Società e Stato.

Giornata nazionale della Compagnia

delle Opere

In collaborazione con la rivista "Non profit"

Sabato 30, ore 11.30

Relatori: Gianni Billia, Lamberto Dini,

Ernesto Olivero, Presidente INPS: "Welfare State" Ministro degli Affari Esteri:

Fondatore del Sermig: "Carità" Fabio Roversi Monaco, "collocazioen internazionale dell’Italia"

Alberto Cova, Magnifico Rettore dell’Università

Preside della Facoltà di Economia degli Studi di Bologna: Moderatore:

presso l’Università Cattolica "Concezione dello Stato" Giorgio Vittadini,

Sacro Cuore" di Milano. " "CDO: una presenza per difendere

Esperienza del Mondo Cattolico" il futuro"

 

 

 

 

Vittadini: Siamo qui per l’ultima tappa del ciclo di incontri "Difendiamo il futuro" promosso all’interno del Meeting dalla Compagnia delle Opere. Il titolo di oggi è sintetico: "Società e Stato". Vogliamo oggi trarre un bilancio, fare un rapido excursus su questo tema, mettere a fuoco diversi temi che sono come un mosaico di questa costruzione. In primo luogo quello che per noi è il metodo di affronto del reale, il metodo operativo, il metodo sociale, la carità, e allora abbiamo tra di noi il Dott. Ernesto Olivero, fondatore del Sermig a Torino, una delle più importanti opere di carità del nostro paese. E siccome nasciamo da un’esperienza cristiana (anche se veramente cerchiamo di vivere un ecumenismo reale, cioè un rapporto con tutti, valorizzando tutti, stando con tutti, vorrei aggiungere anche con diverse religioni, con popoli diversi), vogliamo sapere dal prof. Alberto Cova la storia di questo movimento cattolico, il suo contributo alla costruzione della società italiana. Da questa concezione dell’operare e da questa storia, guardiamo lo Stato, innanzitutto volendo capire di più cos’è questo dibattito dello stato sociale, per questo abbiamo tra di noi il Dott. Gianni Billia.

Sul rapporto società-stato interverrà uno dei più grandi esperti italiani proprio di concezione dello stato, il prof. Fabio Roversi Monaco. E infine, siccome non si può più vivere nel proprio piccolo, ma siamo in epoca di globalizzazione, dobbiam guardare il mondo, dobbiamo guardare dove noi viviamo, aperti anche più di chi dovrebbe mostrare questa apertura, abbiamo tra di noi infine il Ministro degli Esteri Lamberto Dini, a cui chiederemo proprio di parlarci di questa collocazione internazionale dell’Italia.

 

 

Olivero: Sono lieto di essere qui con voi. Vorrei dedicare questo incontro a tre situazioni che nel mio cuore in questo momento per me sono molto importanti. Dedico questo incontro a don Primo Soldi e agli amici di CL di Torino, perché grazie a loro sono qui, e perché in questi lunghissimi anni abbiamo potuto osservarci reciprocamente, abbiamo potuto amarci, abbiamo potuto capire che si può costruire insieme da diversi, ma uniti in Gesù.

Dedico poi questo incontro a quella povera gente sgozzata in Algeria, a quelle donne stuprate e poi uccise. Noi all’arsenale della pace abbiamo avuto un grande dono, la Croce dei dolori del mondo, che ci è stato donato da un grandissimo artista, Fra’ Costantino Ruggero, il quale vedendoci lavorare ha detto: "Voi siete sempre nel cuore della sofferenza e vi regalo questa Croce", una Croce con settantasette chiodi, la Croce dei dolori del mondo.

Poi dedico questo incontro ad Adriano Sofri. Nel ’68, Adriano Sofri ed io avevamo un appuntamento per vivere un sogno: volevamo un mondo migliore. Siamo però partiti su due treni diversi che non dovevano incontrarsi mai, anche se entrambi ci eravamo lasciati sedurre dalla giustizia e dall’amore. Lo Spirito con il suo tempo ci ha fatto poi incontrare nei fatti concreti della vita, nelle sofferenze più atroci, in Bosnia, in Cecenia, in mezzo ai bambini di strada del Brasile e del mondo intero. Lo stesso Spirito aveva anche fissato un appuntamento per noi in una prigione, dove, faccia a faccia, ci siamo riconosciuti subito, e guardandoci negli occhi abbiamo capito che per noi la lotta non è terminata.

Da un po’ di mesi stiamo scrivendo un libro, e una sua frase mi ha particolarmente colpito, ed infatti partirò da essa. Mi ha chiesto su quali testi si basasse la mia conoscenza di Gesù, quale fosse la mia preparazione culturale. Gli ho sorriso: non ho mai letto un libro su Gesù. A un certo punto della mia vita ho detto: "se Tu esisti, entra in me e prendimi, e fa di me quello che vuoi" e mi sono ritrovato con un Ernesto a livello diverso, un Ernesto che aveva gli occhi di Gesù, che aveva la voce di Gesù, un Gesù morto e risorto, un Gesù indomabile. Da quel momento ho visto che l’impossibile non esiste, ho visto che è possibile prendere una sua parola e farla propria. Ho creduto a questo Gesù che dice "ci sarà un tempo in cui le armi saranno sciolte, le armi diventeranno strumento di lavoro", ci ho creduto e milioni di persone insieme a me ci hanno creduto: così il primo arsenale di guerra della storia è stato tramutato in un arsenale di pace, perché ci abbiamo creduto e perché abbiamo capito che quella parola non era una parola, ma era la parola. Abbiamo fatto diventare la preghiera un fatto concreto della vita, un fatto che è diventato il nostro respiro, che è diventato l’incontro di Gesù presente nella nostra vita, la spiritualità della presenza; l’arsenale tramutato in un arsenale di pace, in un luogo di contemplazione ha fatto capire alla gente che noi potevamo sfidare l’impossibile.

Così è cominciata l’avventura. Un malato di AIDS ci ha detto: "ho pochi giorni di vita, posso venire da voi?" Noi l’abbiamo preso, ed è risorto, perché gli abbiamo fatto venire la voglia di vivere. Sono venuti dei banditi che avevano ucciso persone su persone e hanno capito che non scherzavamo: non abbiamo mai parlato loro di Gesù, ma l’hanno visto vivere in noi e la loro storia vecchia è diventata una storia nuova.

Ogni volta che un pugno di cristiani, di uomini di buona volontà crede veramente a questa trascendenza, si entra in una dimensione diversa. Però per entrare in questa dimensione diversa l’uomo e la donna che incontrano questa dimensione non devono più appartenere a se stessi: il proprio tempo non esiste più, la propria intelligenza non esiste più se non per essere investita per gli altri, i propri soldi non esistono più se non per gli altri. Da piccolo gruppo partito 33 anni fa, abbiamo potuto fare 1200 progetti di sviluppo in tutto il mondo, aiutati da oltre tre milioni di azionisti che hanno creduto in questa trascendenza, hanno creduto che ci credevamo sulla nostra pelle, hanno creduto al nostro silenzio, al silenzio dei fatti, hanno creduto che noi abbiamo detto un sì totale senza condizione con l’anima: solo se si dice un sì con l’anima il sì è vero e la gente lo riconosce. In queste occasioni credenti e non credenti non esistono più, esiste solo un incontro tra uomini, e quando gli uomini si incontrano riconoscono nell’altro e nell’altra un qualcosa di diverso, se quella donna e quell’uomo hanno qualcosa di diverso nella propria vita. Da quel momento abbiamo potuto chiedere a chiunque, uomo, donna, mafioso, malato di AIDS..., di venire da noi se deciso a uscire dalla sua situazione. L’arsenale della pace è entrato in un respiro diverso: di questo arsenale c’è bisogno a New York, a Roma, in tutte le città violente del mondo.

