Sostegno allo sviluppo delle aree di emergenza

Sabato 27, ore 15

Relatori:

Giuseppe Cerroni

Pierfrancesco Pacini

Alberto Valentini

Adriana Poli Bortone

Moderatore:

Marco Lucchini

 

Lucchini: Questo incontro intende approfondire un problema grave, quello delle aree di emergenza dove l’alto tasso di disoccupazione, specie giovanile, richiede che la creazione di nuove imprese abbia il sostegno sia dell’ente pubblico, sia di chi già opera, di imprenditori, di aziende.

Giuseppe Cerroni, segretario generale Unioncamere

Cerroni: Credo che la prima cosa da fare sia una operazione di chiarificazione terminologica. Cercherò di parlare in modo specifico di aree a "ritardato sviluppo", in cui il processo di industrializzazione è in corso, ma con un basso livello di presenza di imprese; aree di deindustrializzazione, in cui il processo di presenza industriale si sta via via riducendo per un complesso di fattori; aree "dell’obiettivo 5/b", che hanno forte capacità di sviluppo agricolo.

Dal 1988 al 1993 si è verificato un impoverimento della costruzione della ricchezza nazionale. Vi leggo quattro dati per farvi capire: nel 1988 l’Italia ha aumentato la propria ricchezza del 4%, nel 1989 del 3%, nel 1990 del 2%, nel 1991 dell’1,3%, nel 1992 dell’1%, nel 1993 per la prima volta il prodotto italiano è andato sottozero, la stima è - 0,7%. Di fronte a questi dati è legittimo chiedersi se si debba ancora fare ricorso a interventi straordinari o se non occorra imboccare la strada della soggettività, della capacità di diventare soggetto propulsivo, artefice della propria storia.

Quanto capitale è stato investito e non è rimasto nelle aree in via di sviluppo, quanti incentivi sono stati esauriti, quanti stabilimenti non hanno neanche cominciato a funzionare, quanti sono entrati in crisi? Quanti mestieri tradizionali sono stati persi, quanta cultura del lavoro locale è stata strappata, quante radici sono state tirate via dalla terra, esaurite? Perché lo sviluppo non è un fatto esterno alla comunità locale, non è un fatto che può fare a meno dei valori, della sedimentazione, della cultura di una comunità locale; lo sviluppo è legato alle nostre radici, alla capacità di giocare queste radici dentro un mercato il più possibile competitivo.

La seconda considerazione. Non si può più parlare di aiutare queste aree se non considerando che la politica di sostegno è di per sé una politica comunitaria. Parlare di intervento significa in qualche modo rifarsi ai vari piani di intervento comunitario, per restare dentro una economia competitiva.

Pierfrancesco Pacini, presidente ASSEFOR

Pacini: Una indagine realizzata in Germania ed in Francia, pochi anni fa, dimostra che le imprese europee nate in modo programmato (il 10%) e quelle nate in modo spontaneo (il 90%) nei primi anni danno più o meno gli stessi risultati, però nel medio periodo l’impresa nata con una pianificazione e quindi assistita e protetta ha un fatturato in genere triplo rispetto alla impresa nata in modo spontaneo. Perché allora non facciamo tante piccole nuove imprese nelle aree deboli? Perché le aziende nascono, crescono e si fortificano più facilmente dove c’è un sistema economico locale organizzato sotto tutti i punti di vista.

A questo proposito noi come Assefor e come Unioncamere (Unione Nazionale delle Camere di Commercio), abbiamo messo in essere il progetto LETE, finalizzato alla promozione del mercato al servizio delle imprese (da Lecce a Teramo) delle regioni Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata.

Esso si propone di dare alle imprese di questo territorio e di creare in questi territori una maggiore cultura sul piano organizzativo, del marketing, della gestione finanziaria dell’impresa. L’obiettivo è di arricchire di queste conoscenze e di queste potenzialità 850 piccole e medie imprese e di creare stabilmente delle risorse umane preparate sul territorio che siano in grado di dare questa consulenza alle imprese in maniera permanente.

Quando si vuole lavorare su aree deboli, bisogna ricorrere alle istituzioni. Un esempio. In Inghilterra nella contea di Cliveland c’erano due grandi imprese che davano occupazione a tutto il territorio. Con la crisi degli anni ‘70 si pose la necessità di una riconversione industriale. Mancando un reticolo di piccole imprese, le istituzioni locali – banche, istituti di formazione, pubbliche amministrazioni – hanno fatto un’azione strategicamente coordinata per riorganizzare l’ambiente dal punto di vista dell’informazione, delle infrastrutture, della formazione. L’esperimento, ancora in atto, ha dato dei risultati molto favorevoli.

Le nuove imprese, dunque, hanno la necessità di essere assistite almeno per i primi anni di vita per recepire le idee imprenditoriali e portarle verso la definizione di un piano strategico di medio termine.

