Venerdì 25 agosto, ore 11

IL PARADOSSO DELLA GRATUITA’: DALLA PROVOCAZIONE DI UN INCONTRO ALL'ESPERIENZA DELL'ACCOGLIENZA

Testimonianze

Introduce:

Alda Vanoni.

Modera:

Pier Alberto Bertazzi.

A. Vanoni:

Non so quanti di voi conoscano l'associazione "Famiglie per l'accoglienza": si tratta di famiglie, cioè adulti stabili che si aprono ad un bisogno esterno, che può essere di bambini o di adulti, di ragazze madri o di tossicodipendenti, di malati che vengono da lontano o di parenti di questi malati. Questa associazione si è costituita formalmente nell'82 a Milano, da un gruppo di famiglie che già da tempo viveva questa esperienza. Sono circa mille i soci, ci sono molte sedi regionali costituite formalmente, e anche dove non vi sono sedi ci sono comunque nuclei di presenza di nostre famiglie che sono punto di riferimento e anche di aiuto per varie esperienze di accoglienza. La nostra associazione trova le sue radici in una vita di comunità cristiana, la connotazione cattolica è per noi essenziale. E questo mi sembra differenzi la nostra associazione da tanti altri organismi similari che si muovono nel campo dei bisogno, genericamente del volontariato: non si tratta solo di un problema di solidarietà, di risolvere bisogni che vediamo e da cui ci sentiamo provocati. Quello che ci muove e che comunque costituisce il motivo reale del nostro stare insieme, della nostra associazione, è un aiuto nel concreto che sviluppiamo poi anche con convegni sull'adozione, sull'affido, sull'assistenza ai malati, ecc. Il cammino che abbiamo fatto in questi anni ci ha portato a una radicalità che fonda con verità il gesto dell'accogliere per noi e per gli altri. Nel suo discorso ai giovani di Compostella, il Papa dice: "I cattolici non sono un'agenzia di volontariato o di aiuto sociale …". Non siamo un'agenzia di volontariato, la nostra compagnia ci richiama al fondo, al perché (…). Questo è il passo che l'associazione ha fatto in questi anni, andare al fondo della motivazione che è la stessa per cui noi viviamo. Pensando a questo incontro, non potevo tacervi un'esperienza che ha segnato molto la mia settimana, la morte del figlio di una delle nostre famiglie, di nostri amici, amico dei miei figli, un ragazzo di vent'anni, annegato domenica qui a Rimini. Lo conosco da quando aveva tre anni, l'ho visto crescere, fare la prima Comunione, la Cresima, passare le scuole, diventare matricola del CLU: martedì l'abbiamo accompagnato al camposanto. Di fronte a una cosa così, uno si chiede: a che cosa serve la fatica che faccio coi miei figli, il mio lavoro, la nostra associazione, tutto? E la risposta e che noi siamo chiamati per questo "sì" continuo a questo disegno misterioso che il Signore ha su di noi, misterioso e certe volte drammatico; e le accoglienze, i gesti che facciamo, sono il nostro "si" alle circostanze che Lui ci mette davanti. Le testimonianze che noi sentiremo sono un "sì" detto nel concreto delle circostanze, che aiuta tutti noi a crescere là dove siamo, anche se non a tutti viene chiesto di accogliere un bambino malato (…).

Cosetta di Firenze:

Da un anno abbiamo aperto una casa di accoglienza temporanea per ragazze extra-comunitarie che arrivano nella città. Per me l'aspetto più sconvolgente di Casa Santa Lucia, questo il nome della casa, è vedere ogni giorno reso possibile l'impossibile. Lo stupore non è soltanto perché esiste un luogo così, ma perché questo luogo è educativo per noi prima ancora che per coloro che sono accolti. L'abbraccio del quotidiano, la condivisione concreta di gesti come il fare la spesa, accompagnare le ragazze dal medico o in ospedale, preparare il corredino per i loro bambini che nascono, o più semplicemente fare una telefonata per un posto di lavoro, perché loro non conoscono l'italiano, queste cose si fondono nel quotidiano assieme all esigenza e al lavoro della mia famiglia. Mi stupisce che ciò avvenga senza una pretesa sulla loro vita poiché, essendo accoglienze temporanee, brevi, si tratta di volti che fino a ieri non sapevo nemmeno esistessero, che incontro e dopo una settimana non vedo più, vanno via perché, grazie a Dio, hanno trovato un posto di lavoro. Tutto è affidato a quell'istante, a quel giorno o due che stanno lì, e magari nemmeno parliamo la stessa lingua. Questo per me è il paradosso, perché scopro che dentro questa estraneità totale, in questo faccia a faccia con la persona, con il loro bisogno, il loro male, e il loro desiderio infinito di bene, uno sente, tocca la presenza di un Altro più grande, che costruisce il destino di ognuno di noi ogni giorno. Ci stupisce perché in fondo non avevamo pensato così questo luogo e la compagnia che riusciamo ad essere, nonostante tutto, per queste persone. Questa è una continua novità che si dilata anche per le persone che vengono li, magari anche un'ora o due alla settimana, non tutti stanno tutti i giorni, e cambiano il giudizio, la mentalità, il modo di pensare, ad esempio, sugli immigrati. Le condizioni che viviamo, le difficoltà che incontriamo, per la logica comune sarebbero grossi impedimenti a un'opera così, e per noi invece sono la modalità con cui l'incontro con Cristo e la nostra amicizia non sono solo un episodio della nostra vita personale, ma un fatto gratuito che costruisce un pezzetto di mondo nuovo.

