Ascoltiamo Sarajevo

Racconto di una città in guerra attraverso immagini e testimonianze.

In collaborazione con il Settimanale VITA

Giovedì 24, ore 18.30

Relatori:
Kyara Van Ellinkhuizen
Milenco Prstojevic
Emil Grebenar
Federico Bugno
Malik Kulenovic'
Zora Nilic, Badec
Nervina Corovic
Vinko Puljic'
Muhaned Kresevlakovic'
Roberto Formigoni
Antonella Gesulfo
Giorgio Vittadini

Moderatore:
Riccardo Bonacina

 

 

Bonacina: Il Meeting 1995 e il settimanale Vita hanno promosso questo gesto, che si intitola, "Ascoltiamo Sarajevo". Ascolteremo tanti cittadini di Sarajevo, sentiremo la voce che abbiamo registrato ieri del suo Vescovo, il Cardinale Vinco Puljic'. Ci chiederanno delle cose, cercheremo di capire. Questo è un gesto di incontro: le opinioni hanno fatto tanti morti quanti i cecchini; questa, invece, è una serata di incontri.

Van Ellinkhuizen: Quando si va a Sarajevo, non si può evitare di tornare senza portarsi dietro un pezzo di questa città. È quello che è capitato a me. Io ormai mi sento cittadina di Sarajevo a tutti gli effetti. Andando nella città assediata, ho trovato che la situazione di vita dei cittadini è ben diversa dalle cronache a effetto che ci vengono propinate tutti giorni dai media, dalla televisione, che fanno comunque sicuramente il loro dovere di informazione. Abbiamo pensato, insieme ad altri amici di Sarajevo, artisti, di raccogliere materiale che rappresentasse veramente l'anima di Sarajevo, cercando di mostrarla al mondo.

Proprio per mostrare questa altra faccia di Sarajevo, sono stati realizzati alcuni video, il cui contenuto vi esporrò brevemente. Uno narra dell'amore, l'amore di un padre per i suoi figli, un amore tale da far sì che questo papà inventi delle cose incredibili e si sacrifichi in un modo eccezionale pur di far vedere la televisione ai bambini. Un altro video narra sempre dell'amore dei grandi per i piccoli: alcuni giovani hanno lavorato ben due giorni a portare avanti e indietro acqua pur di creare una pozzanghera di felicità per questi bimbi di Sarajevo, accaldati da una estate torrida, dove non era assolutamente possibile uscire o andare al mare. Un altro ancora racconta di una bambina che scrive a degli amichetti sconosciuti. Lei è rimasta sola, non può uscire di casa perché cadono le bombe, nella casa in cui vive non ci sono altri bambini e quindi si inventa degli amici di penna, degli amici che non esistono realmente, ma che per lei rappresentano l'unico contatto con dei bimbi della sua età. Un ultimo video evidenzia l'amore per l'arte. Dovete sapere che a Sarajevo, ogni giorno si inaugura una mostra, ogni giorno si cerca di varare qualche progetto per qualche nuova rivista che magari non uscirà mai perché manca carta, manca inchiostro e così via. L'arte è un modo per sopravvivere all'assedio. Però in questo caso, il video è un pezzo di back-stage, dell'unico film in pellicola che è stato girato a Sarajevo durante l'assedio e che non è mai stato ultimato. Noi vedremo un personaggio reale nei panni di se stesso: un anziano collezionista d'arte che ha perso tutto: i suoi quadri sono distrutti, è morta sua moglie, si ritrova a cantare con un canto dolcissimo e disperato, nel bel mezzo della biblioteca di Sarajevo. Quest'uomo adesso non c'è più, non c'è più non per le granate, ma a causa della guerra, per gli stenti e l'inverno troppo duro di Sarajevo.

Bugno: Vi leggerò una poesia di Abdul Asidram, intitolata "Il cieco canta alla sua città". Se voi chiedete a qualcuno a Sarajevo chi è Adbul Asidram, scoprirete subito che, insieme con un altro poeta e scrittore, Marco Desciovic', è l'uomo più amato dalla città. Egli è un grande poeta. Dire che è un grande poeta sarajevese o bosniaco sarebbe riduttivo. Egli è un grande poeta e basta, un grande poeta per tutto l'universo.

