EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Dare da mangiare agli affamati.
Chi l’ha fatto per una vita

Venerdì 27, ore 11.30

Relatori:

Dave Krepcho,
Responsabile del Banco Alimentare Americano

Joaquin Allende,
Assistente Ecclesiastico Internazionale

Werenfried Van Straaten,
Fondatore del Movimento Aiuto alla Chiesa che soffre

Krepcho: Il mio coinvolgimento nel Banco Alimentare è iniziato in modo piuttosto insolito. Un amico mi ha chiesto di partecipare a questa lotta contro la fame e anche se ho immediatamente pensato che non avrei potuto dare nessun contributo, mi sono coinvolto nel progetto: devo dire che ormai da sette anni ringrazio ogni giorno della possibilità che mi è stata data di svolgere questa attività che aiuta i più deboli della nostra società.

Sembra una contraddizione che esista la fame in America, uno dei paesi più ricchi del mondo, con una fortissima economia, con la borsa, il mercato azionario e i trilionari come Bill Gates. Solo lo scorso anno sono stati introdotti sul mercato alimentare americano dodicimila nuovi prodotti alimentari. Il governo americano ha condotto uno studio per verificare quale fosse la quantità di cibo che venisse sprecato ogni anno; questa quantità è pari al 27%, alimenti che finiscono nella spazzatura e nelle discariche, corrispondenti a 96 miliardi di libbre. Nonostante questa abbondanza di cibo, nonostante questa ricchezza del nostro paese, negli Stati Uniti esiste la fame.

Essa rappresenta soltanto il sintomo di un problema più profondo che si chiama povertà. Negli Stati Uniti esistono trentasei milioni e mezzo di persone che vivono in povertà. La distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti è fortemente squilibrata: l’1% della popolazione americana detiene praticamente il 90% della ricchezza. Negli Stati Uniti dunque esistono famiglie che non hanno denaro per acquistare cibo, per acquistare farmaci e la situazione è peggiorata rispetto al passato. Fra la popolazione che soffre la fame negli Stati Uniti i bambini sono i più colpiti.

In America un bambino su cinque soffre la fame ogni giorno: tuttavia gli Stati Uniti non sono certo tra i primi paesi nella lotta contro questo fenomeno. Negli ultimi venticinque anni sono stati sviluppati molti programmi di assistenza sociale, che però a partire dagli anni Novanta hanno cominciato ad essere smantellati. Contemporaneamente, il governo ha cominciato a ritirarsi da questa sua funzione. Un altro motivo che sta alla base di questo fenomeno della povertà è la mancanza di posti di lavoro: la città di New York ha condotto uno studio ed ha scoperto che occorrerebbero 21 anni per dare un posto di lavoro ai 4 milioni di disoccupati che oggi vivono di sussidi nella città. Se non bastasse esistono i poveri anche tra chi lavora.

Abbiamo condotto uno studio intervistando migliaia di persone in tutti gli Stati Uniti per arrivare a determinare chi fossero le persone che soffrivano la fame. In base a questo studio è emerso che il 62% è costituito da donne, donne che appartengono soprattutto a nuclei mono parentali, che hanno quindi dei figli che non riescono a fare assistere; il 38% dei poveri sono bambini, il 16% anziani, il 21% disabili e il 12% pensionati. Una fortissima percentuale dei poveri che soffrono la fame pur avendo un’occupazione, non possiedono un telefono, il 60% nemmeno un’autovettura; molti di loro non possiedono nemmeno un fornello o una cucina dove cucinare.

Il Banco Alimentare in America cerca di combattere questa piaga con strumenti simili a quelli utilizzati da quello italiano, è come un ponte che collega gli alimenti che andrebbero sprecati alle persone bisognose. Lo scorso anno il nostro progetto ha raccolto e distribuito un miliardo di libbre, cinquecento milioni di chili. In genere noi ci rivolgiamo ad aziende alimentari dove esistono giacenze di prodotti alimentari che non vengono vendute perché l’imballaggio è stato danneggiato oppure a quelle che hanno prodotto in eccedenza rispetto a quello che era la domanda effettiva; poi ci rivolgiamo ai ristoranti, ai caffè e raccogliamo tutte queste eccedenze alimentari che poi distribuiamo. Raccogliamo persino il cibo rimasto dai venditori e destinato ad essere buttato a seguito del grande evento del Super Ball.