Abbiamo dei sogni - chi non ha dei sogni pensa già di avere concluso la propria vita, pensa già di avere fatto qualche cosa -: il primo è costruire una scuola di economia. Perché dal tempo dei romani a oggi l’economia è sempre stata al servizio dei ricchi? I poveri sono sempre più poveri, i ricchi sono sempre più ricchi. Per questo cerchiamo delle ragazze e dei ragazzi che vogliano veramente entrare nell’economia, e inventare dei nuovi sistemi, come le ronde notturne, gli "oratori notturni" (ragazze e ragazzi che di notte vanno in giro per la città per aiutare ragazze e ragazzi che possono essere presi dal male: se a Torino avessimo avuto uno di questi oratori notturni qualcuno avrebbe dato una mano al marocchino che invece è morto), o una scuola per genitori gestita dai figli (oggi la famiglia va veramente male, perché non è stata preparata: vogliamo aiutare i figli a diventare maestri di vita per i loro genitori).

Un altro grande sogno è che ci fosse una scuola per santi, una scuola di ragazze e ragazzi che vogliono diventar santi. Soltanto diventando santi, diventando buoni come un pezzo di pane, possiamo farci capire da questo mondo che è confuso, questo mondo che non sa veramente da dove viene e dove vuole andare perché è stato inchiodato dai mali che hanno un nome estremamente preciso. Oggi solo la bontà può disarmare il male che c’è intorno a noi: non c’è bisogno di inventare una nuova ideologia, c’è bisogno di ragazze e ragazzi e che vogliono diventare buoni come un pezzo di pane, che possono diventar santi. C’è bisogno di ragazzi che hanno cambiato il loro tempo, questo tempo difficilissimo: ma più è difficile il tempo, e più è di Dio. Questo lo può capire chi ha Dio dentro le vene, chi ha Dio dentro il proprio corpo.

Il mondo cambia, il mondo è già cambiato se un piccolo gruppo come il nostro a Torino nasce e si sviluppa per aiutare realmente milioni e milioni di persone nel silenzio, nella fatica; abbiamo scoperto l’impegno di ventiquattro ore su ventiquattro, il cristiano non può che essere cristiano ventiquattro ore su ventiquattro, se non lo è gli manca un qualcosa. A volte siamo avvelenati perché abbiamo dentro di noi l’odio, il rancore, e quando c’è il rancore dentro di noi, diventiamo degli avvelenati, come una goccia di veleno in una bottiglia o in una grande botte, che basta a rendere tutto avvelenato.

Noi cristiani non siamo meglio degli altri, però abbiamo Colui che ci ha salvato, Colui che ci indica la via, Colui che ha parole di vita eterna. Queste parole dobbiamo viverle veramente: dobbiamo avere la certezza che le porte del male non prevarranno, e dobbiamo vivere queste certezze con gli incerti, con gli affamati, con gli sfortunati, con quelli senza casa. La carità è l’anima del cristiano come si dovrebbe capire da questo Meeting, è l’anima dell’uomo moderno, è l’anima dell’uomo che si china sui più sfortunati. Siamo in una società dove noi abbiamo troppo e siamo contornati da società di uomini e popoli che hanno quasi niente: dobbiamo aiutare i popoli ricchi a entrare nell’economia dell’Eucarestia, nell’economia del metter insieme. Chi ha tanto deve mettere a disposizione degli altri: il povero non lo si aiuta con uno stato sociale che lo lascia povero, lo stato sociale deve farsi aiutare dall’anima della gente perché il povero possa uscire, dove possibile, dalla sua povertà.

Tutto questo noi cristiani possiamo farlo soltanto se siamo accompagnati costantemente dalla preghiera: se la preghiera non ci accompagna è tutto vano, se la preghiera non diventa un fatto per la nostra vita noi non riusciamo ad essere lievito.

 

 

Cova: Non posso che procedere per cenni a questa grande esperienza di democrazia sociale che è la storia del movimento cattolico in Italia e anche fuori d’Italia. Una grande esperienza di democrazia sociale che secondo me dovrebbe innanzitutto stimolarci e sorreggerci nel proseguimento di questa esperienza, e dovrebbe dare la forza di rivendicare un ordinamento, un quadro normativo volto a sostenere più che a deprimere le esperienze del sociale. Infine, riflettere su questa esperienza dovrebbe portare al superamento dei pregiudizi ideologici che da sempre o da quasi sempre o da molto tempo hanno accompagnato le esperienze che sono presenti oggi. Ogni volta che si discute di qualche cosa, la scuola si atteggia come se le scuole cattoliche fossero un centro di formazione alla delinquenza organizzata e non un luogo di educazione. Sicuramente il superamento dei pregiudizi ideologici è solo un fatto culturale e quindi occorre molta pazienza e tenacia per assumerlo come obiettivo e cercare di realizzarlo.

L’esperienza del movimento cattolico è un’esperienza dal basso, che è cambiata con il cambiare delle forme, in relazione al mutare dei bisogni. Gli ambiti di intervento sono stati molteplici, non posso che sinteticamente elencarli: dall’assistenza ospedaliera del primo millennio - si dice che a Lucca nel 720 esistessero già delle istituzioni per il ricovero dei pellegrini, a Milano si parla nel 784 di un ricovero per i bambini orfani, e nel corso del tempo a documentare questa attenzione per i problemi della società abbiamo avuto lo sviluppo dei Monti di Pietà ad esempio a metà del ’400 - alla cooperazione nell’800, dalla scuola e la cultura - non soltanto quella superiore e ad alto livello, le università, ma anche quella presente nelle comunità rurali - alla formazione professionale - che nasce quando si pone il problema, con la rivoluzione industriale, dell’innovazione tecnica, che richiede dunque una formazione specifica -. Ancora: la tutela del lavoro dipendente, e dunque le leghe bianche di fine Ottocento, il sindacato nuovo degli anni cinquanta del Novecento; la tutela del lavoro all’interno della vecchia corporazione; il sostegno alla piccola impresa, specialmente contadina, con lo sviluppo della cooperazione.

Questo complesso di esperienze ampie e precoci certamente anticipa lo Stato: lo Stato viene dopo, viene circa nel secolo XVIII, e come conseguenza inizia a manifestarsi una tensione fra le opere sociali delle associazioni private, dei gruppi che si mettono insieme per risolvere i problemi, e uno Stato che diventa sempre più pretenzioso, che vorrebbe non soltanto regolare la materia, ma addirittura gestirla direttamente.

Per il nostro paese questo è un punto doloroso perché le discussioni sulle opere cattoliche sono confluite nel quadro più complessivo della crisi o del conflitto tra Stato e Chiesa, diventando esse stesse un elemento di questo conflitto. Infatti la legge Crispi del 1890 sulle opere pie ha questa forte valenza: il tentativo di sradicamento della presenza della Chiesa nel sociale. Nell’Italia di fine ’800 le istituzioni sociali erano 22000, distribuite in 33 settori diversi di attività, dagli ospedali alle scuole e ad altri organismi di questo tipo, esclusa la cooperazione che si svilupperà di lì a poco. Questa esperienza sociale è accompagnata da una forte elaborazione culturale, perché ad esempio quando si parla dei Monti di Pietà c’è lo sviluppo di una discussione sulla rigidità del prestito ad interesse, quando si parla del sindacato nuovo c’è un’elaborazione intesa a sostenere questo nuovo modello, c’è tutta l’azione di Toniolo, tutta la grande stagione del movimento cattolico di fine Ottocento. C’è anche un elevato grado di competenza: queste strutture che operano nel sociale non sono fatte di persone di buona volontà o inesperte, ci sono dei modelli organizzativi piuttosto complessi, degli schemi interni di funzioni che richiedono una grandissima capacità di conoscenza e una grandissima competenza professionale in senso stretto.