Tutte le mattine, ai soldati che stanno in prima linea, al fronte, portano "Slobojenie" che è il giornale, l'unico giornale che è uscito tutti i giorni durante la guerra a Sarajevo. Ebbene, i soldati, quando arriva il fattorino con i giornali, chiedono immediatamente: "C'è una poesia di Asidram, c'è un articolo di Desciovic'? Se sì, dammelo subito, altrimenti lascialo lì". Questo per dirvi quanto amore suscita Abdul Asidram in questa città. Per chi volesse saperne di più, ricordo che Abdul Asidram è lo sceneggiatore dei due primi film di Emil Kusturitza: "Papà è in viaggio d'affari" e "Ti ricordi di Doly Bell".

Ecco la poesia: "È passata la pioggia. / Ora dai canali, dai soffitti e da sotto i pavimenti / delle consunte case di periferia / viene la puzza delle carogne di topo. / Cammino, senza cercare in ciò un senso particolare. / Sono cieco, e mi è dato di vedere / solo quello che gli altri non vedono. / A questo modo viene risarcita la mia carenza! / Riconosco nel vento del Sud che mi sfiora, / le voci di quelli che hanno abbandonato questa città. / È come se stessero piangendo. / Nelle vicinanze, ecco, profuma il tiglio. / Lo so, qui vicino c'è il ponte / e passandoci sopra risuoneranno diversamente / il passo ed il bastone, con più luce nel suono. / Poi, qui accanto al mio orecchio, / per un attimo si accoppiano due mosche. / Tornerà a far caldo. / Mi sfiorano dei corpi, caldi, / con l'odore del letto, / col profumo della libidine. / Cammino parlando con Dio, / come se anch'egli camminasse al mio fianco. / C'è forse qualcuno che conosce meglio di me questa città? / Di me, Signore, / al quale hai dato di non vedere mai quella che ama".

Grebenar: Volevo solo fare un saluto e dire due cose. Anzitutto: quando sono arrivato in Italia, non parlavo la lingua italiana, l'ho imparato in questi quattro mesi; in secondo luogo, volevo spiegare perché questa è una storia di amori e come si ama una città. Il mio amico poeta scrittore ha scritto questa poesia, un altro mio amico ha fatto film; io sono fotoreporter e ho fatto tante foto sulla nostra tragedia, 12.000, quante sono le persone morte a Sarajevo, strana coincidenza-. Questi morti sono civili, la cui colpa è solo di essere nati in questa città e di vivere in questo momento in questa città. Non hanno nessun'altra colpa. E sono tanti i dolori, veramente. Io però ho perduto le lacrime, perché tante volte sono andato al cimitero, e lì ho visto per l'ultima volta molti miei amici. In questo momento, non ci sono lacrime, ma io piango nel cuore. Se c'è in questo mondo cuore, io prego nel mio nome e nel nome di tutti gli abitanti di Sarajevo: aiutateci.

Kulenovic': Sono qui per parlare della Bosnia. Prima di partire per Rimini avevo preparato un discorso su Sarajevo e sul suo assedio che dura già da quattro anni. Ora, ho abbandonato l'intenzione di rubare il vostro prezioso tempo: né io, né alcun altro ha il diritto di rubare il vostro tempo, la vostra libertà. Purtroppo la gente di Sarajevo, gli abitanti della città dei giochi olimpici, con spirito internazionale, non hanno questa libertà da quattro anni. Le oscure forze del male hanno messo loro le catene della schiavitù. La gente è cambiata, anche la città sta cambiando. Gli anziani sono rimasti lì, e i giovani sono andati migliaia di chilometri lontano. Quelli rimasti sotto il peso delle taniche camminano con le braccia allungate, tanti senza una gamba, ad alcuni le granate hanno addirittura tolto il diritto di camminare. I loro colli sono un po' più lunghi dei vostri: stanno cercando di andare oltre l'assedio dell'odio. E con lo sguardo cercano di avvisare, voi e l'Europa, di essere pronti per il tempo che sta arrivando. State attenti alla libertà! State attenti al terrorismo e alla punizione del Signore. Proteggetevi dalla fattoria di Orwell e dal cerchio di Sarajevo.

Vorrei infine ringraziarvi per averci dato la possibilità di essere qui insieme, come in una Sarajevo in piccolo.

Nilic: Questa per me è una visita di sorpresa; solo questa mattina ho saputo della vostra manifestazione, e ieri sono arrivato a Rimini per puro caso, perché una mia amica, un'architetta di Sarajevo, ha una mostra proprio qui a Rimini, sulla distruzione dei vecchi palazzi di Sarajevo; prima di tutto, vorrei proprio invitare tutti voi a venire a vedere questa mostra.