Questi prodotti sono poi distribuiti a migliaia di organizzazioni che esistono sul territorio americano: centri di assistenza giornaliera, residenze per gli anziani, sub kitchen che distribuiscono il pasto caldo ai meno abbienti. I 12.000 volontari che sono l’unica risorsa del Banco Alimentare si occupano di questa distribuzione. Negli Stati Uniti esistono 200 banchi alimentari, dall’Alaska a Miami, dalla California a New York: ovunque ci siano persone che hanno bisogno di questo aiuto. Esiste anche una differenza all’interno di questi banchi: nel Nord-Est c’è, ad esempio, un’azienda agricola vera e propria. Abbiamo anche una partnership con il governo americano, e da questo punto di vista il nostro più importante partner è il Ministero per l’Agricoltura Federale. Cerchiamo poi di entrare in contatto con le comunità locali, con le industrie, con le aziende perché il problema della fame è molto più diffuso e più ampio di quanto non si possa pensare.

Dopo vent’anni però ci siamo resi conto che il nostro ruolo non doveva limitarsi a fornire solamente aiuti alimentari, ma anche una forma di educazione, educazione nei confronti delle comunità che devono imparare come aiutare le persone bisognose. Mi riferisco in modo particolare ai ceti più abbienti che non devono preoccuparsi di cosa mangiare durante il giorno. Noi collaboriamo quindi con il governo, con le comunità, con le autorità locali per poter avere una maggiore percezione, una maggiore comprensione di quello che è il fenomeno della povertà. Per superare anche il limite dell’aiuto alimentare, abbiamo cercato di far capire ai centri di assistenza o ai centri contro l’abuso nei confronti delle donne e dei minori quanto fosse importante questo tipo di iniziative. Con l’aiuto del Banco Alimentare, questi centri possono risparmiare e offrire il loro aiuto.

Allende: A volte penso che sul terribile della fame non dovremmo parlare perché in un certo modo le parole hanno il grave pericolo di minimizzare il dolore e pacificare la coscienza per una specie di realtà virtuale meramente verbale. Se dobbiamo parlare, almeno cerchiamo di desiderare che le nostre parole non siano sostituto della realtà, ma, se mi permettete la metafora disgustosa, che le parole siano morsi d’angustia e, nello stesso tempo, un trampolino per la speranza.

Potrebbe servire a tutti, se fosse possibile, invitare in questa grande e bella sala i due studenti della Guinea che sono morti poco tempo fa di freddo tra le ruote di un aereo: erano clandestini che volevano arrivare a Bruxelles. Hanno lasciato una lettera che inizia con un’introduzione ampia e rispettosa e poi si sviluppa come un testamento e un grido: "Eccellenti, signori membri, responsabili d’Europa". Con questa forma di trattare esprimevano una fine ingenuità africana, ma hanno dato alla loro lettera una forza sorprendente; "responsabili d’Europa", cioè quelli che hanno responsabilità perché questo continente realizzi il suo compito storico in un mondo che si sta guastando. Essi parlano a nome dei bambini e dei giovani africani e lo fanno per chiedere soccorso, invocano l’amore che i dirigenti d’Europa hanno per i loro figli, un amore verso il loro Creatore che ha conferito loro tutte le esigenze, ricchezze e poteri.

Dicono che manca denaro e che i genitori sono poveri e hanno bisogno di dar da mangiare alla famiglia. Continuano sollecitando una grande organizzazione efficace per l’Africa, per permettere lo sviluppo. La nostra fede ci permette di affermare che questi ragazzi sono qui con noi, senza occupare spazio, in silenzio, ma rappresentando milioni di uomini con l’ingenuità efficace del loro testamento. Cerchiamo di avvicinarci al mistero di queste due vite congelate tra le nuvole, e a tentoni di cercare alcune rispose rudimentali. Mi permetto di formularle in punti necessariamente provvisori.