Infine - ed è in realtà l’elemento principale - in questa esperienza del sociale è costantemente presente l’ispirazione religiosa: questo spiega anche la capacità di trovare forme nuove di presenza in relazione al mutamento della realtà esterna. Per tutti i secoli di questa esperienza il vangelo della carità ha reso questi protagonisti sensibili, attenti alla realtà che stava mutando, e nell’Ottocento, quando si inaugura la grande stagione del magistero sociale della Chiesa a partire dalla Rerum Novarum, è il magistero sociale che fa da punto di riferimento, da guida.

A tutto questo insieme di motivazioni dobbiamo fare riferimento, e se vogliamo, come vogliamo, mantenere questo ruolo dell’esperienza sociale cattolica nel futuro, queste grandi esperienze storiche ci dovrebbero sollecitare, sostenere la nostra volontà di agire e di svolgere, come è stato svolta e come si svolge tuttora, una presenza significativa nella società italiana contemporanea.

 

 

Billia: Vorrei spiegare sinteticamente e mediante alcune cifre cos’è il welfare state, lo stato sociale, e qual è il rapporto tra stato sociale e solidarietà.

Quali sono le sfide che oggi lo stato sociale deve vincere? I suoi nuovi tipi di sfide dipendono dal capitalismo, che oggi lo Stato si trova di fronte. Il primo capitalismo era il laissez faire, finito nell’orgia del ’29, con il passaggio allo Stato - per quanto riguarda l’Italia - delle aziende private, e la logica filosofia che da qui è iniziata: socializzare le perdite e privatizzare gli utili.

Il secondo capitalismo è quello sorto dopo la guerra: la spinta alla lotta di classe, i cicli economici. L’esperienza del primo capitalismo ha portato al modello keynesiano, basato non soltanto su una politica di investimenti, ma sul tenere in piedi la domanda, i consumi, anche quando si finisce la vita lavorativa. Da qui, lo sviluppo anche burocratico di enti, per segmenti, per categorie, la giungla retributiva e le premesse per la giungla pensionistica. Il mondo di fatto era immobile: non c’erano crisi, tutto si sviluppava.

Il terzo capitalismo è quello legato alla globalizzazione, alle tecnologie, al tempo reale: le grandi aziende e le grandi multinazionali imparano a sburocratizzare, a rendere più rapido il processo decisionale. Fa molta tenerezza sentire che ci mettiamo tanti anni a dare autonomia alla scuola, quando l’IBM ha preso una grande azienda di 400.000 dipendenti, l’ha spaccata in mille aziende, ha tagliato il personale del 50%, ha dato autonomia, ha dato decentramento. Il modello di oggi è piccolo, in rete, decentrato, con autonomia: questo modello è il via alla competizione globale. Il decentramento viene fatto perché rende, perché fa soldi: bisogna subito cominciare a capirlo. Ma la competizione non è solo questo.

Competizione globale infatti vuol dire concorrenza delle merci dei paesi poveri e prodotti con salari di fame; globalizzazione vuol dire tendenza di un capitalismo globale a delocalizzare impianti in aree a basso costo il lavoro. Vuol dire cominciare a mettere in crisi la rete di produzione sociale dei sistemi nazionali in Europa. Vuol dire affrontare un problema di disoccupazione strutturale che oggi è la palla al piede della nuova economia. Le innovazioni tecnologiche che risparmiano il lavoro si possono incrociare con la concorrenza a basso costo del lavoro: di conseguenza, vi sono grandi rischi di degrado civile con la subordinazione del sociale all’economico se nella ridistribuzione della divisione internazionale del lavoro il miglioramento dei paesi poveri corrisponde a un peggioramento più che proporzionale dei paesi ricchi. Se è così, il nuovo capitalismo torna ai valori del primo capitalismo, laissez faire. Abbiamo il rischio mondiale di un capitalismo che sta determinando nei paesi ricchi pressioni verso il basso dei salari e ancor più degli oneri sociali necessari per tenere in piedi la rete di produzione dei lavoratori alla fine della loro carriera, quando hanno creato la ricchezza, gli investimenti, e il sociale.

Il rischio è che la competizione internazionale selvaggia porti non tanto alla ricchezza dei paesi in via di sviluppo, ma all’estensione di un malessere sociale dai paesi poveri ai paesi ricchi. Per questo occorre una visione internazionale, perché il divario fra il costo globale del lavoro, compreso lo stato sociale, nelle diverse aree del mondo, distorce la concorrenza. Questo terzo capitalismo abbandonato a se stesso non riesce a recuperare la carenza di livello sociale dei lavoratori, e la globalizzazione senza regole rischia di ridurre fortemente la rete di garanzie sociali, la solidarietà, la vita civile.

Cosa è avvenuto in Italia? In Italia è vero che lo stato sociale spende molto di più rispetto ad altri paesi? La risposta è no. Noi come stato sociale spendiamo meno, quattro o cinque punti meno degli altri paesi. È vero nel contempo che noi spendiamo in più in pensioni. In Italia lo stato sociale è partito molto tardi: nel 1941 la copertura della tutela pensionistica riguardava l’1.6%; nel 1951 il 4.2; siamo arrivati al 1995 con il 26.4%, e non è soltanto frutto dell’invecchiamento della popolazione, perché se analizziamo la storia delle coperture sociali di questo paese non c’è certamente da essere orgogliosi: la copertura sociale ai coltivatori esiste solo dal ’57, agli artigiani dal ’59, ai commercianti dal ’66.

Perché spendiamo di più in pensioni mentre gli altri spendono di più nello stato sociale? Perché nella realtà la protezione pensionistica è servita a fare altre cose, che negli altri paesi son ben più specializzate: è servita a scelte politiche e scelte strategiche, per cui il deficit INPS - provocatoriamente - non è un deficit monetario, è un deficit di ritardato intervento politico in aree di crisi nel nostro paese.

Maternità, famiglia e alloggio: in Germania si spende il 2.4% del PIL, in Francia il 3.7, in Italia lo 0.9.

Collocamento e disoccupazione: in Germania il 2.7, in Francia il 2.4, in Italia 0.6.

Sono questi i punti per i quali all’estero si spende di più: quello che oggi è un sistema pensionistico nella realtà è stato un sistema assistenziale.

Italia 1950: grosso modo il 45% dei lavoratori era nel settore nell’agricoltura, oggi vi è il 7%, 2.000.000 di pensionati e 700.000 lavoratori, 700.000 lavoratori pagano circa 2.000 miliardi di contributi. I 2.000.000 di pensionati costano 14.000 miliardi l’anno. Chi paga la differenza? Paga l’INPS. Ma è solidarietà globale? O soltanto solidarietà fra lavoratori?