Silvana di Udine:

La nostra storia di accoglienza è cominciata sette anni fa: si tratta di un affido di due ragazzine che avevano allora sei e dieci anni. Era un affido che doveva durare due o tre mesi e da allora questa storia è andata avanti più che per un "sì" per un "perché no?". Ci siamo sempre sentiti spinti dalle circostanze e dagli strumenti che avevamo a disposizione per misurare la nostra vita quotidiana verso questa esperienza, anche se assolutamente non era stata né prevista né progettata. Dopo questi sette anni possiamo sperare di aver risolto il bisogno di queste ragazze. Certamente è stato il Signore che attraverso queste ragazze ha risposto al nostro bisogno che, inizialmente, forse era quello di avere dei figli, ma che pian piano stiamo scoprendo come il bisogno di essere noi dei figli. Mio marito ed io abbiamo imparato che lo scopo di questa storia non cercata era quello proprio di imparare a dipendere da Dio Padre e come dei bambini chiedere a lui di superare la fatica quotidiana di lavorare secondo il suo modello e non secondo il nostro o le nostre pretese e soprattutto imparare a chiedere perdono di tutte le mancanze quotidiane che sicuramente questa esperienza ci ha mostrato con grande evidenza.

Vittorio di Milano:

Mai come quest'anno la nostra esperienza di accoglienza è stata intensa e faticosa, mai come quest'anno il telefono di casa è squillato per persone ammalate di tumore che chiedevano per i loro parenti un'ospitalità a Milano, visto che abitiamo vicino all'Istituto dei Tumori, e mai come quest'anno queste circostanze ci hanno richiesto e ci hanno indotto a una vigilanza maggiore nei confronti del Signore e nei confronti della famiglia. Eppure posso tranquillamente e paradossalmente affermare che mai come quest'anno si è trattato di un'esperienza da cui abbiamo ricevuto il centuplo. La cosa che più ci ha colpito è stata l'esperienza, in termini di fatti e di vicende umane, di come la nostra compagnia non lascia neanche alla morte l'ultima parola. Di fronte a una condivisione vissuta giorno per giorno nelle circostanze più banali e più semplici della vita, insieme con questi parenti di ammalati, il dolore, per quanto grande, è sopraffatto dalla consapevolezza di aver incontrato un'amicizia che aiuta nel cammino verso il destino. Condivisione non vuole dire fare gesti eroici, ma coltivare la circostanza, dall'andare ad accompagnare queste persone a trovare l'asilo nido per il figlio, visto che la loro permanenza a Milano si prevede lunga, fino a una compagnia nel quotidiano, con telefonate, visite, gesti di amicizia. Come se fossero Cristo presente (…).

Claudia di Padova:

