L’innesto nelle proprie radici veicolo per l’introduzione alla realtà.

Esperienze dal Medio Oriente

Lunedì 23, ore 15

Introduzione di

Francesco Ventorino

Relatori:

Halim Noujaim

Samar Sahhar

Francesco Ventorino è docente di filosofia presso lo Studio Teologico "S. Paolo" di Catania.

Ventorino: Diamo inizio a questo seminario su Il rischio educativo che, come molti dei presenti sanno, è una delle prime opere di don Luigi Giussani, nella quale ha tentato di tracciare delle linee educative che, man mano, andavano sperimentandosi nell’esperienza di Gioventù Studentesca che fu l’inizio di quello che dopo è stato il movimento di Comunione e Liberazione.

E’ mio compito introdurre il tema della conversazione: la sottolineatura della necessità di fare riferimento alle proprie radici culturali per lo sviluppo di un’opera educativa. Nel testo citato di don Giussani, Il rischio educativo, viene detto che il metodo di Comunione e Liberazione ha avuto inizio negli anni ‘50. L’Italia era caratterizzata da una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto cattolico, teorico ed etico, mentre a noi che eravamo in contatto con i giovani studenti risultava una situazione di crisi grave, dovuta a diversi fattori. Il primo era una immotivazione ultima della fede, il secondo una scontata inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale e scolastico in particolare, il terzo un clima decisamente generativo di scetticità, che lasciava libero campo all’attacco alla religione da parte di determinati professori.

Nella premessa Giussani scrive: "In una simile situazione sembrava porsi come inevitabile un out-out: o si doveva considerare il cristianesimo come qualcosa che aveva ormai perso ogni forza persuasiva e determinante la vita di un giovane studente, oppure si doveva concludere che il fatto cristiano non veniva presentato ed offerto in modo adeguato"(1). Noi, per l’esperienza che facevamo, non potevamo sopportare la prima ipotesi, come non potevamo accettare che il cristianesimo avesse perso qualsiasi forza persuasiva e determinante la vita, quindi dovevamo concludere che mancava un metodo adeguato. Da qui sono nati i cardini di una intuizione metodologica che Giussani così riassume: "Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, devono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani. Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell’azione, cioè l’evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell’esperienza, nell’esperienza di un bisogno umano, affrontato alla luce della fede all’interno di una partecipazione al fatto cristiano" (ivi). Un bisogno umano affrontato alla luce della fede convince, perché fa fare quella esperienza del centuplo di cui parlavamo fin dall’inizio della nostra storia, quella esperienza delle cento volte di più di verità e di umanità. E’ questa esperienza che persuade e che rende ragionevole l’adesione alla fede, ma questo implica la prova del rischio: non si può accettare la fede senza rischiare la propria libertà dentro questa avventura, che è l’avventura della esperienza della fede nella propria vita.

Dice ancora don Giussani: "Ricordo una significativa affermazione di Von Balthasar: 'Egli – il cristiano – comprende che, per comprendere, deve realizzare le verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà ‘discepolo’. Egli si impegna, si affida al ‘cammino’'. D’altra parte, senza affrontare la prova del rischio, educatore ed educando partirebbero entrambi da una finzione" (p. 13).

Questa è la premessa per spiegare agli amici invitati l’inizio della nostra storia e le intuizioni fondamentali che ci hanno guidato fin dal principio dell’esperienza di Gioventù Studentesca, che – come già ricordato – è divenuta poi Comunione e Liberazione.

Una definizione di educazione, quella di Jungman, ci è stata particolarmente cara fin dall’inizio: "educazione significherà infatti lo sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di queste strutture con tutta la realtà" (pp. 39-40). Quindi, un’educazione deve riguardare tutto l’uomo e tutta la realtà: educare non è altro che introdurre tutto l’uomo nella totalità della realtà. Questo realismo pedagogico sottende l’affermazione di un significato della realtà, perché introdurre nella totalità della realtà significa introdurre nel significato totale della realtà. Si tratta dunque di introdurre l’adolescente nel significato di sé e della realtà che lo circonda.

Mi sembra che questa concezione sia attualissima, perché oggi più che mai si fronteggiano due concezioni dell’uomo. La prima vede nell’uomo una capacità cognitiva, volitiva che ha come fondamento una struttura di significati e di evidenze originarie per la quale la persona è capace di un paragone con se stessa, con tutta la realtà, un paragone inesauribile, perché è una lotta senza fine con il mistero. L’altra considera l’uomo come un insieme di comportamenti, da ricercare, instaurare, incoraggiare, rinforzare, tutti riducibili ad una definizione operativa, almeno dal punto di vista della possibilità teorica. A queste due concezioni dell’uomo corrispondono due dimensioni della conoscenza: quella critica e quella pratica. Se queste due concezioni si fronteggiano e si esaspera la visione pratica della conoscenza, nasce una concezione operativistica dell’uomo e in Occidente, corriamo proprio questo rischio. Educare significa insegnare a fare, insegnare a compiere bene alcune operazioni di cui la società ha poi bisogno: solo così è possibile il gusto e il valore di una formazione critica della personalità(2).