Un altro problema è il rapporto tra Nord e Sud e l’industrializzazione. Mentre nel paese si verificava la migrazione dall’agricoltura all’industria, il Sud è rimasto al palo: si sono distribuite le pensioni di invalidità, che per legge erano pensioni di invalidità per incapacità di guadagno, non di lavoro, di guadagno. Questo vuol dire che si poteva andare in pensione dopo cinque anni di contributi, poiché c’era fortissima disoccupazione. Quante ne sono state date di queste pensioni? Cinque milioni. Quante ce ne sono ancora? Tre milioni e mezzo. Questo che c’entra con la previdenza? Non è forse un intervento sostitutivo del salario, non è forse un problema di assistenza? C’entra con la previdenza perché in realtà queste somme sono state prelevate direttamente dal costo del lavoro, e nella realtà la solidarietà è stata fatta direttamente da lavoratori ad altri lavoratori. Non si è affrontato un problema fondamentale, che è il collegamento tra prelievo contributivo e prelievo fiscale.

Questo è il punto di fondo, e la conseguenza è che nella realtà sono vere entrambe le cose: è vero che mancano i soldi per tenere in piedi una rete sociale, ma è altrettanto vero che il prelievo contributivo e fiscale sul costo del lavoro è più alto in Italia che non in tutte le altre parti del lavoro. Questa è la drammatica verità del nostro sistema.

Il sistema previdenziale ha fatto anche altre cose, perché non c’era soltanto la crisi dell’industrializzazione, ma anche problemi come lo shock petrolifero, la sburocratizzazione dovuta alle telecomunicazioni, il discorso degli esuberi. Allora si sono inventati i prepensionamenti. L’INPS paga 400.000 lavoratori prepensionati, nell’illusione che uscendo si crei qualche posto di lavoro sostituendo a un pensionato, un giovane. 400.000 prepensionamenti, 40.000 miliardi di fatto di spesa, che devono gravare tutti quanti sul lavoro dipendente e sull’INPS. Non poteva invece essere fatto un ragionamento di fondo per capire come cambiare, come strutturare in modo diverso l’organizzazione del lavoro?

Lo stesso problema riguarda gli esuberi, la riduzione del lavoro dipendente, che negli Stati Uniti è al 23%, in Italia è ancora al 32%. Ma questi esuberi non sono esclusivamente nel settore pubblico: anche i privati ci presentano un conto, come quello degli esuberi bancari e le situazioni di intervento che si chiamano bad bank, che di fatto significa aver perso 12000 miliardi nel Banco di Napoli.

Qual è il livello di coesione che noi vogliamo creare? Noi avremo un grande incremento di domanda di beni pubblici. Si vive più a lungo e questa scoperta, questa fortuna viene vissuta in termini drammatici, in termini di rischio, in termini di nuove povertà. Noi sappiamo perfettamente che lo stato non ce la fa dappertutto, il modello keynesiano è entrato in crisi ovunque, anche nei rapporti fra le nazioni. Il modello imprenditivo crea lavoro o no? Anche qui, sono vere entrambe le cose. Bisogna lavorare più a lungo, però è anche vero che c’è disoccupazione. Se tutti quanti vogliono lavorare più a lungo, c’è lavoro sufficiente in questo paese per tenere in piedi la massa salariale e per poi da quella prelevare i contributi per pagare le pensioni? Noi stiamo pagando 21 milioni di pensioni in tutta Italia e la spesa annua è di 285000 miliardi. Stiamo parlando di un qualcosa che è molto vicino a un 15% del prodotto interno lordo.

Qual è il futuro? Dovremmo avere uno Stato ridotto, lo Stato non può più pensare a tutto. Si passa dallo Stato delle garanzie allo Stato delle responsabilità. Il problema di questo paese è che non abbiamo uno Stato efficiente, che fa fare le gare tramite la Nasa, che fa ricerca, e in questo Stato abbiamo perso anche le partecipazioni statali, per incapacità intellettuale e incapacità morale. Se lo Stato si ritira, se non ci sono le garanzie (o agenzie?) dello Stato, se lo Stato non entra, solo il privato è la risposta? Certo: ma solo per chi ha soldi.

Vorrei anche lanciare una sfida a tutti voi. Le vostre prime esperienze, le vostre cooperative, i vostri interventi nell’economia, le vostre difficoltà come soci lavoratori che dovreste pagare un contributo - ad esempio come artigiani - che la legge vi deve far pagare come lavoratori dipendenti, devono essere denunciate. È una situazione allucinante, assurda: questo paese ha cercato di lanciare l’industria nel Sud dando miliardi, decine di miliardi di sgravi sul costo del lavoro nel Sud, ma i risultati sono cenere. Poche aziende. Trasferimenti di impianti nel Sud, magari di macchine vecchie, sgravi, ma senza occupazione. La sfida è allora questa: è pensabile che il volontariato diventi impresa? È pensabile che il volontariato possa essere un soggetto economico, non soltanto per avere facilitazioni fiscali, ma il punto cardine, la riduzione di un costo del lavoro, trasparente, in modo tale che il volontariato possa competere nella domanda forte dei servizi sociali, della sanità, dell’assistenza, della scuola? Occorrerebbero sgravi che non siano pasticciati, una riduzione del costo del lavoro che non sia un modo diverso per ricreare nuove clientele o per ricreare economie distorte. Ed è proprio nel paese del capitalismo che dovremmo andare a studiare il ruolo del terzo settore, del non profit, del volontariato organizzato come impresa. Negli Stati Uniti infatti il non profit occupa diverse quote parti, diverse percentuali del lavoro dipendente.

Il sistema sociale è destinato ad essere uno dei punti cardini nel nostro paese; oggi dobbiamo ancora superare una forte diffidenza diffusa verso forme imprenditoriali che utilizzano forze di lavoro in una logica di non distribuire i dividendi, ma di investire per meglio servire. Ma questo è un salto culturale che questo paese deve fare. Abbiamo provato con le partecipazioni statali, col mercato, con gli sgravi, e nulla sembra funzionare: proviamo a copiare il terzo settore dagli Stati Uniti, cominciamo a creare qualcosa di nuovo nel nostro paese. Non è soltanto un volontariato per occupare, per dare dei servizi che lo Stato non potrà più dare e che i privati certamente non hanno interesse a dare. La sfida che noi avremo in questi anni sarà molto dura: affronteremo ancora una lunga disoccupazione strutturale, e avremo una forte espulsione da ferrovie, poste, banche.

Il problema vero dunque non sono tanto le pensioni, ma qual è il progetto e il modello di sviluppo di questo paese, quali sono le strategie fiscali e contributive con cui noi lanciamo un modello diverso di produzione, di servizio, di presenza sul mercato. Abbiamo tanti gap: un gap di debito pubblico, un gap di pubblica amministrazione inefficiente che si dovrà sburocratizzare ed anche entrare in concorrenza sia col privato che col volontariato, un gap di economia sommersa. Non possiamo recuperare questi tre gap, creando un nuovo gap di solidarietà all’interno di questo paese, perché questa sarebbe la rovina di quel processo di sviluppo che noi dobbiamo creare per vincere insieme le nostre sfide.

L’impresa del volontariato che io auspico ha qualcosa in più nel suo potenziale: non soltanto l’efficacia, non soltanto l’efficienza, non soltanto i costi, ma, come diceva Olivero, quel sogno, quella speranza, quell’ideale per dimostrare che si può essere imprenditori del sociale, dare servizi di qualità e al di là di questo soprattutto vedere l’anima.

 

 

Roversi Monaco: Il discorso "più società e meno Stato" non è certo cominciato oggi, e certamente richiederà notevoli sforzi, notevoli attività per potersi tradurre in atto. Ci sono dei grandi problemi di ingegneria costituzionale, problemi istituzionali sui quali i mass media, i giornali, le forze politiche si intrattengono da parecchi anni, almeno una quindicina, in modo molto sostenuto. Non affronterò queste tematiche; vorrei invece dire qualche cosa di significativo su quello che manca.

