Privatizzazione nei pubblici servizi locali

 

 

Giovedì 27, ore 11.30

-----------------------------------------------------------------

Relatori:

Alfonso Vasini, Presidente AMIA

Giancarlo Zoffoli, Presidente AMIR

Mario Ferri, Assessore al Bilancio, Programmazione e Innovazione Gestione del Comune di Rimini

 

Vasini: Recentemente il ministro Ciampi si è moderatamente compiaciuto dei risultati finora raggiunti dalla "privatizzazione" di alcune grandi aziende a partecipazione statale.

Il D.P.E.F. (Documento di Programmazione Economica e Finanziaria) prevede l’estensione di questo processo anche alle aziende locali che gestiscono i pubblici servizi.

Nel documento è esplicitamente prevista la "necessità di unificare, semplificare, adeguare ai principi comunitari non soltanto i criteri che disciplinano la trasformazione in società per azioni delle aziende locali, ma anche la cessione delle partecipazioni in dette società secondo le normali regole del diritto societario".

Attraverso le privatizzazioni mi pare di intravedere l’intenzione di perseguire almeno due obiettivi sostanziali:

- la monetizzazione delle quote societarie per destinarne il ricavato alla riduzione del debito pubblico, nel caso dello Stato, agli investimenti in opere di pubblica utilità, nel caso dei comuni;

- l’affiancamento ai soci istituzionali di partner che sappiano anche dare un impulso imprenditoriale alle aziende locali.

Sono, indubbiamente, obiettivi importanti, ma ritengo che sarebbe più proficuo per tali aziende privatizzarsi con il concorso diretto del capitale di rischio, da destinare allo sviluppo delle attività sociali.

Inoltre non è da sottovalutare l’aspettativa del privato investitore (sia esso semplice risparmiatore oppure imprenditore) di ricevere un’adeguata remunerazione a fronte del capitale che investe.

Ma l’utile, e l’eventuale sua distribuzione, non costituisce l’obiettivo prioritario delle aziende locali, almeno nella configurazione attuale; il quale resta e resterà, anche a privatizzazione avvenuta, quello di soddisfare specifici bisogni della collettività, sia pure operando in termini di efficienza, efficacia ed economicità.

Il processo di privatizzazione si fonda, poi, su alcuni presupposti fondamentali:

- la liberalizzazione dei servizi pubblici locali con la conseguente apertura al mercato ed alla concorrenza;

- la circoscrizione del ruolo delle amministrazioni locali (soci istituzionali) a quello di indirizzo e di controllo affinche l’interesse pubblico sia salvaguardato;

- l’autonomia della gestione delle aziende privatizzate.

Liberalizzare significa superare il regime del cosiddetto "monopolio naturale" di cui ora godono le aziende locali: si suole dire che esse operano al di fuori del mercato in assenza, o quasi, della concorrenza.

Tuttavia rilevo che il privilegio di operare in un siffatto regime, che dovrebbe costituire un punto di forza e di stabilità per quelle aziende, è in realtà un privilegio solo apparente a causa del rapporto, sovente conflittuale, che lega le stesse alla loro preminente base sociale, cioè i comuni, i quali, se da un lato hanno interesse a che il loro patrimonio sia tutelato, incrementato e remunerato, dall’altro devono confrontarsi con la propensione alla spesa dei cittadini fruitori dei servizi; e il più delle volte il conflitto si risolve penalizzando le aziende con tagli ai servizi ed ai corrispettivi.

Liberalizzare significa anche mettere in condizione le aziende di organizzarsi e strutturarsi per essere competitive.

Ma la rigidità delle strutture di molte di esse (retaggio costituzionale allo Stato ineliminabile) e la incomprimibilità dei costi di alcuni fondamentali fattori produttivi potrebbero comprometterne la capacità competitiva in un mercato dei servizi aperto alla pluralità delle imprese.