Adesso che sono qui, l'unica cosa che posso dirvi è che tre giorni fa, a Sarajevo, si è verificata la stessa cosa del 92: lo studio 99, una radio indipendente, ha riaperto e documenta di nuovo la vita comune, la multicultura, senza badare alla nazionalità, senza guardare la religione. A Sarajevo c'è ancora lo spirito che esisteva 800 anni fa, lo stesso spirito che vuole l'Europa unita, ma purtroppo i politici europei non capiscono che dividere la Bosnia significa dividere l'Europa.

Corovic: All'inizio, pensavo di parlare dei nostri medici, che hanno fatto tanto, delle nostre infermiere, dei nostri fisioterapisti, della nostra gente. Invece ho pensato di parlare dell'amore, ed io ho due, tre piccole storielle verificatesi nei miei ospedali, nell'ospedale Dobrinia, e nell'ospedale in centro città di Sarajevo: tutte e tre descrivono l'amore a Sarajevo. La prima riguarda due, fidanzati fin da quando erano fanciulli, che si sono sposati a Sarajevo nel dicembre 1992; i terroristi cetnici serbi hanno ucciso lui nel centro città, con una granata; nello stesso giorno, lei ha saputo dal medico di essere incinta. Maida — questo è il nome della donna — è bellissima, giovane, lavora in ospedale, cura i feriti, e cura anche suo figlio Damir, che ha un anno e mezzo: ma lei lo guarda con gli occhi di una donna innamorata, sembra che negli occhi di suo figlio veda suo marito Slatco.

Ecco la seconda storia. Una bella coppia di fidanzati correva per le strade di Sarajevo per andare al lavoro. Una granata buttata dalle montagne dalla parte dei terroristi cetnici serbi li ha gravemente feriti; lei è rimasta senza la gamba, lui correva il rischio di restare senza entrambe. Erano ricoverati in diversi ospedali a Sarajevo, così li abbiamo trasferiti in un unico ospedale: volevano sposarsi, e infatti il giorno del matrimonio era festa nella cantina dell'ospedale: loro sdraiati a letto, noi intorno a loro, il nostro console che si trova qui ne è testimone. Così, si sono sposati nell'ospedale, e adesso hanno anche due figli.

Ora racconto l'ultima storia. Riguarda due persone che si sono fidanzati nei primi giorni dell'aggressione della Bosnia Erzegovina. I cecchini terroristi cetnici serbi, dalle montagne sopra Sarajevo, hanno ucciso lui mentre ritornava a casa dopo aver comprato l'abito da sposo, proprio vicino al negozio. Al cimitero, c'era lui nella tomba in abito da sposo, lei a fianco della tomba in abito da sposa: lei lo guardava e lo vedeva cadavere, vedeva l'amore. Noi eravamo testimoni che loro si sono sposati: la festa del matrimonio si festeggiava al cimitero, piangendo.

Ed ora, un'ultima cosa. Qualche giorno fa mi hanno telefonato i miei colleghi dall'ospedale, da Sarajevo, dicendomi: "Nina per favore, mandaci un po' di cibo, di cose che occorrono per l'ospedale, perché in questo momento siamo senza niente". Sono stata tre anni e tre mesi, proprio dentro a Sarajevo, e so cosa serve per Sarajevo, so cosa occorre per l'ospedale di Sarajevo: sarei molto contenta se qualcuno mi domandasse cosa ci serve per Sarajevo, per gli ospedali e per i feriti degli ospedali di Sarajevo.

Pulic: Vi mando il mio messaggio da Sarajevo, la città che oggi quasi tutto il mondo conosce, purtroppo soltanto per le sofferenze dei suoi cittadini. Dieci anni fa questa città, nei giochi olimpici invernali, radunava tutto il mondo sportivo; oggi è piena di feriti e mutilati, con tanto sangue effuso e tante amare lacrime. In questa capitale della Bosnia Erzegovina, viviamo già 1150 giorni nell'assedio, e siamo in un grande campo di concentramento. In quattro anni di guerra, più di undicimila dei nostri concittadini sono stati uccisi; 1500 erano bambini. I feriti e mutilati, con le terribili conseguenze, sono oltre 50.000. Abbiamo sopravvissuto tre inverni feroci, ma ora siamo in grande angoscia, davanti al quarto che viene. Già da parecchi mesi siamo senz'acqua, tutte le fonti di energia sono escluse, la corrente ed il gas sono soltanto un sogno; quello che abbiamo per mangiare, basta per non morire, ma è molto poco per sopravvivere.