Dei grandi problemi istituzionali - le camere, il capo del governo, la forma di Stato, il federalismo... - tutti parlano, però delle tematiche riguardanti la società, e quindi i cittadini, ben pochi hanno parlato. E il discorso "più società e meno Stato" dal quale sono partito, merita invece alcune puntualizzazioni anche per cercare di capire come la situazione si sia venuta a delineare nel tempo.

Lo Stato ottocentesco di tipo francese, lo Stato che nelle sue caratteristiche fondamentali esiste tuttora, con tutte le deformazioni che ci sono state, con tutte le problematiche che non sono state risolte, era uno Stato che vedeva al potere una unica classe sociale, anche sulla base del fatto che il suffragio universale non esisteva. L’avvento dello Stato che potremmo definire pluriclasse, quello che vede rappresentanti di altre classi entrare a far parte della stanza del potere, assumere funzioni nel Parlamento, nei comuni, nell’apparato statale, porta ad una deformazione che si manifesta molto rapidamente: quella per cui i nuovi rappresentanti sono espressione di interessi che debbono penetrare fortemente nell’attività dello Stato, nei suoi fini fondamentali. Questo vale soprattutto per le tematiche di carattere sociale delle quali si ha molto presto una visione molto omologata.

Un atteggiamento del genere contiene anche una parte rilevante di verità; è giusto ad esempio che se la classe operaia acquisisce via via un maggior peso si occupi fondamentalmente delle problematiche relative al salario, al pensionamento, alla previdenza e così via. Ma c’è un prezzo che è stato pagato, alla fine dell’Ottocento e successivamente: l’esclusione dei privati e delle strutture associative, che in moltissime circostanze avevano largamente anticipato lo stato nel definire bisogni, finalità di carattere collettivo che erano meritevoli di tutela. Dal fatto che a un certo punto le nuove forze sociali messe al governo dello Stato intendono far valere gli interessi di cui sono portatori, si arriva al non necessario corollario che lo Stato è la misura di tutto ciò che è pubblico. E che lo Stato è la misura di tutto ciò che è pubblico significa che lo Stato coincide con la tutela di interessi collettivi, la tutela dei bisogni.

Questo aspetto diventa dominante con il fascismo: il partito diventa il luogo di sintesi di tutte le esigenze, e siccome trasferisce allo Stato la necessità di ampliare queste esigenze, questi interessi, il partito è padrone e dello Stato e delle strutture complesse che in quell’epoca furono create. La storia degli enti costituiti durante il periodo corporativo non è ancora stata fatta fino in fondo, ma sicuramente, per i giovani studiosi, rappresenta un campo sul quale si potrebbero impegnare e dal quale potrebbero trarre una serie di conseguenze rilevanti.

Sennonché, in questo procedimento c’è un punto che non viene considerato: l’entrata in vigore della Costituzione che implica sia nella sua formazione che nelle lotte che hanno accompagnato la sua adozione, una maggiore presenza della società. Si passa invece ad una visione in cui lo Stato seguita ad essere dominio di strutture organizzate, politiche o sindacali. Lo Stato pluriclasse diventa Stato dei partiti e dei sindacati, e questi soggetti sono i naturali intermediari nei rapporti tra il cittadino e lo Stato.

Questo è in profonda antitesi con un articolo della Costituzione, che in un comma - su cui c’è stato un dibattito larghissimo nella Costituente - afferma in modo consapevole, tecnicamente perfetto, non riducibile, il ruolo delle formazioni sociali. È l’articolo 2 della Costituzione in base al quale è consentita la libertà di formazione dell’individuo sia in quanto singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. È un discorso sintetico, che apre un campo immenso, ed infatti l’articolo 2 fu accolto come una grande innovazione. Ed era proprio così: nello Stato liberale, qualsiasi struttura si ponesse come intermediaria tra il cittadino e lo Stato non era vista di buon occhio, basti vedere il regime del riconoscimento delle associazioni con persone giuridiche del codice.

L’articolo 2 della Costituzione è l’articolo che giustifica e fonda la grande importanza dei partiti, che giustifica e fonda la grande importanza dei sindacati, gli uni e gli altri richiamati in altri articoli della Costituzione, è anche l’articolo che pone la premessa al riconoscimento delle autonomie locali. Dall’interpretazione dell’articolo, interpretazione mirata, resta invece fuori quel pluralismo istituzionale della società che sarebbe dovuta essere l’elemento più significativo della innovazione introdotta in termini così sintetici ma così chiari dalla Costituzione. È curioso che questa sia stata l’interpretazione data all’articolo 2 della Costituzione per tanto tempo senza che si sia manifestata una resistenza significativa.

Nel tempo, questo tipo di interpretazione ha rappresentato il cemento che ha coagulato attorno ai partiti e ai sindacati, qualsiasi rappresentanza effettiva degli interessi esistenti nella società, anche di quelli tutelati talvolta per secoli da comunità minori con efficacia infinitamente maggiore. Qui l’analisi per quanto breve, deve tener conto di un fatto: molti, troppi nell’ambito proprio delle comunità intermedie, hanno colto il lato vantaggioso che si veniva a delineare, ed è caduta in parte la pulsione ideale che sosteneva molte di queste strutture, perché era più comodo far riferimento ai contributi dello Stato. E le strutture del pluralismo, in alcuni casi, le strutture destinate ad assistere, ad aiutare i singoli, sono diventate strutture assistite dallo Stato. Consideriamo quello che è successo negli anni anche più recenti: non c’era uomo politico di vaglia che non avesse nel suo carnet anche il compito fondamentale di tutelare una determinata struttura associativa, e se non c’era veniva costituita. Questo ha coinvolto, con ogni probabilità, più strutture con altre caratterizzazioni che non quelle cattoliche, che rispetto a tutte le altre hanno una matrice unica e ideale che le faceva e le fa molto meno legate al contingente.

Questo credo che debba essere detto per evitare nel futuro di ricadere in errori ed in difficoltà di questo genere, e quindi per evitare che si torni nuovamente ad esprimere anche in questo campo una sorta di cultura della delega o di appoggio esterno ad altre strutture politiche o ad altre strutture fortemente connotate ideologicamente. Ritengo che venga meno in questo caso, ogni spirito di reale intrapresa, poiché è chiaramente snaturante concepire la comunità intermedia, la formazione sociale, non tanto come volta a perseguire concretamente dei fini di carattere collettivo altruistico, ma come struttura destinata ad inserirsi in un circuito e in un gioco complessivo per poter diventare influente, ricevere mezzi e influenzare a sua volta.

Torniamo ancora a guardare al passato per lanciare per l’avvenire. Come già diceva Cova, istruzione, formazione professionale, assistenza e tutela della salute, l’università stessa, mutue, assicurazioni, cooperative, tutte queste cose sono nate nel tempo, prima ancora che lo Stato scoprisse che erano finalità di uno Stato moderno. Lo Stato le ha assunte, senza neanche ringraziare. Per realizzazioni di grandissimo rilievo nel campo dell’assistenza medica, per esempio, i cosiddetti rappresentanti originali degli enti hanno avuto come compenso dell’ideale che nei secoli i loro predecessori e loro avevano perseguito, un posto o due nei consigli di amministrazione: questo è un esempio chiarissimo del modo con cui lo Stato ha considerato questa situazione. E ne è nata una obiettiva operazione di corruzione, corruzione in senso istituzionale, poiché molte delle strutture hanno perso di vista la loro posizione, la loro funzione nella società, e molte delle istituzioni statali, gli enti cosiddetti parastatali - espressione tecnicamente non esatta ma epidermicamente chiara - hanno basato la loro attività, le loro funzioni su una visione di questo genere.