Si pensi, ad esempio, al patrimonio che esse hanno ricevuto in dote che è sì, nel complesso, ragguardevole ma che in parte è usurato ed in parte esposto a rapida obsolescenza e che, perciò, deve essere ricostituito per supportare servizi commisurati alle crescenti esigenze tecnologiche e qualitative; al costo del lavoro, il cui peso è rilevante in attività a prevalente intensità di mano d’opera, che supera mediamente del 30-40% quello sostenuto dalle aziende private; all’impossibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali che, viceversa, consentono alle imprese private di modellare l’organizzazione del lavoro secondo le esigenze strutturali e congiunturali.

A mio avviso la strada della privatizzazione sarà percorribile soltanto in presenza di regole e vincoli omogenei per tutti i competitori.

Circa il ruolo di indirizzo e di controllo che le amministrazioni locali dovrebbero limitarsi ad esercitare, mi pare di qualche interesse ricordare il punto della bozza del testo unico sulle privatizzazioni delle aziende locali elaborata dalla Commissione Cavazzuti che, partendo dalla constatazione che le aziende (società) dei servizi pubblici locali sono state finora considerate più come appendici delle istituzioni locali che come imprese, contempla la rimozione dei tetti azionari e dei diritti speciali dei comuni e scioglie molti dei vincoli che frenano la cessione delle partecipazioni (la scelta del partner attraverso gare di evidenza pubblica, ecc.)

Anche a mio parere è auspicabile che venga reciso il grossolano cordone ombelicale che unisce le aziende locali agli enti proprietari. I lunghi tempi della riflessione politica e delle procedure burocratiche cui soggiaciono molte delle decisioni importanti da assumere, ingessano le aziende le quali, viceversa, devono essere rapide nell’agire.

Così delimitato il ruolo delle amministrazioni locali diviene prodromico dell’autonomia gestionale delle aziende che, pertanto, dovranno operare in libertà, scontando quel tanto di ragionevole rischio di impresa senza assumere il quale è difficile progredire, con il solo vincolo di rispondere degli obiettivi strategicamente e superiormente prefissati.

Perciò auspico, e la mia non è utopia, aziende dinamiche nelle decisioni, duttili nell’adattamento al mutamento delle situazioni interne ed esterne, libere nelle scelte imprenditoriali, orientate alla custom satisfaction e, anche, al profitto. In presenza di queste peculiarità esse potranno competere con buone chances di successo: potranno guardare oltre i propri confini territoriali, cogliere le opportunità che il mercato globale si appresta ad offrire anche al comparto dei servizi pubblici e, quindi, a sviluppare alleanze, partnership, joint venture, favorendo processi di integrazione tecnologica ed organizzativa anche con settori diversi.

Sotto questo aspetto le privatizzazioni potranno fare emergere notevoli capacità, nuove competenze e specificità che, in un contesto più aperto e competitivo, potranno crescere notevolmente.

In assenza di quelle peculiarità le aziende locali correranno il rischio di partecipare alle nuove sfide come soggetti passivi, "come un grande prato in cui altri coglieranno fiori più profumati" per concludere con una suggestiva parafrasi di Patrizio Bianchi.

Zoffoli: Rimini è stato il primo comune ad imboccare la strada di dare alle proprie aziende uno strumento di tipo privatistico che discende direttamente dal Codice Civile. È questa l’esperienza dell’AMIR, nata quattro anni fa.

La maggioranza pubblica detenuta dal comune non rappresenta un limite per una vera privatizzazione? Nel ricercare una risposta a questa domanda, bisogna liberarsi da qualunque forma di pensiero di tipo ideologico: non può essere una affermazione di principio, occorre rapportare la domanda a quella che è l’effettiva missione da perseguire da parte delle aziende. La missione è quella di erogare servizi, da parte sia di imprese pubbliche che di maggioranza private: erogare servizi, di alta qualità possibilmente, ai costi più contenuti possibili, comunque competitivi rispetto a quelli di altri. Questa è la chiave di volta. La gestione di un servizio pubblico deve remunerare il capitale investito, in modo sufficiente, perché in questo modo si realizza la perfetta indifferenza gestionale. Il privato se trova una remunerazione sufficiente dei suoi capitali può investire in una azienda anche se è a maggioranza pubblica e viceversa. Il nodo, la svolta è la remunerazione del capitale, con qualità dei servizi e costi competitivi.