La nostra esperienza di accoglienza è nata da un incontro che mio marito ed io abbiamo fatto da ragazzi e che nel tempo e nelle circostanze è diventato per noi il segno della presenza di Cristo nella nostra vita; la circostanza particolare che ci ha mosso è stata la richiesta di una famiglia da parte di un nostro amico del movimento che si interessava per una bambina sieropositiva stabile, cioè ad un livello in cui la malattia non è più reversibile, che avrebbe affrontato il tempo che le rimaneva con molte più risorse in un ambiente familiare. L'avviso chiedeva che la famiglia avesse figli già grandi: in quel momento eravamo presenti tutti e tre, mio marito, io e mio figlio che ha nove anni e ci è nato spontaneo un "sì". Non so perché, eppure ci siamo ritrovati a dare la disponibilità per questa cosa e immediatamente dopo ci sono venuti tanti dubbi e tante paure, e allora io mi sono ricordata di una frase di una mistica che dice che "la santità non sta nel fatto che l'uomo da tutto, sta nel fatto che Dio prende tutto e l'uomo pronuncia la sua offerta come a mezza bocca, e dopo ha paura e vorrebbe tornare indietro ma la grazia del Signore permette questa svista". Questo è proprio quello che ci è successo, tanto è vero che, nel tempo, le paure e i dubbi aumentavamo, ma più forte era il nostro guardare a quella bambina che aveva bisogno. Mio marito ripeteva: "Ciò che fate al più piccolo l'avrete fatto a me", cioè a Cristo, quel Cristo che in quella compagnia ci si era già rivelato come presente, molto chiaro, quel Cristo che stava diventando per noi la cosa più grande della vita. Per cui abbiamo atteso questa bimba proprio come un incontro faccia a faccia con lui; e questa sfida è continuata nel tempo, tanto è vero che ci siamo trovati, un po’ alla volta, privati di motivazioni umane per fare questo gesto (a me i bambini piacciono molto, però anche questa risorsa mi è stata tolta).Quando siamo andati a vedere nostra figlia per la prima volta in Istituto, l'incontro per me è stato durissimo, perché la bambina era molto diffidente nei nostri confronti, per una storia particolarmente grave di abbandono che aveva alle spalle, e io mi sono trovata a desiderare che quella bimba venisse in casa nostra proprio per Lui. Eravamo sotto Natale e io mi ripetevo: "Signore, sto facendo questo per Te", anche se mi veniva voglia di scappare; in questo mi ha aiutato molto anche mio figlio, che non è un santarello, ma era molto più deciso di noi e così, un giorno, ci fa: "Sono contento, sai, Gesù per Natale viene ad abitare nella nostra casa" e non ha detto: "Una bambina per Natale viene ad abitare nella nostra casa". Poi, quando lei è venuta, le cose sono state anche più semplici e più facili di come avremmo immaginato, è stato come un crescendo di grazia: lei si è abbandonata a noi e così tutto è andato molto oltre le aspettative. Poi ci siamo dovuti scontrare con il problema della convivenza e con la paura del contagio, per alcuni episodi che ci erano successi fin dai primi giorni (…). Man mano la scelta era sempre più ridotta all'osso, tanto è vero che una sera in cui eravamo particolarmente preoccupati, mio marito mi fa: "Senti, Lui ci ha chiamati a questo, Lui sa dove vuole portarci, non dobbiamo temere". Dopo circa un mese che la bimba era con noi, abbiamo saputo che il suo caso era un errore medico, la bambina, che ci era stata data molto velocemente (una settimana, una settimana e mezzo) era nel frattempo guarita senza che i medici se ne fossero accorti. Che guarisse era ragionevolmente assurdo: eppure e successo così e noi che tante volte affermiamo che Dio ci ama, che Dio ama l'uomo, e lo affermiamo con una ovvietà intellettuale, ci siamo trovati a scoprire questo amore di Dio così chiaramente presente nella nostra vita per un briciolo di apertura che noi abbiamo avuto nei confronti di quella bambina (…). Ci diceva un amico che questi gesti di accoglienza rendono giustizia alla realtà, perché la realtà è bene e quando uno compie un atto di bene afferma la realtà come il luogo della salvezza di Cristo, e concludeva: "E la gente comincia a chiedersi se Dio esiste". Io sono nella scuola da molti anni e più che molta stima non ero riuscita a guadagnare, però il fatto della bimba ha molto sconvolto la gente che mi conosce: questo gesto di gratuità ha colpito, tanto è vero che un mio collega che non è credente e che ha i figli non battezzati, mi ha cercato molto per Natale e dopo mi ha raggiunta per telefono e mi ha detto: "Senti, non potevo lasciar passare questo Natale senza farti gli auguri e senza dirvi che mi avete commosso".