Nonostante tutto ciò, in questa città della morte c'è tanta speranza e tanta voglia di rimanere e di vivere: i ragazzi e le ragazze frequentano le scuole, per non rimanere senza educazione, e proprio loro sono tante volte le vittime degli attacchi. I nostri giovani si oppongono al male e desiderano costruire un nuovo mondo, non sull'odio, ma sulla carità; specialmente la gioventù cattolica, si raduna ogni volta nella preghiera e viene al nostro Duomo per cantare nelle assemblee eucaristiche. Seguono la speranza e non le tenebre, non sono colpevoli per questa guerra, né la desiderano, desiderano vivere.

Tutti sappiamo che il male della guerra ha la sua origine a Belgrado e da lì la guerra fu imposta a tutti i paesi dell'ex Jugoslavia. In questi paesi, eravamo distinti nella religione, nella cultura, nei sentimenti nazionali, eppure abbiamo vissuto sempre insieme, ed è quello che desideriamo continuare anche oggi.

A tutti voi che vivete la vostra gioventù con gioia, che avete la libertà, le condizioni per una vita normale, sottolineo e grido: "Non stancatevi, non cessate di muovere l'opinione pubblica, i vostri politici e responsabili, affinché non scorra più il sangue innocente, sia nel nostro paese che in qualsiasi parte della terra". Vi invito a pregare Dio onnipotente, ad aprire le coscienze e gli occhi dei responsabili di qualsiasi guerra. Noi desideriamo ricostruire la cultura della vita, desideriamo un futuro in cui sia osservata la vita fin dall'inizio, dal concepimento fino alla morte, la vita in cui qualsiasi uomo possa godere dei suoi propri diritti, della dignità, della uguaglianza nonostante le differenze.

Vi invito così ad essere costruttori di un futuro migliore, che si basi sulla fede e sulla carità.

Bugno: Anzitutto, una piccola premessa. Tutti i giorni chiamo gli amici a Sarajevo, per sentire cos'è successo, se qualcuno è stato ferito, di che cosa hanno bisogno. La cosa essenziale di cui hanno bisogno oggi i cittadini di Sarajevo è la legna. In questo momento non si trova, neanche pagandola carissima; nei tre inverni precedenti i cittadini hanno disboscato tutto quello che c'era da disboscare intorno alla città e nella città stessa.

In una di queste telefonate, vengo a sapere che una mia carissima amica era incinta. Questa mia amica è una poetessa, ha scritto libri per bambini, ha scritto delle bellissime poesie che sono state pubblicate, non a Sarajevo perché a Sarajevo è difficile pubblicare — non c'è né carta né inchiostro —, ma a Zagabria. Le ho telefonato per farle gli auguri, per sentire come stava. Il giorno dopo mi è arrivato un fax, con una poesia di un poeta tedesco che ha trascorso qualche tempo a Sarajevo. Solo chi ha passato gli ultimi tre anni a Sarajevo, città che non ha caso è stata chiamata cuore del mondo, sa bene quanta verità sublime sia in questi versi: "Ma dov'è il pericolo cresce ciò che porta a salvezza".

Ma il fax continuava con le parole della mia amica: "Mai in vita mia ho sentito tanto amore come dall'inizio della guerra quando ogni istante poteva essere l'ultimo. Camminavo per Sarajevo come la metà buona del Visconte dimezzato di Italo Calvino, cercando di sanare le conseguenze del male per quanto potevo. Era poco e anche tantissimo, mi svegliavo nelle surreali mattine sarajavesi dopo centinaia di granate e spari, in case di altri, sul letto di altri, ma infinitamente felice perché potevo aprire gli occhi al cielo di Sarajevo, e sentirmi letteralmente innamorata della vita. So che quel sentimento mi ha aiutato a vivere fino ad oggi, mi ha aiutato fisicamente ed anche a livello trascendente: mi ha aiutato a sentire che Dio è vicino e raggiungibile. Ringrazio le forze positive per qualsiasi granello d'amore si possa trovare in questo girone d'inferno in cui la mia bella città è stata trasformata dai mostri. Ringrazio il Signore per non avermi permesso di odiare, anche se potrei farlo a buon diritto. Ringrazio un certo numero di persone di qui e straniere per il loro amore e le vibrazioni positive con le quali ho potuto cucirmi il giubbotto antiprioettile che mi protegge mentre cammino per le vie di Sarajevo. È la mia unica e più grande protezione. Ringrazio madre natura che, nel bel mezzo di questo orrore, mi ha permesso di sentire sotto il cuore una nuova vita: una nuova vita è la promessa che tutto può terminare in amore e non in odio".

