispettando la loro identità di cristiani.

"I cristiani impegnati da un lato nei rapporti interreligiosi e che dall’altro vogliono nascondere o mettere in sordina la propria identità cristiana, danno l’impressione di dire implicitamente che Cristo costituisce un ostacolo o un imbarazzo nel dialogo. Ci è impossibile costruire un dialogo vero, autentico sopprimendo la nostra identità religiosa" (card. F. Arinze, A la rencontre des autres croyants, Médiaspaul, 1999). Questa identità passa attraverso la fedeltà alla pratica religiosa, e l’affermazione della fede, ogniqualvolta se ne presenti l’occasione.

E qui si pone di nuovo il problema della visibilità della Chiesa. La Chiesa è chiamata ad essere segno visibile per se stessa e per gli altri. Questa visibilità non si limita alle apparenze, ma si traduce attraverso persone, istituzioni, impegni vari ed un dinamismo spirituale. Il "basso profilo" che si osserva attualmente non è forse segno che i cristiani hanno perduto la loro fierezza di battezzati? I reiterati avvertimenti contro la tentazione del "trionfalismo" che ho sentito in occasione della visita pastorale a Tunisi del Santo Padre nel 1996 e del restauro della cattedrale indicano questo stato di spirito. Essere trasparenti e fieri della propria fede sembrerebbe oggi un’arroganza? Metterla "sotto il moggio" oppure viverla in catacombe è ormai di moda.

Mi permetto di portare il cattivo esempio della mia tribù Al-Ozeizat, una tra le prime comunità cristiane nomadi della storia. Alla domanda che mi pose un amico italiano: "Come mai avete sopravvissuto all’invasione musulmana?" risposi: "Perché eravamo più cattivi di loro". Questa famiglia, una tribù dei primi secoli, era tra le prime comunità in Transgiordania, comunità di nomadi, che errando nel deserto dell’Arabia è sopravvissuta, sia perché ha aiutato il profeta Maometto contro i bizantini, sia perché per secoli ha errato nel deserto. Il curioso è che tutte queste tribù hanno passato secoli nel deserto e non c’era sempre un parroco con loro, un cappellano. Allora la loro fede era ridotta a credere un poco in Dio, nel cielo, Paradiso e Inferno, credere e rispettare l’ospite, credere all’ospitalità, credere alla parola data. Da un secolo e mezzo, grazie a Dio, abbiamo avuto la gioia di un missionario del Veneto, che si è unito alla nostra tribù, che ha anche viaggiato con noi attraverso il deserto. Ci siamo trovati separati da Roma, senza saperlo, perché durante le separazioni del X e XI secolo, nessuno ha chiesto il parere dei beduini nomadi nel deserto.

Alcuni pensano che un’affermazione troppo forte dell’identità non convenga al dialogo interreligioso. Giovanni Paolo II testimonia con gli scritti e con la vita il contrario, e cioè che aprirsi al mondo non vuol dire annullarsi o diluirsi. Al contrario! Per lui "una Chiesa aperta al mondo è possibile solo se ha piena coscienza di sé" (M. Zieba, Jean Paul II, un prophète incompris, Cerf 1998). È quindi illogico da una parte criticare, come viene fatto in alcuni ambiti cattolici, l’attaccamento del Papa al richiamo e all’affermazione del contenuto della fede, delle esigenze della morale cristiana e delle misure disciplinari ecclesiastiche, e dall’altra rallegrarsi del suo gusto per il dialogo.

Per essere testimone del Vangelo nella società arabo musulmana, come pure in Europa, in Italia, il cristiano arabo e ogni cristiano arabo è innanzitutto chiamato in uno spirito di fiducia e di speranza in Dio e nell’uomo a liberarsi dagli atteggiamenti di paura e di marginalizzazione, a far parte integrante di questa società, a non sentirsi straniero o superiore, e ad appropriarsi della lingua araba e della cultura. Rimanendo cosciente della sua comunanza di destino con Cristo, croce e risurrezione, vivrà e sperimenterà i valori evangelici attraverso questa lingua e questa cultura.

Questa testimonianza del Vangelo è possibile, da noi e da voi, solamente attraverso la coerenza fra la parola e la vita, attraverso una conversione permanente per diventare lievito nella pasta e attraverso la solidarietà che si esprime non solo all’interno delle comunità cristiane ma anche al di là dei limiti visibili della Chiesa.