Per quanto riguarda l’occupazione, io temo che siamo di fronte ad una ripresa senza lavoro. Perciò credo che sarebbe importante per l’occupazione puntare molto sulla formazione, sulla informazione alle imprese, agli operatori economici e sulla flessibilità del mercato del lavoro.

Alberto Valentini, membro del Comitato Sviluppo Imprenditoriale Giovanile

Valentini: Oggi siamo di fronte ad un pericolo nuovo, lo sviluppo senza occupazione o senza incremento di occupazione. Questo richiede un atteggiamento nuovo, cioè quello di essere soggettivamente convinti che fare impresa oggi è possibile. Per questo, alle istituzioni, è necessario chiedere degli interventi che aiutino questo processo che è già in atto, che è già presente in ciascuno di noi. Per raggiungere questa maggiore possibilità di sviluppo di impresa, l’esempio della 44 è significativo, tanto che anche i Paesi terzi, dello sviluppo ritardato a livello mondiale, si stanno interessando a questo provvedimento e vengono a studiare, chiedono assistenza per poter vedere come applicare queste formule. Io stesso sono stato in Argentina, in Canada, in Venezuela.

Effettivamente noi abbiamo avuto, in circa sei anni, più di 800 nuove imprese, che hanno generato 18.000 occupati a cui si debbono aggiungere oltre 6.000 soci imprenditori. Ma il dato culturale è ancora più rilevante. Secondo i dati delle Camere di Commercio circa 150.000 giovani si sono presentati ai loro sportelli per chiedere informazioni, a presentare idee, ad avere consiglio, cioè si è messo in moto un movimento, anche in queste realtà che potremmo dire di emergenza, e si è capito che per creare un cambiamento reale si deve passare attraverso questa nuova fatica di realizzare una impresa in proprio. Anche nel lavoro dipendente scende il lavoro ripetitivo, si incrementa sempre di più il lavoro dove c’è bisogno di iniziativa, di creatività, di capacità di gestire il proprio lavoro e di cercare di incrementarlo. Dunque è un problema di carattere più generale, di cambio epocale, di cambio di atteggiamento in noi stessi.

Qual è la conclusione di questa riflessione? Occorre avere il coraggio di guardare dentro di sé, di guardare il mercato e avere fiducia che fare oggi impresa si può ed è la maniera per evitare che questa forbice tra sviluppo e occupazione incominci a decrescere.

Adriana Poli Bortone, ministro per le Risorse Agricole, Alimentari e Forestali

Poli Bortone: Come ministro e come meridionale mi dispiace che si debba ancora parlare, alle soglie del 2000, del Mezzogiorno come area di emergenza, forse peggiore del primo dopoguerra, quando se non altro c’era un minimo senso di volontà di ricostruzione. Oggi, dopo tanti anni, di acquiescenza passiva, di soccombenza psicologica, dopo che 120.000 miliardi sono passati inutilmente attraverso la Cassa del Mezzogiorno e poi attraverso l’Agenzia del Mezzogiorno senza lasciare traccia di sé, ci troviamo veramente in una grande situazione di emergenza, nella quale è persino difficile immaginare il sorgere di nuove imprese, in assenza di strutture e di un valido sistema di trasporti.

In passato sono state create cattedrali nel deserto, industrie completamente slegate dalla vocazione del territorio, invece che tutelare, ad esempio, attraverso la denominazione DOC, i vini che così sono scarsamente competitivi con il resto d’Italia, peggio ancora con il resto d’Europa, in particolare con la Germania, che ha il 94-95% di vini DOC. Quando parliamo di sviluppo possibile, in rapporto ad uno sviluppo ritardato, dico che quello del Mezzogiorno d’Italia è stato uno sviluppo sbagliato, per mantenerlo in una situazione di perfetta sudditanza politica, economica e sociale: questo è un mio profondo ed amareggiato convincimento.

Come meridionale ritengo che il Mezzogiorno sia una questione nazionale. Se un governo ha a cuore la sua economia, deve far sì che non esistano dei gap di carattere territoriale. Quindi Mezzogiorno come questione nazionale, non più intervento straordinario, ma attenzione particolare a quelle aree depresse e quindi a quelle aree di emergenza che sono sì del Mezzogiorno d’Italia, ma sono anche in qualche altra zona d’Italia, nel Veneto, per esempio, che pure ha delle esigenze analoghe o molto simili a quelle del Mezzogiorno d’Italia, dove, ribadisco, vi è stato uno sviluppo sbagliato, cosicché oggi esportiamo macchine agricole in tutto il mondo ed importiamo l’80% del legno e prodotti ortofrutticoli surgelati. Ciò significa che è stata tutelata una determinata industria, quella stessa che nel Mezzogiorno d’Italia ha creato la cassa integrazione e le grosse tensioni sociali conseguenti e quindi la disperazione invece che immaginare delle industrie di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, affidandole a gente veramente legata alla vocazione del territorio e alla cultura dell’agricoltura.