Perché ve l'ho letto? Perché credo che così possiate ben comprendere chi come me è andato a Sarajevo tre anni fa, con lo stesso spirito con cui si andava a fare certi servizi — faccio questo mestiere da 33 anni —, e comprendere come a Sarajevo qualcosa sia scattato: Sarajevo è diventato un servizio diverso dagli altri. Ero in piazza Tienammen quando ci sono stai gli scontri che hanno fatto migliaia di morti, ero a Berlino quando hanno aperto il muro, a Praga quando è iniziata la rivoluzione di velluto, a Bucarest durante la sanguinosa rivoluzione del dicembre... ebbene, mai sono stato coinvolto in un servizio come a Sarajevo. Questo perché?

Perché, come si capisce bene da questa lettera, la gente di Sarajevo è stata educata in maniera diversa: a Sarajevo centinaia di anni di convivenza e vicinanza reciproca di culto del buon vicinato, di rispetto dell'altro, con la A maiuscola — queste cose non appartengono al DNA, ma sono frutto soltanto di cultura ed educazione — bene a Sarajevo hanno creato dei cittadini incredibili, delle persone meravigliose.

Vorrei raccontarvi un paio di aneddoti, per cercare di farvi capire che cosa significa essere sarajevesi e vivere a Sarajevo. Sarajevo è una città piena di differenze: ci sono musulmani, cattolici, ortodossi e ognuno di loro ha il suo modo di esprimersi — il suo 'slang' (linguaggio) — di salutare e così via: ebbene, quando due cittadini di Sarajevo non si conoscono e vengono presentati, se non riescono a capirsi, nessuno dei due userà il proprio 'slang', ma cercherà una formula più neutra. Perché? Perché ognuno teme che se salutasse l'altro con il suo 'slang', l'altro potrebbe offendersi, dunque per rispettare l'altro si usa una formula neutra.

Sarajevo è una città — come ho già detto — multiculturale e multireligiosa. Ci sono persone di diverse religioni che hanno convissuto per cinquecento anni, e non si capisce perché non dovrebbero convivere ancora. Nelle case di Sarajevo degli ebrei, degli ortodossi, dei cattolici, ci sono sempre o quasi sempre piatti, pentole, padelle, nei quali non è mai stato né mangiato né cucinato il maiale. Questo perché se domani venisse a pranzo un ospite musulmano, è su quelle pentole e su quei piatti che si cucinerà e si mangierà quello che viene preparato, che non sarà il maiale. Questo è un rispetto incredibile dell'altro: magari quello stesso musulmano è uno che beve, che mangia maiale e prosciutto, però in ogni caso, per rispetto per lui, si usano queste stoviglie e questi piatti.

Credo che questo basti per capire che cosa ha significato per uno come me andare a Sarajevo: ero andato neutrale, pronto a descrivere quello che vedevo, oggi invece sono molto coinvolto nelle vicende di Sarajevo, e credo di aver passato in questa città i più bei giorni della mia vita.

Gesulfo: Parlare a nome delle Nazioni Unite, oggi, non è facile: se siete in Bosnia, vi sparano addosso, se siete da qualche altra parte, magari vi tirano le pietre o le uova marce. È vero che in questo momento le Nazioni Unite si identificano con l'immobilismo, l'incapacità di prendere una decisione, i tentennamenti... però credo che tutti voi — osservatori attenti della realtà, anche quella che ci viene trasmessa dai mezzi di comunicazione — abbiate capito che la parte politica, e conseguentemente militare, delle Nazioni Unite, è legata alla volontà dei governi che fanno parte delle Nazioni Unite, alla loro capacità di prendere o non prendere decisioni, di intervenire o di non intervenire... ma dovete anche sapere che a fianco di questa parte politica c'è anche la parte umanitaria delle Nazioni Unite, che è costituita da un certo numero di organismi di sviluppo, di emergenza, che sono invece molto attivi e operano con grande efficienza. Nella ex-Jugoslavia questi organismi sono presenti, e l'Alto Commissariato per i rifugiati coordina tutti i loro interventi, e coordina anche gli interventi di quel numero immenso di organismi di volontariato — tra cui moltissimi italiani — che sono presenti sul terreno con grande efficacia.

Abbiamo sentito dalle testimonianze la vitalità, la creatività intellettuale di questa città; se essa è potuta rimanere in vita nonostante tutto, è anche per merito dell'Alto Commissariato per i rifugiati e degli altri organismi delle Nazioni Unite che hanno assicurato per tutto questo lungo periodo di assedio la sopravvivenza fisica della città.