La nostra esperienza in questi quattro anni di attività ci porta a dire che è possibile realizzare una gestione imprenditoriale competitiva e quindi l’indifferenza di maggioranza pubblica e maggioranza privata, se si realizzano delle condizioni. E le condizioni sono un cambio di mentalità che attraversi l’intera azienda - la proprietà dell’azienda e le organizzazioni sindacali -; la definizione di una forte chiarezza di ruoli - non debbono e non possono esserci sovrapposizioni -; un quadro normativo che mentre rende indifferente la possibilità di accedere da parte delle imprese pubbliche e private, ai mercati, ai servizi, mette anche le imprese, sia pubbliche che private, nelle stesse condizioni rispetto ai vincoli e agli obblighi che vanno rispettati in azienda.

Il cambio di mentalità deve partire dalla proprietà: una proprietà pubblica che sceglie di darsi una organizzazione imprenditoriale, deve avere chiaro il fatto che da quel momento non può più esercitare alcuna forma di condizionamento di tipo gestionale. Questo deve essere chiaro nel Consiglio di amministrazione, il cui termine di confronto deve essere quello rappresentato dalle aziende leader in campo pubblico e in campo privato. Il management aziendale che deve essere chiamato a trasformare quella azienda pubblica in una impresa, deve disporre degli strumenti che lo mettano in condizione di potere gareggiare alla pari rispetto ai soggetti privati. Il costo del lavoro in una azienda pubblica è del 30% superiore rispetto al costo del lavoro in una stessa azienda privata che fa lo stesso mestiere; il pubblico per poter trovare il fornitore giusto deve ricorrere alle leggi di evidenza pubblica. Questo può essere giusto, ma non possono essere regole di mercato.

Credo che il processo di trasformazione in società per azioni pubblica a maggioranza di capitale pubblico debba essere accompagnato da due fattori: un profondo processo di riforma che elimini le gestioni garantite per introdurre il mercato vero, e una nuova mentalità che attraversi la proprietà delle aziende, il consiglio, i dipendenti nel loro complesso. Se questo processo avviene si può dire che la maggioranza pubblica o la maggioranza privata all’interno delle aziende rappresenta un falso problema.

La nostra esperienza ci porta a dire che questo scenario è possibile, nonostante ci siano grandi vuoti legislativi: AMIR è infatti un’azienda che ha un fatturato di 28 miliardi, e, con la gestione di un servizio povero come quello dell’acquedotto, quest’anno ha chiuso il bilancio con una remunerazione del capitale del 5%. Questa remunerazione comincia ad essere interessante, a tal punto che il comune sta ragionando in termini di offerta pubblica, di vendita delle azioni AMIR. Non abbiamo la pretesa di accedere alla borsa valori di Milano, però è possibile che del capitale privato trovi convenienza a investire in un’azienda che remuneri il capitale nella misura del 5%. E infatti quando abbiamo fatto le prove generali e abbiamo avviato concorso per la procedura di pacchetto obbligazionario limitato rivolto ai risparmiatori della provincia, il pacchetto che abbiamo immesso sul mercato è stato bruciato in pochissimi giorni, segno evidente che un’azienda che dà garanzia sul piano della qualità dei servizi e sul piano imprenditoriale.

L’eliminazione dei monopoli e l’instaurarsi di una reale competizione alla pari tra pubblico e privato, è infine un grande vantaggio per i cittadini: il cittadino cliente non può altro che trovare vantaggi dal fatto di avere su un mercato trasparente e chiaro operatori economici che si scontrano in termini di qualità dei servizi e costo dei servizi.