Questa visione è ancora abbastanza presente nel mondo politico attuale. C’è a mio parere un collegamento tra questo tipo di impostazione e chi vuole a tutti i costi accentrata in Roma, non la funzione di governo soltanto, ma tutte le funzioni di governo, tutte le funzioni che devono portare la gestione ordinaria e straordinaria di uno Stato con una pluralità di fini così importanti. Per questo nel momento in cui si parla della necessità di modificare la Costituzione, di dare una caratterizzazione delle istituzioni statali, il non tener conto di una problematica di questo genere diventa a mio parere estremamente riduttivo, anche perché ci si muove qui nell’ambito di attività che danno concreta soddisfazione all’interesse dei cittadini, nel campo dell’amministrazione, non nel campo delle teorizzazioni. Sono iniziative che devono aiutare il cittadino sia dal punto di vista materiale che da quello morale. Leggendo rapidamente il lavoro della Bicamerale, non ho purtroppo trovato ispirazioni di nessun tipo a riguardo di questioni così importante.

Consideriamo ad esempio la sanità. Nel corso di questi ultimi decenni è sicuramente migliorata, perché è migliorata la tecnica - tecniche e terapie che peraltro il nostro paese acquista come se fossero un prodotto da un grandi magazzino da altre nazioni, perché non ha più nulla o pochissimo da offrire in campo internazionale a questo riguardo -: ma quale è stato il costo dal punto di vista del trattamento del malato, dal punto di vista delle finanze statali, dal punto di vista delle corruzioni istituzionali? Gli stessi problemi interessano anche università. L’università ha avuto una maggiore autonomia nel 1991-1993, però questa maggiore autonomia dispiace in parte sia a coloro che l’hanno attribuita, nel timore che si crei una separatezza, e anche a una parte di coloro che potrebbero esseri utenti di questa autonomia, perché la cultura del riferimento di chi a un certo punto pareggia tutti i conti non è certo una cultura che sia morta.

Sul problema del non profit, accenno a una cosa che io non condivido: il recentissimo provvedimento sul non profit, per cui le Casse di Risparmio e le fondazioni sono state esplicitamente eliminate dal settore non profit. C’è una volontà politica molto chiara in questo: prima si diceva che ne erano esclusi gli enti pubblici, e c’era una ragione concettuale, poi con il discorso della privatizzazione che Dini ha portato avanti quando era ministro del tesoro, si è visto che questo non bastava e quindi sono state nominativamente indicate anche queste altre associazioni.

Dal punto di vista istituzionale, si apre un campo che è di grandissimo rilievo per una rinnovata iniziativa di tipo pluralista che non ha bisogno di inventare grandissime cose, perché nel corso dei secoli quelle che sono le esigenze fondamentali dell’individuo sono state largamente e variamente tratteggiate: le tecnologie per soddisfarle sono ora diverse, ma c’è una realtà con profondissime radici da recuperare. C’è la necessità che non ci sia da parte dello Stato che in molti casi ha dimostrato di non essere in grado di occuparsi di tutto, la volontà di estendere su tutto la propria pertinenza. Occorre che lo Stato riconosca mediante atti conclusivi, legislativi ed indirizzi del governo, che non è vero che la misura di tutto ciò che è pubblico è dello Stato, se per pubblico si intende di interesse collettivo o se si intendono attività svolte per consentire ai cittadini di stare meglio: non è affatto vero che lo Stato sia la sintesi di tutto ciò che è pubblico, come ci dice l’articolo 2 della Costituzione.

 

 

Dini: L’Italia, come altri paesi, ha in questi anni riesaminato la propria collocazione internazionale, alla luce soprattutto dei radicali mutamenti intervenuti a partire dalla fine della guerra fredda. Questo processo si è tradotto nell’apporto che abbiamo voluto e saputo dare all’adeguamento delle grandi istituzioni delle quali l’Italia è partecipe. Non soltanto le Nazioni Unite, ma anche il Gruppo dei Paesi più industrializzati, l’Unione Europea, l’Alleanza Atlantica. Queste istituzioni sono infatti strumenti indispensabili per una pacifica ed ordinata transizione dal mondo di ieri a quello di oggi e per la gestione delle crisi maggiori presenti o future.

Nel contribuire a ridisegnare le principali istituzioni - basti pensare al duplice allargamento dell’Unione Europea e della Nato - l’Italia ha voluto e saputo proporre un bagaglio di idee, di suggerimenti concreti che sono stati da tutti apprezzati ed ampiamente riconosciuti. Lo abbiamo fatto sorretti dalla vasta base di consenso che sempre accompagna nel nostro paese le scelte di politica estera, ma anche ispirandoci, pur nella difesa di interessi specifici nazionali, ad una serie di principi e di valori che soli sono in grado di conferire continuità e coerenza all’azione esterna. Valori che sono patrimonio della nostra tradizione, sono iscritti nella Costituzione della Repubblica, costituiscono elemento di aggregazione della nostra società e guida nei suoi rapporti con il resto del mondo.

Dovrei dunque, per definire meglio la nostra collocazione internazionale, passare in rassegna il nostro contributo e la nostra posizione nelle istituzioni alle quali sono affidate stabilità, benessere, pace nel mondo contemporaneo. Ritengo tuttavia, in questa cornice particolare, di dovermi soffermare in modo specifico sulla nostra collocazione nel processo di costruzione europea. Poiché esso meglio riassume il complesso di valori e principi che ci sostengono e soprattutto perché esso coinvolge in modo particolare attese e responsabilità della più giovane generazione.

A volte l’Europa può sembrare distante dai giovani, attenta soltanto agli equilibri dei mercati, delle monete, al rigore dei bilanci, alla forza schiacciante degli interessi economici, alla efficenza silenziosa ed impolitica delle banche. Dobbiamo decidere quale Europa perseguire alle soglie del terzo millennio dell’era cristiana. Intorno all’Europa si confrontano infatti le visioni non sempre convergenti dei governi. Alcuni sono tentati di ricondurre gradualmente l’idea d’Europa al solo grande mercato. Altri invece, e noi siamo tra questi, pur riconoscendo il ruolo centrale del mercato e della moneta, vedono nell’integrazione europea anche uno strumento di libertà e di coesione.

Occorre confrontarsi con la poca fede degli uni e la mala fede degli altri, non restare sospesi tra stanchezza e speranza. La nostra concezione dell’Europa si basa su una serie di principi e di valori che spetta poi alla politica, con i suoi inevitabili compromessi, tradurre in regole ed istituzioni. Perché la politica stessa sia, come ricordava un maestro cattolico, Carlo Arturo Jemolo, "un continuo risolvere in termine di azione un problema morale". Così la vollero i padri fondatori, non a caso animati da una profonda fede religiosa, De Gasperi, Schuman, Adenauer. A quelle radici dobbiamo restare fedeli, con tutti gli ovvi adeguamenti imposti da una realtà oggi così diversa, radici pensate in uno dei momenti più bui della storia d’Europa. Sono soprattutto i giovani a riconoscersi nell’Europa. Ad essi dobbiamo proporre una idea dell’Europa che sia in linea con le loro aspirazioni, con i loro valori, con la loro vita interiore.