La fame nel mondo è un fatto drammatico e complesso che ha un’importanza morale. Quando un occidentale percorre i quartieri poveri di Calcutta, entra in una zona ignota e non può non sentire una paura sconcertante. Giunge quindi la domanda dolente sullo scandalo della miseria nel mondo. Nessuna statistica può darci l’ultima spiegazione di questi abissi, di queste agonie. Neanche la filosofia pura può trovare risposta. Solo l’esperienza del mistero di Cristo sulla croce può aprirci allo stupore durissimo del Suo grido al Padre: "Tutto è compiuto". Ma questa risposta non ci esime dall’esigenza morale di lottare con tutte le nostre forze contro l’indegnità schiavizzante di chi non ha l’alimento necessario per vivere.

Le sfide esigono una risposta che corrisponda e che afferri le esigenze immediate, quelle di medio interesse e quelle più lontane. C’è un livello tecnico del problema che richiede molta capacità e impegno perché venga assunto, ma la dimensione fondamentale è una cultura della solidarietà. Di questo Giovanni Paolo II ha parlato in molteplici occasioni e ha ripreso il tema come una materia specifica del Giubileo del 2000. Lunedì 9 agosto scorso uno degli economisti più importanti latino americano, ex Ministro delle Relazioni Estere dell’Uruguay, e attualmente Presidente della Banca Internazionale di Sviluppo, Enriche Iglesias, sosteneva che l’umanità ha la potenzialità di risolvere i gravi problemi sociali ma aggiungeva che è necessario assicurare che questo potenziale abbia una dose immensa di solidarietà.

In verità se guardiamo gli ultimi due secoli vediamo che il sogno di libertà e uguaglianza è rimasto dolorosamente inconcluso, lasciandoci un tracciato di cadaveri. Non si può unire libertà e uguaglianza se non ci si fonda sul terzo postulato della Rivoluzione Francese: "Fraternità". Ma si può essere fratello senza essere figlio? Qui ci sono un carisma, una grazia e un compito propri del cristianesimo: una scuola di filiazione fraterna, perché il midollo della salvezza in Cristo è la simultaneità della affiliazione e della fratellanza. Deve trattarsi di un cristianesimo storico, fermento della storia.

La donna ha un compito nevralgico in questo problema. C’è una relazione intrinseca tra donna e alimento che è una modo di esprimere la relazione tra la donna e la vita. Una Chiesa dell’incarnazione, mariana, vuole essere madre dei popoli nell’ora della fame. C’è un fatto sostanziale che per essere così tanto profondo siamo abituati a saltarlo e a prescinderlo. È il più elementare: l’uomo ha per primo alimento il sangue e il latte della donna. In seguito è la donna quella che costituisce la tavola nella quotidiana crescita della vita. Sembra che la realtà della fame in un mondo dove freneticamente si producono armi e si distruggono i campi coltivati sia una denuncia a un universo organizzato dalla logica guerriera del maschio. Il nuovo luogo della donna nella Chiesa e nella società deve trasformarsi in una fortissima pressione perché la fame non continui a uccidere o a mutilare la vita dell’uomo. Giovanni Paolo II ha scritto che la Chiesa madre impara da Maria a vivere questa vocazione: Maria di Nazareth è colei che la poesia spagnola chiamò "fornaia del cielo", perché nel suo grembo impastò il Verbo fatto uomo. È Maria di Cana la prima che percepì che il banchetto degli sposi aveva bisogno di gioia.

Quando Gesù disse che non solo di pane vive l’uomo, stabilì una gerarchia necessaria. Un uomo che si alimenta solo di pane non è pienamente uomo. L’uomo ha fame di verità, ha fame di Dio, ha fame di senso per vivere. Nella lettera testamento dei due giovani della Guinea, non solo essi chiedevano pane di farina, ma chiedevano di essere aiutati a studiare. L’opera "Aiuto alla Chiesa che soffre" è un testimone di questa fame integrale. Quando nel 1989 caddero i muri e annunciammo per radio all’Unione Sovietica che avremmo potuto portare la Bibbia e i libri religiosi, ci arrivarono 20.000 lettere in ogni mese successivo, fino a ricevere mezzo milione di lettere. In pratica questo ha un’importanza strategica e tattica per vincere la fame nel mondo: la cosa più grave dei paesi affamati è la corruzione e l’incapacità dei dirigenti di questi governi.