Alberto di Crema:

Mi sono ritrovato quasi casualmente imbrigliato nella storia della associazione, visto che abbiamo fatto la scelta, con alcune famiglie, di andare addirittura ad abitare insieme, vicini (…). Mi premeva dire alcune cose che sono emerse da una preoccupazione che si sta facendo sempre più pressante. L'esperienza dell'accoglienza non è un avvenimento eccezionale nella vita, dato a qualcuno, ma qualcosa che la vita ti pone davanti chiedendoti di rispondere. A me è successo di cominciare a fare accoglienza quasi come il riverbero normale dell'aver sempre vissuto l'esperienza dell'essere accolti, magari facendo lo studente, facendo il CLU a suo tempo, facendo il fuori sede, trovandomi a casa di altri e così via, dentro una normalità di rapporto che non può che avere, di fronte ad un bisogno che ti capita, che questo esito: dire di no sarebbe stato come negare per me, tutto quello che fino a quel momento mi aveva tenuto in piedi (…). Per me e per mia moglie l'eccezionalità sta in quella posizione umana che ci è stata data da una compagnia di amici: è questo il dato eccezionale, ed è questa la cosa che sempre più colpisce noi stessi quando la riconosciamo. Due settimane prima di venire al Meeting, una delle bambine che abbiamo in casa, la Marzia che ha 11 anni, è scappata, è stata via un giorno, come una sfida a noi: stava tornando da sua madre, in realtà cercava di attirare la nostra attenzione. Di fronte ad una cosa del genere, la domanda è stata: "Ma allora non siamo stati capaci di stare insieme a questa qui, abbiamo fallito". Poi mi sono reso conto che il punto della questione è che comunque non dipende da noi il fallimento o meno del rapporto con quella persona, ma dipende dallo spessore che ha la nostra umanità, da quanto la nostra umanità è sorretta dalla presenza di Dio (…). La cosa più grande che ultimamente ha insegnato a noi questa esperienza è che abbiamo deciso da chi dipendere; il problema più grosso non è fare il gesto dell'accoglienza, ma decidere da chi e da che cosa dipendere, perché questo rende pienamente umani di fronte a qualsiasi cosa si incontri, tanto è vero che non se ne sente più il peso, la fatica sì, ma non la pesantezza.

Famiglia Scardovi di Castel Bolognese:

Quando abbiamo incontrato l'esperienza cristiana, l'abbiamo assunta ed è scattata una libertà personale che ha portato poi a vivere vari gesti di accoglienza (…). Prima ognuno camminava per conto suo; le esperienze che abbiamo vissuto ci hanno portato a compiere dei gesti come coppia, per esempio, nei momenti grossi di difficoltà. Fra noi due, però, era ancora come un andar dietro a quella dimensione del quotidiano determinato dal carattere, dai condizionamenti: il Signore ci ha fatto questa grande grazia per cui è accaduto che l'esperienza di questo tempo ha generato in noi la domanda a Lui, perché diventasse il fulcro della nostra unità (…). Un giorno don Giussani, parlando dell'accoglienza all'altro, disse: "L'altro è sempre rapporto con l'infinito" e continuava dicendo: "Il suo angelo custode guarda la faccia del Padre"… Iniziare a guardare mio marito in questa dimensione di domanda al Signore ha aperto in me una grandissima libertà nei suoi confronti, e il fatto di riconoscere insieme che la nostra vita, la nostra consistenza, la nostra famiglia deve essere in questo punto, sta diventando il riconoscimento che Cristo, l'accoglienza di una compagnia, comincia a scardinare il nostro essere (…). Possiamo testimoniare che può scattare una libertà più grande solo in questa dimensione (…).

Marito:

Per me l'accoglienza ha voluto dire riscoprire la famiglia, il valore di pregare insieme: mi sono sentito libero, specialmente nelle difficoltà dei soldi, mi sono affidato alla Provvidenza. Oggi mi sento felice di aver fatto queste cose, perché ho ritrovato il significato dello stare insieme (…).

Paolo:

Io sono il figlio, la cosa più bella del rapporto con i miei genitori è aver capito che insieme si può crescere, anche nelle difficoltà di tutti i giorni (…). Ad esempio, sono sempre stato abituato ad aver in casa gente, da quando avevo sei o sette anni: le poche cose che avevo dovevo condividerle con altri e questo mi scocciava tremendamente. Il rapporto con la mia famiglia ha fatto sì che io, adesso, a 17 anni, posso dire di essere felice (…). La gente che c'è in casa con me mi da molto fastidio, a volte. Noi avevamo in casa una ragazza anoressica, una mattina mi sono alzato e non c'era più niente da mangiare per colazione. Io mi sono arrabbiato tantissimo, cacciavo degli urli per casa come un disperato (…).