Siamo alla vigilia di un allargamento senza precedenti dell’Unione Europea, per ricomprendervi finalmente paesi che la guerra fredda aveva separato dal disegno iniziale. Paesi nei quali, tra l’altro, proprio la fede religiosa era stata, negli anni del totalitarismo, l’elemento di continuità e di comune appartenenza che ne aveva alimentato la resistenza alla dittatura.

Tanto più dobbiamo allora avere in mente che mercato e moneta sono soltanto strumenti di un modello di società. Società che deve perseguire - come recita il trattato - uno "sviluppo equilibrato ed armonioso, un alto livello di occupazione e di protezione sociale, la coesione sociale ed economica, la solidarietà, la tutela dell’ambiente".

L’Europa è infatti una risposta all’economia globale, per concorrere con essa ma anche per preservare i caratteri distintivi di un modello, da non sacrificare alle forze impersonali del mercato su scala planetaria. Anche se il mondo esige mutazioni al modo di lavorare, di formarsi per professioni sempre più mutevoli, di ridefinire gli oneri delle generazioni che si succedono, l’Unione Europea non impone un darwinismo senza regole, basato sulla legge del più forte.

I caratteri distintivi dell’Europa che ci stanno più a cuore possono essere riassunti in tanti modi. Io lo farò attraverso il modello di un’Europa della libertà, della solidarietà, della pace, della comune identità.

Europa della libertà – Europa della libertà significa innanzitutto libertà di movimento attraverso il continente, il ritorno in qualche modo a quella res publica christiana nella quale ci si spostava da un luogo all’altro senza barriere. Grazie all’Europa sarà considerato inammissibile anche solo dover dichiarare la propria identità al passaggio in ognuna delle frontiere interne dell’Unione. La libera circolazione ha tardato a realizzarsi. Con il trattato di Amsterdam, troverà piena applicazione, pur con l’eccezione concessa a Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca. L’Italia, aderendo al sistema di Schengen, ha appena completato le condizioni di carattere tecnico, giuridico, amministrativo per essere parte di queste libertà.

La libertà interna non può essere disgiunta da un controllo più rigoroso delle frontiere dell’unione. Su tutto il primo mondo incombe un disordine demografico a livello globale. I flussi migratori hanno ormai raggiunto una intensità senza precedenti, con una mobilità che ripete, in forma discontinua e clandestina, le grandi migrazioni del passato. Abbiamo bisogno di una politica dell’emigrazione chiara e ferma, che regoli questo fenomeno senza razzismi o demagogie populiste, senza retoriche terzomondiste o durezze nazionaliste. Anche a questo l’Europa deve dare una risposta, poiché con il trattato di Amsterdam ha inserito l’immigrazione fra le sue nuove competenze. Una politica dell’emigrazione che, pur con tutte le specificità nazionali, abbia anche una dimensione comune che ci liberi dei ghetti, che d’altra parte insegni ai nuovi venuti l’arte difficile del dovere e della responsabilità.

Europa delle libertà significa anche compatibilità di sistemi giuridici, al fine di adeguarli ad un ambiente nel quale ci si trasferisce continuamente, si moltiplicano le relazioni personali tra i cittadini dell’uno e dell’altro paese, l’esercizio di professioni in luoghi di libera scelta. Queste libertà esigono una enorme, spesso poco visibile, armonizzazione di regole e sistemi giuridici. Anche ad essa il trattato di Amsterdam conferisce nuovo impulso.

Europa delle libertà significa infine tutela dei diritti dell’uomo, garanzia di ogni cittadino innanzitutto dinnanzi al proprio governo. Anche su questo abbiamo fatto passi in avanti sino a sancire, nel nuovo trattato, il congelamento della partecipazione all’Unione di quei governi che si rendessero responsabili di una grave violazione delle libertà individuali fondamentali.

Europa della solidarietà – Non possiamo costruire l’Europa sulla permanente emarginazione dei suoi cittadini più deboli, in modo particolare dei giovani, pianificando per loro un futuro senza lavoro. Nessuna società, ha ricordato Giovanni Paolo II, "può accettare la miseria come una fatalità senza che il suo onore ne venga colpito". Dopo Amsterdam l’Europa è meno arida, più sensibile alle ragioni dei più deboli, "ai feriti dalla vita", per citare ancora le parole del pontefice. Vorrei ricordare ad esempio, la non discriminazione nei confronti dei portatori di handicap che il nuovo trattato ha iscritto secondo un impulso anche italiano, tra i suoi principi fondamentali. Se ignorassimo questo imperativo, verremmo meno a quel modello distintivo di società europea che appunto è nei trattati. Ciò non significa che non debba essere rivisto lo stato sociale, lo stato del benessere. Ma anche l’Unione Europea deve farsi carico dell’occupazione, concorrere a governare l’economia globale e non a subirla. Nel nuovo trattato, ed anche qui siamo stati tra i promotori, è stato inserito un titolo aggiuntivo, subito dopo quello sulla moneta, per predisporre strumenti e risorse in grado di orientare prioritariamente gli sforzi dell’Unione verso la creazione di posti di lavoro. Inoltre all’occupazione sarà dedicato un Consiglio europeo straordinario, a novembre in Lussemburgo, dal quale ci aspettiamo risposte concrete. Alla loro elaborazione il governo intende concorrere, anche sulla base di una stretta consultazione con le forze sociali.

Europa della pace – La pace è stata certo uno dei valori che hanno ispirato la costruzione europea, in un continente uscito dal più terribile olocausto della sua storia. Ciò significa conferire all’Unione la capacità di imporre la pace, non solo di invocarla, di essere, per usare le parole di Giovanni Paolo II alle Giornate mondiali della Gioventù, "artigiani audaci di riconciliazione e di pace". Invece è sempre in agguato la tentazione dell’innocenza e dell’irresponsabilità, l’illusione della indifferenza, dell’immunità, di una neutralità sapientemente diplomatica in un mondo senza fronti né frontiere.

Imporre la pace significa dotarsi di strumenti e procedure per agire con autorevolezza ed unitariamente sulla scena internazionale, impiegando se necessario anche la forza. Questo è il senso di una delle battaglie che l’Italia conduce da anni, insieme ad altri ma non sempre alla maggioranza dei proprio partners, per dotare l’Unione Europea di una politica estera di sicurezza ed anche di una difesa comune. In altri termini per creare istituzioni di governo efficaci ed adeguate all’Unione allargata del XXI secolo. I risultati sono stati sinora insufficienti. Non per questo, anzi ancor più in ragione di tali carenze, dovremo continuare ad operarci perché il concetto di Europa si identifichi credibilmente con quello della pace.

 

 

 

 

Europa della comune identità – Identità significa riscoprire le comuni radici, così spesso anche radici religiose, nelle quali tanta parte spetta anche alla tradizione cristiana. In questo contesto si iscrive l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione con alcuni paesi, a partire dal gennaio prossimo. Ciò comporterà una ridistribuzione di risorse, un adeguamento delle istituzioni, con sacrifici per tutti. Il negoziato si annuncia aspro e difficile. Sin da ora abbiamo proposto di non introdurre nuove preclusioni, che renderebbero ancor più difficile il compito di governi intenti non solo alla ricostruzione di sterili industrie, strade dissestate, paesaggi inquinati, ma anche alla rieducazione di società che la dittatura aveva diseducato, demoralizzato, declassato.