Ferri: Il problema della liberalizzazione dei servizi segue l’ampio dibattito nazionale che esiste in merito alle privatizzazioni delle grandi public utilities; anche localmente si impone oggi con forza la gestione dei pubblici servizi locali di tipo imprenditoriale. Il modello precedente dell’azienda municipalizzata in Italia risale al 1903: le regole sono rimaste invariate per un secolo, quindi si è consolidato un modello gestionale con riflessi notevoli, soprattutto negativi, un modello che ha comportato determinati comportamenti e operativi da parte delle azienda e da parte degli organi politici. Con la vecchia azienda municipalizzata, il comune sostanzialmente è imprenditore; per l’azienda municipalizzata oggi esistono le aziende speciali, che hanno personalità giuridica, ma sostanzialmente il vecchio modello è rimasto. Con le aziende municipalizzate esiste una norma, il testo unico del 1925, per cui in caso di perdita l’ente proprietario deve coprire i costi: quindi se si perde un miliardo, l’ente locale proprietario deve recuperare un miliardo. Questo è un sistema perverso che ha avuto anche influenza sull’entità del debito pubblico e sui comportamenti delle aziende.

L’introduzione della Società per azioni è stato un cambiamento notevole: è stata una privatizzazione formale, perché si è cambiato l’assetto giuridico, però sostanzialmente è rimasta l’azienda pubblica. Ciò che è diverso è che nell’azienda municipalizzata il comune è imprenditore, nella Società per azioni il Comune è solamente azionista, in origine con una quota del 99%, tale quota potrà cambiare secondo le decisioni degli amministratori.

Quando abbiamo costituito la Società per azioni, ci siamo posti il problema di poterci raffrontare con il risparmiatore e con il capitale di rischio. Le nostre società hanno la particolarità di avere avuto come soci, sin dal momento della loro costituzione, istituti di credito locali - Rolo Banca, Cassa di Risparmio, Banca Popolare dell’Emilia Romagna - con una partecipazione non significativa ma comunque qualificata. Abbiamo avuto l’intuizione che gli istituti di credito soci ci potessero assistere in operazioni con il risparmio. La nostra intenzione è quella di procedere a un’offerta pubblica di vendita per vendere il 20% dell’AMIA e dell’AMIR. Questi processi di privatizzazione iniziale devono avvenire con la necessaria gradualità; l’emissione del 20% delle azioni è molto importante perché costituirebbe un baluardo contro il pericolo tuttora presente dell’ingerenza pubblica o partitica.

Per poter procedere a un’offerta pubblica di vendita in modo da interessare l’investitore privato, occorre anche la remunerazione del capitale investito. Abbiamo la legge Galli di indirizzo che prevede un metodo normalizzato delle tariffe: le regole prescritte da questa legge però non sono ancora stati tradotte in fatti concreti. Qualora queste regole per le tariffe venisse definito, ci sarebbe la definizione di un incentivo per poter privatizzare, in modo da poter dare al soggetto risparmiatore un orientamento per quello che possono essere le sue aspettative di reddito. Sarebbe un fatto indubbiamente positivo, anche se ancora sufficiente.

Le nostre aziende hanno bilanci certificati e questo rappresenta un altro aspetto positivo: sappiamo che queste aziende hanno i conti in regola, però il fatto che un bilancio si presenti formalmente corretto non è sufficiente perché da un punto di vista tecnico il soggetto monopolista non sovrasti come competenza il socio.

Occorrono dunque altri strumenti: il monopolista è un soggetto pericoloso, va controllato da un punto di vista tecnico. Stiamo pensando di poterlo controllare mettendo a raffronto i risultati conseguiti dall’AMIR e dall’AMIA anche per singoli segmenti operativi con i risultati conseguiti da altri gestori, in Italia ed all’estero. L’unico modo per potere valutare la qualità gestionale tecnica dei soggetti monopolisti è mettere in concorrenza i risultati conseguiti, così da identificare le performance ottimali. Questi dati, questi raffronti, che dovranno essere interpretati, devono essere resi pubblici, perché non c’è solo il socio da tutelare, c’è anche l’utente e queste aziende, che al momento sono di maggioranza pubblica, hanno il dovere di assicurare flussi continuativi di informazione sia ai soci che agli utenti, anche perché determinate politiche ambientali richiedono investimenti notevoli.