In questo senso, alla domanda rivoltami: "Quanti fedeli hai, per chiedere altri preti?" – sto chiedendo preti a tutto il mondo – ho sempre risposto che mi sento responsabile di fronte a Dio ed alla storia dei 22.000 cattolici tunisini, mi sento responsabile di 4 milioni di turisti che vengono a Tunisi, di 9 milioni e mezzo di tunisini musulmani, come mi sento responsabile di una collegialità ecclesiale mondiale.

La salvezza del cristiano e la sua fedeltà alla propria vocazione nel suo ambiente – parlo della salvezza del cristiano, non solamente arabo, e del suo ambiente, che sia l’Europa, il Nord Africa o il Medio Oriente – dipendono non tanto dalle sue opere sociali, ma da una vita spirituale profonda.

Non è solo combattendo su basi umane come i diritti umani, i diritti delle minoranze, i diritti degli stranieri, che il cristiano potrà sopravvivere. Sulla scorta dei dati umani, il risultato è facilmente prevedibile: siamo un piccolo gruppo e i fedeli al Signore saranno sempre in minoranza. Di fronte alla maggioranza saremo sempre perdenti, tanto più che l’Occidente non è più "l’Occidente cristiano" e non si disturba molto per la sorte delle minoranze cristiane in terra islamica!

Occorre quindi prendere coscienza del fatto che l’esistenza del cristiano arabo è una vocazione, e che vivendo profondamente tale vocazione il cristiano potrà non solo sopravvivere, ma anche crescere ed aiutare gli altri a crescere. Noi non dimentichiamo mai la parola gratuità. Dio è fedele, Dio è grande: porterà a compimento in noi la sua Grazia, al momento opportuno e nel modo che Lui solo conosce. Ce l’ha detto: "Non avete paura, ho già vinto il mondo".

Ringrazio gli organizzatori del Meeting per l’occasione dataci di vivere con voi questi momenti forti di grazia, perché nonostante il nostro ottimismo abbiamo bisogno di respirare un ossigeno di fede, di sentirci con voi a casa nostra. Non vi auguro niente. Auguro a tanti altri di avere quello che avete e di essere quello che siete.

Martinelli: In questi giorni ripensavo con gioia a quella che è stata la pentecoste del 1998 in piazza san Pietro. I carismi della Chiesa oggi ci danno speranza; Comunione e Liberazione è questo segno concreto di speranza, per la Chiesa universale e per le nostre Chiese dell’Africa del Nord. Quindi vi rendo grazie di avermi dato l’occasione di sperimentare questa gioia e questo carisma.

La gioia è il segno della presenza dello Spirito Santo: nella mia Chiesa la gioia è palpabile, palpabile attraverso una comunità cristiana internazionale. La Libia ha una storia abbastanza recente, è un paese abbastanza giovane: è libera ed indipendente dal 1951, in seguito alla dominazione italiana; nel 1969 a seguito del colpo di Stato militare con il quale il Colonnello Mohammed Gheddafi e il Consiglio dell’evoluzione rovescia il re Idris I, inizia una rivoluzione ed un tipo di rivoluzione particolare nel contesto arabo musulmano. Ma facciamo un passo indietro.

L’Africa del Nord è stata testimone di una presenza cristiana. Ne abbiamo segni concreti attraverso l’archeologia. Una presenza cristiana ricca di storia nei primi secoli dell’era moderna. La Chiesa copta rivendica la propria evangelizzazione da Marco proveniente dalla Libia, secondo la tradizione della Chiesa appunto d’Egitto. Gli Atti degli apostoli riportano ripetutamente fatti o persone che riguardano i cristiani della Libia. Il giorno della Pentecoste c’erano cristiani provenienti da Cirene.

L’invasione dell’islam dopo il VI secolo getta il Nord Africa e quindi la Libia nell’oscurità storica più profonda, con la scomparsa del cristianesimo. Oltre i siti archeologici restano alcuni ricordi o simboli nella tradizione popolare, in particolare tra i berberi del Geben Nefussa. Con il secolo XII appare, anche se saltuaria, l’umile presenza dei francescani che si qualifica nell’assistenza religiosa agli schiavi e alla piccola comunità cristiana che vive di commercio. Le autorità musulmane la rispettano e assicurano protezione. La presenza di questa piccola comunità ecclesiale è retta giuridicamente dal 1628 da prefetti apostolici; con la colonizzazione italiana viene creata a Tripoli, nel 1913, il primo vicariato apostolico, e nel 1927 quello di Bengasi.