A quest’altra Europa che ha abbandonato i suoi falsi idoli, occorre offrire nuovi ancoraggi. Quest’anno avete scelto per il vostro Meeting una frase di Dostoevskij. Vorrei allora aggiungere che, sempre secondo Dostoevskij "non basta confutare una idea che sembra meravigliosa, occorre sostituirla con un’altra altrettanto forte ed affascinante". Per i paesi dell’Est europeo l’Unione Europea è questa idea.

Comune identità significa anche porre l’accento sulla cultura, a nostro avviso ancora insufficientemente gestita nel quadro europeo, per rendere ancor più robusta la circolazione di idee e di persone. L’identità culturale costituisce lo strato più profondo della costruzione europea. Non a caso sulla moneta unica verranno riprodotti vari momenti dell’architettura europea, il gotico, il barocco, che in qualche modo scandiscano i tempi di una storia comune. Ci batteremo per rafforzare i programmi culturali dell’Unione Europea e migliorare le procedure per la loro approvazione, che toccano così da vicino i giovani, perché anche qui il trattato è rimasto al di qua delle nostre attese.

Queste convergenze più vaste a livello continentale, intese a riunire popoli diversi, a condividere le stesse regole ed abitudini civili, rendono, ci sembra, ancor meno comprensibili i movimenti secessionisti. Essi sono una risposta sbagliata, non europea, al malessere e alle carenze innegabili dello Stato moderno, decostruiscono invece che costruire, ripropongono una proliferazione di muri e di tribù all’Europa che se ne è appena liberata.

Questi sono dunque i caratteri dell’Europa (libertà, solidarietà, pace, comune identità) per i quali l’Italia continuerà a confrontarsi con i propri partners. La costruzione europea non si esaurisce nello spazio di una legislatura, di una coalizione di governo. È un’opera di generazioni e non a caso viene talvolta confrontata con l’edificazione delle grandi cattedrali del Medioevo cristiano. Basti pensare alla moneta, della quale si cominciò a ragionare in termini concreti oltre venti anni fa e che solo oggi sta per venire alla luce.

Questo allora vorrei che fosse il messaggio diretto ai giovani così impegnati nella società civile per orientarla secondo i valori cristiani. I giovani sono, non a caso, gli europeisti più convinti, i depositari di una cultura capace di coinvolgere e di convincere chi è sospeso tra incertezze di un futuro che non si riesce ancora a edificare e certezze che si allontanano inesorabilmente. Nei giovani vediamo i fautori di una Europa nella quale l’uomo abbia priorità sul mercato, la concorrenza serva anche a legittimare la solidarietà, la ricchezza contribuisca a ridurre e non ad accrescere le distanze fra gli individui ed i popoli.

Questi valori, che sono tra l’altro contenuti nell’enciclica "Gaudium ed Spes", sono anche i valori di una Europa correttamente intesa, per la quale si batte l’Italia, il suo governo fiducioso del vostro sostegno. Alla vostra capacità di persuadere, guidare, credere, è sospesa la possibilità di convertire il sapere in fare e la coscienza in azione.

 

 

Vittadini: Vorrei concludere questo incontro con una breve sintesi sia dell’incontro di oggi sia dell’intero ciclo di incontri Difendiamo il futuro che si sono tenuti durante questo Meeting.

Abbiamo riaffermato che l’io è il protagonista, non l’organizzazione, non la burocrazia, l’io, un io che è associato, che costruisce associazioni, che secondo certe identità si mette insieme, un io storicamente rilevante.

In questo termine c’è anche l’anomalia italiana: la capacità di costruire a partire dall’io e dal mettersi insieme. L’Italia non sarà mai un paese di capitalismo selvaggio finché questa capacità di costruzione dal basso sarà preservata. L’Italia non è un Paese di istituzione, di capitalismo ma anzitutto è un paese dove la piccola impresa, la cooperazione, le associazioni hanno dato risposta ai bisogni.

Parliamo di lotta allo statalismo e diciamo che non sarà un ministero a dare la libertà proprio perché lo Stato è venuto dopo la società, e quindi lo Stato deve riconoscere qualcosa, non autorizzare, lo Stato deve dare la possibilità del pluralismo.

Noi non siamo per la privatizzazione selvaggia. Come è stato detto anche oggi, non vogliamo passare dallo Stato a dei prìncipi, non vogliamo né monopoli statali né oligopoli privati, vogliamo che la privatizzazione che ci serve per sopravvivere sia una privatizzazione che tenga conto di queste realtà, che ricominci a rivalorizzare la piccola e la media impresa, la cooperazione, la realtà sindacale quando non sono strapotere o allineamento come cinghia di trasmissione. Vogliamo che ci sia privatizzazione per valorizzare questa società, perché senza società - 13 milioni di dipendenti su 22 sono occupati in piccole imprese sotto i 15 dipendenti - saremmo già alla fame, saremmo già stati distrutti dalle disfunzioni, anche oggi ricordate, di uno statalismo portato avanti da gente che avrebbe dovuto avere una cultura cristiana ed umana ma in cui invece questa cultura aveva perso un’identità.

Oggi vogliamo ribadire con forza questi punti: anzitutto, è necessaria la valorizzazione di questi soggetti, dar loro la possibilità di creare lavoro, di concepire uno stato sociale come tutela e valorizzazione e non come sostituzione o assistenzialismo. In secondo luogo, nella lotta allo Stato padrone, noi vediamo la possibilità di una riforma dello Stato, una riforma che nasca dal tipo di cultura che abbiamo sentito oggi, e che purtroppo la Bicamerale rischia di non considerare assolutamente. Se ci si distanzia da queste esperienze, se si parte come unica soggettività da soggetti che non comprendono anche questa realtà di base - come abbiamo sentito nell’intervento di Roversi Monaco - si perde cultura, si pensa, come pensano purtroppo certe volte anche i mass media, che lo sputo di un capo valga di più di migliaia di persone che costruiscono.

Quello che si capisce quando una realtà come la nostra lavora con la Lega delle Cooperative, con la Cisl, con gli artigiani, con gli industriali, con soggetti che hanno un’altra storia, laica, è che è naturale che realtà di base si mettano insieme per dar risposte ai bisogni. È questo ciò a cui bisogna tornare, è questo il nuovo, è questa la terza repubblica a cui vogliamo aspirare. Non nuovi poteri, ma il riaprirsi della società in aggregazioni strane che neanche si capiscono, che ci si chiede perché esistono, ma di fatto esistono. Ed è meglio un fatto che un’illazione.

Questa capacità di mettersi insieme, questa valorizzazione dei politici, questa non demonizzazione della politica, ma questa valorizzazione dei politici che dialogano con la società, questo credito che diamo, questa tolleranza totale di posizioni pur molto diverse dalle nostre, questo noi chiamiamo ecumenismo. Su questo noi ci basiamo.

Per questo non è strano che una concezione di Europa come quella di cui ci ha parlato il ministro Dini, sia la nostra concezione di Europa, una concezione basata sulla libertà, la solidarietà, la pace, la comune identità. Un’Europa non mercantile, anche se fatta anche di mercanti che abbiano questa idea. Dobbiamo ricordare che l’Europa cristiana e civile l’hanno fatta i santi e i mercanti. Ma i mercanti che avevano questa stessa nostra posizione culturale, questa apertura al mondo, questo essere in tutte le nazioni, questo sentire questa radice comune, cristiana ed umana.

Questa internazionalità noi vogliamo perseguire: così si capisce perché abbiamo detto, e lo diciamo anche sotto questa dimensione sociale e politica, che vediamo la realtà positiva: perché sapremmo scommettere fino all’ultima unghia, anche di fronte all’ultimo tentativo di omogeneizzazione culturale o di quasi regime.