Avrete visto sicuramente, in televisione, quei convogli umanitari bloccati, sui quali si spara addosso, ma che, con tenacia e testardaggine continuano a provare ad arrivare nella città: aspettano giorni e giorni, permessi su permessi, e finalmente arrivano. Ma il più incredibile convoglio umanitario è stato il ponte aereo, il più lungo della storia: è stato cominciato nel luglio del '92, ed è stato sospeso — non interrotto — nell'aprile di quest'anno, perché l'aeroporto di Sarajevo è stato chiuso per motivi di sicurezza. Questo ponte aereo ha effettuato oltre 12.000 voli — di recente esclusivamente da Ancona —, con un'infinità di incidenti, di cui il più grave è quello in cui hanno perso la vita quattro italiani su un aereo che è stato abbattuto; 250 e più volte hanno sparato agli aerei. Questo ponte aereo non è stato soltanto il mezzo per trasportare più di 150.000 tonnellate di viveri e di generi di prima necessità, ma è anche stato il legame delle altre città con Sarajevo: ha portato giornalisti — più di 8000 voli di giornalisti — di tutto il mondo, delegazioni straniere, anche culturali, casi urgentissimi di persone che dovevano essere operate o curate in altri ospedali (perché gli ospedali di Sarajevo o di altre città non avevano i mezzi per farlo).

Il ponte aereo è un'opera veramente grandissima, di cui siamo veramente orgogliosi: è un esempio molto concreto e pratico di ciò che le Nazioni Unite sono in grado di fare quando c'è la volontà, quando ci sono i mezzi, le risorse, quando ci sono soprattutto la testardaggine e la tenacia. Quindi vi invito ad avere fiducia anche delle Nazioni Unite, a sostenerle, e a sperare che, prima o poi, tutto questo porti finalmente alla fine dell'assedio.

Formigoni: Dovendo parlare di politica, userò un linguaggio e dirò delle cose diverse da tutti gli altri: la politica di fronte al dramma della Bosnia, della Croazia, della Slovenia, è stata caratterizzata dall'assenza, dal vuoto colpevole, dall'incapacità di dare risposta. Quella che si sta svolgendo nei territori della ex-Jugoslavia e oggi in Bosnia, non è una guerra recente, dura da più di quattro anni: è cominciata nella primavera del '91. Da allora la comunità internazionale è sempre stata assente, ha sempre ignorato il problema: ricordo che nel maggio del '91, quando la guerra era in Slovenia, venne una delegazione ufficiale della futura repubblica di Slovenia al Parlamento Europeo — di cui io allora ero Vicepresidente —: nessuno volle riceverla. La ricevetti io, ma personalmente, senza alcun mandato né da parte del Parlamento Europeo né da parte dei gruppi politici.

Poi è incominciata l'epoca di quello che io chiamo il "fumo negli occhi" della popolazione occidentale, che cominciava ad essere informata dalle televisioni, dalla stampa e andava in qualche modo tranquillizzata: è stata l'epoca dei falsi negoziati, dei falsi negoziatori, tutti di origine britannica, delle false zone protette, delle grandi promesse, a cui sarebbero seguite sempre e costantemente le smentite perché non si è mosso un dito. L'atteggiamento della politica, e in qualche modo l'atteggiamento della comunità internazionale e quindi anche nostro, è stato l'atteggiamento della viltà, perché scendere in campo in Bosnia o nei territori della ex-Jugoslavia significava rischiare, significava e significa inevitabilmente morire. Non sto parlando di una guerra di aggressione, ma di una guerra di difesa, di interposizione, perché quando la guerra è a palmo a palmo, quartiere per quartiere, città per città, casa per casa, inevitabilmente scendere a difendere il diritto dell'uomo è mettere a repentaglio qualcosa di sé.

Questa guerra è stata definita in mille modi: religiosa, etnica... ma, come tutte le guerre del mondo, è semplicemente una guerra di interessi e di interessi forti: economici, strategici... ed è una guerra particolarmente odiosa perché l'obbiettivo di questa guerra è l'annientamento totale dell'avversario. Chi combatte non vuole soltanto vincere, ma anche distruggere e cancellare l'identità dell'avversario: questa è una guerra che ha cancellato l'identità dei popoli, dovunque sia passata. Basta ricordare l'accanimento in Croazia: bisognava distruggere l'identità dell'avversario, e quindi distruggere le biblioteche, le città, le case, i monumenti, annientare le persone. Lo stupro di massa, la deportazione, i lager ci sono stati non per vincere la guerra, ma per distruggere l'avversario. La pulizia etnica non è una conseguenza della guerra, ma l'obbiettivo della guerra stessa: si fa la guerra per spazzare via la memoria di colui col quale una volta si conviveva a fianco a fianco.