L’identità della Chiesa per tutto il periodo della presenza italiana ebbe connotati ben definiti e riconoscibili nazionali. Dalla rivoluzione del 1969, e dall’espulsione della comunità italiana nell’anno seguente, la Chiesa viene espropriata di tutti i suoi beni e le vengono concessi in uso due luoghi di culto, uno a Tripoli, l’altro a Bengasi; è concessa la presenza a una decina di sacerdoti con una settantina di religiose di dieci congregazioni. Il vicario apostolico di Bengasi viene espulso, quello di Tripoli ne assume l’amministrazione apostolica e il territorio sino all’elezione del nuovo vicario apostolico nel 1997, momento storico, di Bengasi con le relazioni diplomatiche con la Santa Chiesa. I libici che si erano abituati a identificare la Chiesa con l’Italia si ritrovano presto a fare un’esperienza universale della Chiesa e ad incontrare cristiani di ogni nazionalità, polacchi, indiani, filippini, africani e arabi provenienti dal medio oriente. Questa realtà di Chiesa impegna la comunità cristiana a vivere questa sfida.

La Chiesa oggi in Libia è presente con un numero di cristiani che va dai 50.000 ai 100.000 cristiani di ogni nazionalità, presenti per contratti di lavoro, o tramite aziende private o con il governo nei settori della sanità o in altri servizi, o infine con le compagnie straniere. È una Chiesa totalmente povera come strutture. Abbiamo soltanto due Chiese, a Tripoli e Bengasi, e il minimo necessario per il servizio pastorale; nonostante questo, è una Chiesa impegnata in prima fila nel dialogo di servizio con la comunità musulmana. Impegno di carità diremmo profondamente capito e richiesto, soprattutto attraverso il servizio delle religiose negli ospedali. Impegno di dialogo, di vita attraverso le compagnie straniere che operano nei diversi settori del servizio sociale e tecnico. Basti pensare alle compagnie di petrolio: in una piattaforma sul mare ci sono 17 nazionalità con 400-500 operai e un gomito a gomito libico-cristiano. È un continuo operare insieme, un confrontarci, quasi un solidarizzarci. Questo avviene nelle piattaforme, questo nel deserto. Un’esperienza di solidarietà, ma anche di fede, nelle corsie degli ospedali attraverso le religiose ma anche la massa, circa 20.000 filippini che operano nel settore sanitario o nelle compagnie ripeto straniere. Attraverso il servizio di carità e la pazienza dell’ammalato stesso che comunica agli altri. La fede, in questo senso, diventa veramente un evento, un evento che si esprime nella testimonianza della carità. Una fede impegnata che richiama, attraverso l’esperienza di questa presenza, la nostra comunità o società secolarizzata; attraverso il ritmo della preghiera cinque volte al giorno, ci sentiamo sollecitati a capire il significato e la presenza di Dio nella nostra vita.

La fede è proclamata. Dio uno, Mohammed il suo profeta e l’invito alla preghiera, invita noi stessi a capire il nostro rapporto con Dio. Cristiani presenti in Libia, a diverso titolo nel contesto musulmano, rendono conto della propria speranza innanzitutto con un tratto di amicizia basato sul rispetto e la tolleranza. Nella diversità di inserzione e negli specifici carismi presenti all’interno della Chiesa tutti sono chiamati a vivere ed a risplendere per la propria fede. Per il battesimo è l’affiliazione divina, il cristiano è divenuto sale e luce del mondo. L’impegno a dare sapore alla nostra presenza è una responsabilità che deve innanzitutto aprire il cristiano alla conoscenza e alla carità dell’ambiente che lo circonda, ambiente socio culturale. Ascolto, apertura verso gli attenti interlocutori musulmani che come e qualche volta più di noi hanno il desiderio di condividere la propria fede. Vivere la fede in contesto musulmano non può dunque essere una semplice bandiera che si oppone ad un’altra, ma una presenza e un segno che illumina con la positività e la concretezza delle opere.

Per questo, mi sembra importante accettare una sfida e vivere un appello. La sfida consiste nel dialogo. Impegnandosi sulla via del dialogo il cristiano intuisce la necessità di un costante approfondimento della propria fede, non raro cristiani che vengono ad operare in Libia vengono a domandarmi: "Cosa significa credere nella Trinità?". Continuamente il musulmano mi rinfaccia che noi siamo pagani. Oppure che cosa significa Cristo figlio di Dio? Dunque una presa di coscienza della propria fede a contatto con questa esperienza e questo perché egli si rende conto degli ostacoli, anche suscitati dalle sue personali manchevolezze e dalla sua appartenenza ad una comunità di fede non sempre coerente col Maestro. Non dimentichiamo che la società musulmana, nel contesto nostro quella libica, quando pensa all’Occidente, pensa sempre al cristianesimo e quando ci sono fragranti dissonanze con la fede, ne attribuisce la colpa ai cristiani, accusati di operare ancora e di fare nuove crociate contro i musulmani. Per questo è necessario – ed è l’appello – lo sforzo di penetrare la visione musulmana del mondo dell’uomo e Dio per diventare un segno della bontà di Dio nostro Salvatore e dal suo amore per gli uomini, amore paziente, longanime verso tutti e ciascuno in particolare, quali che siano le nostre colpe e i nostri errori.