Non basta però una corrente di conversione della coscienza individuale, si ha bisogno di una organizzazione sociale e di un ordine internazionale giusto ed efficiente. Il Santo Padre lo ha raccontato nella sua Bolla di indizione del Giubileo: "Si deve creare una nuova cultura di solidarietà e cooperazione internazionale in cui tutti, specialmente i paesi ricchi ed il settore privato, assumano la loro responsabilità di un modello di economia al servizio di tutte le persone".

Nella notte del venerdì santo del 1999, il Santo Padre, terminando una giornata molto esigente per lui, si intrattenne davanti alla moltitudine di fedeli che lo accompagnavano nel Colosseo di Roma e improvvisò un’impressionante energia spirituale. Commentò le ultime parole di Cristo sulla croce. "I millenni non parlano, i secoli non parlano, ma parla l’uomo. Parlano i miliardi di miliardi di uomini che hanno riempito questo spazio che si chiama secolo ventesimo, questo spazio che si chiama secondo millennio. Ripetono il grido di Cristo sofferente. Queste parole non solo chiudono, terminano, ma anche aprono, significano un’apertura al futuro". Certamente il mondo ci chiederà nel secolo che presto si apre se noi cristiani abbiamo esteso la tavola a tutti quelli che guardano da lontano il banchetto dell’abbondanza dei paesi ricchi. Siamo la Chiesa del banchetto eucaristico, siamo il popolo che cammina verso la casa del Padre in cui ci aspetta una mensa dove ogni figlio è alimentato in pienezza e gioia. Abbiamo un obbligo di coerenza perché questo Vangelo sia credibile.

Van Straaten: Sono un sacerdote canonico regolare, ho 86 anni; da 52 anni viaggio attraverso tutti i paesi del mondo, la Chiesa, la gente nella sofferenza e quella che può aiutarmi ad alleviare questa sofferenza. Voglio raccontarvi qualcosa dell’opera che ho fondato nel 1947. Sono fermamente convinto che questa sofferenza generalmente trova la sua causa in uomini che non vogliono più rispettare l’ordine e le leggi di Dio e vengono a patti praticamente con il diavolo. Il diavolo ha bisogno del caos e della miseria come locomotive della sua ribellione contro Dio: per questo noi siamo testimoni oggi dello sfruttamento delle inimmaginabili miserie in Africa, Asia; nel Kosovo di guerre, oppressioni, pulizie etniche, terrorismo, milioni di rifugiati e di espulsi. Si tratta di figli di Dio che si degradano in campi mostruosi di massa, distrutti a tal punto da essere una cosa di cui si fare ciò che si vuole, utilizzata come ariete che a sua volta demolirà altre cose fino a scardinare il mondo intero.

Il mio compito è un tentativo di contrastare questo piano diabolico, attraverso un aiuto pastorale e caritativo, al fine di rendere la Chiesa più forte e resistente, rendere il cristianesimo talmente attraente che anche i moderni pagani, gli atei, i comunisti, gli apostati, saranno pronti ad accettarlo. Ciò che è stato decisivo in questa visione fu una conversazione che ebbi con un generale sovietico. Era il 1949 e lo incontrai a Berlino, parlava bene il tedesco. Conversammo per ore intere e accomiatandoci egli mi disse: "Secondo lei, noi siamo l’élite di Satana e voi siete l’élite di Dio". Se noi cristiani non ci sentissimo l’élite di Dio parlare di un’Europa cristiana non ha senso e noi non avremmo più la forza di portare a compimento la nostra missione. In forza dell’amore dobbiamo rendere il nostro cristianesimo talmente vivo che esso divenga accettabile dagli altri e tale da poterlo trasmettere ai giovani popoli dell’Asia, che ci daranno il cambio nel comando e nel governo del mondo. È per questo che la nostra è un’opera di conversione.