È una guerra di interessi forti: è chiaro che sono coinvolti interessi europei e interessi occidentali, e l'obbiettivo è quello di tenere chiuso — chissà ancora per quanti anni — il bacino del Danubio, un'area che in passato è stata un'area importantissima di scambi, di ricchezza, di civiltà, e che oggi si teme potrebbe far concorrenza ad altre aree forti, come quella atlantica o quella renana.

Certamente, qualcuno paga questa guerra: i mezzi profusi sono enormi, e se si fa il confronto tra il prodotto interno lordo delle povere repubbliche ex-Jugoslave e il massiccio dispiegamento di armi costosissime, è evidente che qualcuno paga. Qualche comparto di qualche Stato potente, o qualche settore di qualche potente multinazionale... in ogni caso, c'è l'interesse che questa guerra prosegua. Questa è una delle tipiche guerre il cui obbiettivo è che non finisca mai, che duri il più a lungo possibile. Dal '45 ad oggi, tutte le guerre che si sono succedute avevano come obbiettivo di durare il più a lungo possibile, nel Medio Oriente, in Palestina, in Iraq... La guerra in Jugoslavia non deve finire perché quella regione non può e non deve tornare ad essere cento di civiltà e di costruzione, di commerci, di culto religioso, di convivenza pacifica.

Questa guerra di chiusura coinvolge pesantemente l'Italia, perché l'Italia è chiusa lungo tutto il suo versante orientale, così come lungo il versante meridionale è chiusa — o semichiusa — dalla soluzione ancora non trovata al problema mediorientale. A questa è legato il destino dell'Europa, perché oggi in Bosnia vive la popolazione musulmana più numerosa di tutta l'Europa. In Bosnia convivono — o meglio, convivevano — musulmani, ortodossi, cattolici, e anche ungheresi, slavi e tedeschi, e Sarajevo non era una città divisa in quartieri, l'intreccio era totale, perché l'uomo serbo ha sposato la donna musulmana e la cattolica ha sposato l'ortodosso: convivevano insieme ed era un miracolo di convivenza. Si è voluto distruggere questo, e così si è lanciato un segnale disastroso sul piano della convivenza internazionale.

Che cosa fare? Che cosa può fare una regione italiana o un'amministrazione o un popolo o una nazione? Credo che, senza pretesa di esaustività, si possano indicare alcune cose che si possono e che si debbono fare. La prima è continuare ad andare là, ad ogni livello, umanitario o politico, oppure continuare a far venire qua, mantenere il livello dei rapporti umani, del dialogo, per tenere desta l'umanità. La seconda cosa è un negoziato serio a livello diplomatico.

E c'è anche qualcosa alla nostra portata. Noi vorremmo tentare una offensiva di iniziative negoziali su scala regionale e subregionale, vorremmo vedere se riusciamo a inventare nuove forme di aggregazione, degli incontri, dei convegni, fare incontrare tra di loro operatori economici e imprenditori lombardi, veneti, piemontesi, con dei possibili imprenditori croati, musulmani, bosniaci: si tratta di mettere in piedi una politica di collaborazione per vedere di far nascere nei territori della ex-Jugoslavia delle piccole comunità economiche, politiche, delle piccole unioni europee, delle piccole CEE. Infatti, senza fenomeni di aggregazione politica, economica, sociale di questo tipo, nulla nasce. Possiamo fermare gli intrecci e i conflitti soltanto mettendo in piedi meccanismi nuovi, tentando ciò che non è mai stato tentato, rischiando quello che può sembrare impossibile. Per questo si cercherà di tenere un convegno in una città cosiddetta periferica — Pescara — nel prossimo ottobre. La Lombardia prenderà un'iniziativa sul terreno internazionale, a livello di organizzazioni internazionali: faremo questi convegni e faremo queste iniziative, convinti che quella della Jugoslavia non sia un'eccezione, perché il futuro lungo il quale ci siamo addentrati rischia di presentarci sempre più questi problemi.

Come diceva il Cardinale, non possiamo cessare di combattere e di darci da fare finchè uno solo dei nostri fratelli è in pericolo, in qualunque zona del mondo: guai se la politica si arrestasse, si arrendesse e non si lasciasse interrogare, mettere in discussione, e mettere in crisi di fronte a queste sfide.