Al momento della rivoluzione, in Libia sono state espropriate e mandate a casa tutte le persone che lavoravano nelle scuole, tutte le religiose, i fratelli delle scuole cristiane. Abbiamo così capito che l’educazione in una società musulmana appartiene allo Stato. Non potevano permettere che i cristiani potessero in qualche modo interferire in questo impegno così sacro: tuttavia, hanno voluto che le religiose restassero negli ospedali. L’opera di carità è l’opera che non ha compromessi. L’opera che esprime la carità è la testimonianza più autentica che la Chiesa coloniale ha saputo lasciare nel contesto libico. Ed è per questo che dopo alcuni anni si sono rivolti alla Santa Sede per avere altre suore, altre religiose. Io mi fermo alle religiose perché non c’è stata mai una testimonianza laica consacrata al servizio della comunità libica. Mi auguro che possa arrivare anche questa testimonianza per rendere più completa la visione e l’esperienza della Chiesa.

L’esperienza della carità è quella che è rimasta: proprio il mese scorso le autorità libiche hanno richiesto al Vaticano, al Santo Padre, cinquecento suore. Non mancano le strutture negli ospedali, mancano persone che sappiamo servire gli ammalati. Questo ci indica la via da seguire nella nostra presenza. Ci indicano che veramente quello che il musulmano ha bisogno di capire o di vedere e di intuire nella nostra presenza è questa testimonianza di Dio amore. E il discorso è diventato talmente grande che certamente coinvolge le istituzioni, ma c’è anche un discorso personale che arriva al singolo individuo. Dio amore, impegno alla carità, il fondamento della religione deve essere questa luce che nasce da Dio.

In un documento della CERNA, la nostra Conferenza Episcopale dell’Africa del Nord, i vescovi affermano: "La testimonianza che dobbiamo a Cristo non esclude il rispetto per le vie particolare che derivano dal destino di ciascuno e ognuno viene chiamato nel punto in cui si trova dalla grazia dello Spirito Santo". È questa forza mirabile che ci attrae e ci dona la coscienza della responsabilità e fa nascere quella gioia cui accennavo all’inizio, la gioia che pervade la nostra comunità cristiana: ogni settimana abbiamo celebrazioni in sette lingue (coreano, inglese, francese, polacco, arabo, italiano e spagnolo) nella nostra unica Chiesa di san Francesco. Una comunità diversificata che per le grandi occasioni si riunisce per celebrare la propria fede, una comunità che dall’Africa, dall’Asia testimonia con la gioia della preghiera la lode a Dio. La nostra comunità vive con entusiasmo la propria fede ed attinge nella preghiera la forza della carità, di una testimonianza necessaria per un mondo non facile. Proprio in questo contesto di difficoltà, abbiamo recentemente ricevuto un aiuto grande dalla Chiesa delle Filippine: un gruppo di missionari laici del gruppo di Rinnovamento dello Spirito. Un gruppo che lavora per la famiglia, formato da quattro o cinque persone, due o tre volte all’anno viene ad offrirci la parola di Dio, organizzando gruppi di preghiera nelle diverse parti della Libia. Grazie a Dio, c’è una libertà totale per i cristiani di riunirsi, di pregare e non è raro trovare anche arabi musulmani che accompagnano cristiani dal deserto, e magari con le macchine li indirizzano verso la Chiesa per mostrare loro il luogo di culto della comunità cristiana. È una gioia grande, e confesso alle volte mi sento così piccolo, così povero davanti a questa massa di gente che riempie le nostre Chiese nei giorni di incontro, specialmente il venerdì perché è giorno di preghiera e quindi di libertà, non di lavoro.

Voglio fare un appello a voi laici. Abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno di laici, abbiamo bisogno di carismi. La Chiesa come struttura, come istituzione non è sufficiente. Il carisma fa brillare in una forma unica necessaria oggi alla Chiesa la testimonianza che lo spirito dona e raggiunge i cuori nelle diversità delle culture e delle regioni, nelle zone più desertiche, la verità di Cristo.