P. Bertazzi:

E’ sempre un compito ingratissimo quello che mi tocca quando fortunatamente avviene spesso - sono invitato a questi vostri incontri, perché prendere la parola dopo queste testimonianze non è facile. È come mettersi a commentare una verità su di noi, sul mondo, che gli avvenimenti di cui voi siete tutti testimoni hanno già espresso in maniera più che conclusiva. Ciò che rende meno difficile rendere la parola in questi casi è che uno dice: "Va bene, allora, cosa ho capito? Cosa vogliono dire per me queste cose?", ed è quello che in due minuti cercherò di dire. La prima cosa che mi ha aiutato a comprendere le vostre testimonianze è il perché del titolo che avete scelto, perché è verissimo: capire nella propria vita la paradossalità della gratuità, del fatto che la risposta a tutto quello che voglio, che possiedo o che amerei possedere, che amerei avvenisse per me e per gli altri, non è la mia capacità di fare, il mio possedere, il mio riuscire, il mio essere capace di. Assume invece l'aspetto che capita nella mia vita, qualcosa da cui io ragionevolmente capisco, come è stato detto, che devo dipendere. Magari partendo da un "perché no?" anziché immediatamente con un "sì". La grandezza di questo paradosso è data da una semplicissima realtà, che ci è stata spesso ripetuta: la gratuità e il gesto di Dio, e il modo con cui opera Colui da cui dipendono il mondo, la storia, il momento che stiamo vivendo. solo in questa gratuità che io divento, in qualche modo, allo stesso modo di Dio, capace di costruire, per la mia persona e per il mondo, qualcosa di vero. Questo è il grandissimo paradosso: essere disponibili a ciò che accade nella vita che sentiamo ci chiama ad una felicità, anche se il suo aspetto immediato è la fatica la difficoltà e lo sconvolgimento - vuol dire decidere di dipendere solo da Colui che regge il mondo, la storia, ogni minuto che noi viviamo, la gioia, il dolore. Un'altra cosa mi sembra importante: tutto questo ributta dentro la tematica del Meeting, al di là della questione del paradosso. Mi sentirei di suggerire anche a voi di rileggere l'editoriale del "Il Sabato" della settimana scorsa, nel quale è riportato un commento alla figura di Miguel Manara dove, più chiaramente che nelle altre due figure, si esprime il paradosso del desiderio di un possesso che diventa vero solo laddove uno è chiamato alla più grande gratuità: l'accettare la morte,, per lui senza senso, della persona che gli aveva rivelato il vero della condizione umana. In questo commento si sottolineano tre punti che corrispondono a tre cose che voglio dire. Per la prima, mi rifaccio all'intervento di Alda che all'inizio, come Ungaretti in una bellissima poesia, dice: "Dalle nostre mani non escono che limiti, tu cosa puoi fare per l'altro?". Tante cose, tantissime, se sei disponibile. Lei diceva: "Non dobbiamo pensarci come una associazione di volontariato". Non c'è dubbio, puoi fare tantissime cose per l'altro, ma non sarà per sempre e comunque, se tu credi che la capacità di accoglienza, di condivisione, di coinvolgimento con l'altro, sia qualcosa che tu fai e non l'obbedienza a qualcosa che ti capita nella vita, ciò che, in ogni caso, uscirà dalle tue mani è un limite, anche attraverso le mille cose che potrai fare. L'altro punto che veniva sottolineato, proprio nella vicenda del Miguel Manara, è che c'è un solo modo perché questo limite non prenda a un certo punto il sopravvento o non definisca la nostra opera, per esempio riducendo il tutto ad una associazione di volontariato. L'origine unica e continua di tutto ciò che è incontro nella vostra vita, è nell'esperienza dell'incontro con un altro, per cui uno è costretto a decidere ogni minuto, ogni giorno, se l'altro che capita in maniera così strana, comunque gratuita, nella sua vita, è ciò che l'aiuta a capire la definizione di sé. L'ultima cosa che non mi stupisce è il fatto che uno di voi, cui è capitata un'esperienza di accoglienza, ha dato origine ad una realtà associativa, a questa opera che è "Famiglie per l'accoglienza": non mi stupisce perché questo è un ulteriore segno della verità di ciò che si sta vivendo. Chi è capace di costituire in maniera vera, adeguata, anche a livello di organizzazione e strutture, una realtà di accoglienza dentro la nostra società? Chi ha il programma, il progetto? Chi è stato colpito nel suo cuore da ciò che gli è capitato, non un pensiero, una cosa astratta, un sentimento, ma qualcosa che chiede di incidere e cambiare la realtà nostra e quindi della società. Allora, quello che vi auguro è duplice: che questa cosa si incida sempre più nel vostro cuore e che proprio questo sia lo strumento che inevitabilmente vi porterà a rendere sempre più testimonianza agli altri.