Vittadini: Ciò che innanzitutto colpisce è che la tragedia che si svolge a poca distanza da qui sembra lasciare indifferenti, e i giornali stessi hanno scritto e scrivono di questa indifferenza, che riguarda anche noi. Perché siamo indifferenti? Forse perché percepiamo le guerre come un'eccezione, e non capiamo che invece la guerra è la regola: in questo momento in Kazakistan c'è una guerra con 12.000 morti, di cui i giornali non parlano, in Rwanda c'è sempre la guerra, in Asia la guerra rischia di essere la condizione normale della vita... E oltre alle guerre generali c'è la guerra di tutti i giorni, c'è la violenza continua, nelle nostre vite e nelle nostre città: dico questo non per dare un quadro disperato della situazione, ma affinché ci rendiamo conto che la vita è drammatica. Non si può essere superficiali nella vita, non si può vivere tranquillamente ignorando che la condizione umana porta con sé la drammaticità ed anche la violenza. Quindi, il primo e il vero lavoro contro la guerra, è il lavoro di tutti i giorni: la costruzione contro la guerra è l'educazione a una mentalità diversa; senza questa, noi non crediamo né ad organismi internazionali né a nazioni che negoziano.

Quest'educazione a una mentalità diversa, fatta della sensibilità al bello, al vero, al giusto, che si ottiene ascoltando un astrofisico o un poeta, è il nostro contributo: si costruisce la pace costruendo singoli uomini diversi e liberi, perché questi singoli uomini porteranno il peso enorme della violenza, come fu per i monaci nel Medioevo, che fermarono una civiltà violenta. Senza questa mentalità diversa, è tutto un imbroglio, perché abbiamo visto troppi uomini di pace diventare violenti il giorno dopo, troppe rivoluzioni nate per la pace diventare violenza.

Noi siamo stati presenti negli ultimi anni in tutte le emergenze, in tutte le guerre: siamo andati in Kurdistan quando tutti, anche in Parlamento — tranne Formigoni — inneggiavano alla guerra, siamo andati in Rwanda, siamo stati presenti in Jugoslavia a condividere la situazione direttamente, essendo in contatto con quelli che sentivamo gli unici interlocutori che non ci avrebbero imbrogliato, cioè la Chiesa, e questa condivisione per noi è la costruzione di una mentalità. L'intervento che abbiamo fatto in Jugoslavia finora è stato un intervento di sostegno alla vita della gente: abbiamo inventato l'idea delle adozioni a distanza per i bambini, le nostre famiglie hanno adottato 1500 bambini, in Croazia e in Bosnia, con l'idea di sostenere la vita di persone senza sradicarle, di poter far studiare i bambini facendoli vivere lì. Abbiamo mandato sostegni finanziari e sostegni in termini di materiale scolastico, di viveri, di opere sanitarie.

C'è poi l'invio di aiuti alimentari, destinati alle fasce più deboli della popolazione, attraverso il nostro Banco Alimentare, che prende viveri dalle grandi imprese alimentari italiane: abbiamo continuamente mandato viveri rivolgendoci soprattutto alle diocesi, che poi li hanno ridistribuiti. Abbiamo anche cominciato l'invio di attrezzature sanitarie e farmaci, attrezzature sanitarie che in Italia si buttano via.

La nostra azione si sta rivolgendo in particolare alla diocesi di Sarajevo. Sappiamo anche che nella diocesi di Banja Luka c'è una situazione molto drammatica, fino ad ora ignorata da tutti: questa diocesi è uno dei punti dove l'immigrazione forzata — in questo caso di profughi serbi — ha da tempo distrutto la popolazione cattolica. 60.000 persone sono state costrette ad emigrare, su 50 edifici di culto, 43 sono stati distrutti; se una persona può pagare 2.000 marchi, può lasciare la Bosnia e rifugiarsi in Croazia, ma se invece non ha soldi, viene internata in campo di concentramento. L'emigrazione forzata dalla Krajna rende ancora più drammatica questa situazione, per questo il vescovo di Banja Luka ci invita a renderla innanzitutto presente. È un vero e proprio genocidio, un vero e proprio esodo, di cui non si parla; è in atto una persecuzione verso i religiosi, molte suore sono riuscite a fuggire con abiti civili, viene impedita addirittura la sepoltura dei cattolici morti, i corpi vengono eliminati affinché non resti nessun segno, neppure nei cimiteri, della presenza cattolica. Il vescovo, monsignor Komarika, offre la massima solidarietà a tutti i concittadini, sia agli abitanti della regione di Banja Luka, che ai rifugiati. Non vuol lasciare la diocesi, ma ha bisogno di un aiuto.

Banja Luka sarà così il secondo punto di aiuto, oltre a quello della diocesi di Sarajevo: è un segno tragico — di cui nessun altro parla e di cui parliamo noi —, in cui vogliamo incanalare i nostri aiuti. Aiuti che saranno sicuramente aiuti monetari, invio di viveri, e, se sarà possibile, l'invio di persone.