L’Europa non è eterna. Un mondo sta crollando e i centri di gravità si sono già spostati. Tanto sul piano biologico che economico il futuro appartiene all’Oriente. A noi resta una sola missione di ordine né politico, né militare, ma cristiana. Non possiamo uccidere l’Oriente, dobbiamo battezzarlo. Dio, davanti al quale tutti i popoli sono uguali, vuole senza alcun dubbio che trasmettiamo a coloro che verranno dopo di noi il patrimonio che egli ci ha affidato. Questo patrimonio non è la cultura europea o i progressi della tecnica moderna, ma il Vangelo, la Chiesa, i sacramenti, ciò che noi possediamo di più prezioso. Per questo noi dobbiamo ritornare a Cristo. Soltanto il contatto vivo e l’incontro con lui possono in definitiva salvarci.

Potrebbe darsi che nel mondo attuale il Signore permetta che un gran numero di persone sia ridotto all’emarginazione e alla povertà, affinché noi siamo obbligati a scoprire Lui in questa moltitudine e siamo costretti a compiere dei gesti i carità. È la carità che copre una moltitudine di peccati e che in più ridarà al nostro cristianesimo lo splendore del figlio di Dio. Soltanto così i popoli dell’avvenire di cui noi siamo responsabili potranno accettare il nostro cristianesimo. Questo vuol dire che la nostra opera è un’opera di conversione.

La nostra opera è già dall’inizio anche un’opera di riconciliazione. Quando è sorta la nostra opera ho esortato il popolo fiammingo e olandese a riconciliarsi con la Germania sconfitta, a superare la barriera dell’odio e a ricostruire l’amore. Ora è passato mezzo secolo. Io credo più che mai alla vocazione della nostra opera: predicare ancora una volta la riconciliazione e l’amore, spronando la Chiesa occidentale ad amare nei fatti i fratelli ortodossi che hanno sofferto più di tutti sotto il comunismo. Essi costituiscono la parte più minacciata della cristianità. Più della metà delle loro Chiese sono state distrutte, i loro libri sacri bruciati, migliaia di loro vescovi e sacerdoti sono morti come martiri; altri hanno collaborato con il KGB, che forse li tiene ancora sotto il suo dominio; altri ancora hanno accettato compromessi per viltà o per egoismo. Questo è accaduto anche nella Chiesa cattolica. Persino tra i dodici apostoli scelti da Gesù stesso c’è un debole che lo ha rinnegato e un traditore. Non giudichiamo, ma aiutiamo. Dopo mille anni di malintesi, discordie, reciproca ostilità e cavilli dobbiamo essere oggi consci della nostra unità con la Chiesa ortodossa ed essere disposti a ricostruirla. L’unità della fede e dei sacramenti non è mai andata perduta. L’unità della preghiera e dell’amore dobbiamo realizzarla adesso. Un giorno l’unità perfetta non costituirà più un problema perché verrà come frutto maturo per opera dello Spirito Santo.

Il maggior ostacolo per la riconciliazione tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa è costituita dalla reciproca diffidenza. Molti vescovi ortodossi ci considerano una setta a caccia di proseliti. In Occidente molti temono che il caos odierno, la scarsa influenza del KGB, renda impossibile in Russia una corretta distribuzione dei mezzi finanziari. Noi non siamo di questo parere: l’amore deve essere inventivo e non far supporre il male; già decine di vescovi russi hanno accettato la nostra offerta. Altri li seguiranno. È necessario ricorrere a Maria e a Cristo che ci ha donato sua madre. Recitate a questa cara e potente madre il santo rosario ogni giorno, per la conversione della Russia e per l’Occidente materialistico, e per avere la riconciliazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Pregate in un amore senza barriere, che abbraccia gli amici e i nemici. Pregate come pregavano i vecchi, come Mosè sul monte e Giona nel ventre del mostro, come i giovanetti nella fornace ardente, come Giobbe quando fu colpito da satana. La preghiera di tutti loro fu esaudita. Pregate con una fiducia incrollabile, con un cuore che abbraccia tutto il mondo. Il Signore si piegherà su di noi e la sua misericordia non avrà limiti.