Educazione come introduzione nella realtà totale esige nell’educatore una passione per la verità e per la certezza della verità. In un clima culturale in cui il dubbio eretto a sistema strappa l’uomo dalla realtà, giustifica il disimpegno della sua ragione e inevitabilmente lo consegna nella mani di chi ha il potere, l’educatore è tale se è seminatore di certezza, perché a questa naturalmente tende la ragione umana, di questa gode e a questa esige di essere educata progressivamente, perché senza certezza non si costruisce nulla di umano. Mi piace citare qui Chesterton, il quale nella prefazione ad alcuni saggi umoristici, tradotti in italiano con il titolo Il bello del brutto, immagina la lapidazione di un profeta preistorico, compiuta in una di quelle valli "disseminate di rocce e macigni sparsi, così enormi da assomigliare a montagne che si sono sparpagliate". Questi macigni sarebbero stati usati come ciottoli per la lapidazione di questo profeta imponente e gigantesco. E per quale ragione sarebbe stato lapidato? Ecco come risponde Chesterton: "Se pesiamo la questione sull’infallibile bilancia dell’immaginazione, se consideriamo qual è la vera tendenza dell’umanità, ci sembrerà assai probabile che lo abbiano lapidato per aver detto che l’erba era verde e che gli uccelli cantavano in primavera; sin dai primordi, infatti, la missione dei profeti non è stata quella di richiamare l’attenzione sul Paradiso o sull’Inferno, bensì di occuparsi soprattutto della terra"(3). In quella profezia contraddetta e spenta con la violenza, c’è tutto il bisogno che a mano a mano che la storia si svolge, si acuisce nel cuore dell’uomo il bisogno della certezza. E oggi, più che mai, ci vogliono dei profeti, degli uomini strani che ricordino il vero, cioè che l’erba è verde e che gli uccelli cantano in primavera. La domanda sulla verità, infatti, e sulla possibilità della sua conoscenza non finirà mai di inquietare l’uomo. Comunque si risponda ad essa, nessuno potrà mai negare la sua "naturalità" e quindi l’insopprimibile esigenza ed urgenza della ragione, che continuamente la rigenera. Anche quando sembra che si viva una rassegnata disperazione di poter rispondere positivamente a questa domanda, non si può mai distruggere la domanda stessa e nemmeno si potrà sopprimere la segreta attesa di una rivelazione, come ben dimostra questa testimonianza poetica di Montale: "Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo della verità"(4).

Sottolinea in più luoghi S. Tommaso d’Aquino l’impossibilità che risulti "inane desiderium naturae". Su questa fiducia nella natura, e, perciò, nella ragione, era fondata tutta una civiltà in cui l’essere in quanto tale veniva concepito come vero e buono. Un desiderio naturale nasce da una presenza che è già una promessa di compimento. Essa è l’atto costitutivo dell’essere, che ne misura e ne garantisce le capacità: "A ciascuna potenza attiva corrisponde la possibilità del proprio oggetto per la stessa ragione di quell’atto su cui è fondata la potenza attiva"(5). Altrimenti bisognerebbe concludere che l’essere è assurdo, cioè una presenza senza ragione e che la ragione dell’uomo è, per dirla con Sartre, "una passione inutile". Ma allora perché c’è?

E’ vero che oggi si tende a ridurre questa esigenza di verità dentro i confini di una "certezza scientifica". Ma, a parte il fatto che chi nega la possiilità della conoscenza della verità nega anche alla scienza la possibilità della conoscenza della verità sulla realtà, riducendola a strumento di dominio dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo, non si può negare che è proprio la domanda di verità meta-fisica, cioè l’esigenza di certezze morali e metafisiche, quella che costituisce l’intimo e insopprimibile bisogno dell’uomo. Senza di queste l’uomo non può vivere e se esse non sono possibili, non è possibile capire l’uomo e la sua presenza, cioè la realtà e il suo significato(6).

Quando si nega la possibilità di certezze morali e metafisiche, il potere diviene criterio assoluto della vita politica e, in genere, dei rapporti sociali. Quando manca un esplicito riferimento alla trascendenza della verità e del bene, cui l’uomo è per propria natura razionale ordinato, viene meno il fondamento di quel valore inviolabile che è l’assolutezza della sua persona. Come ha fatto notare Romano Guardini nel suo volumetto che si intitola proprio Il potere: "Essere in possesso di un potere che non è definito da una responsabilità morale e non è controllato da un profondo rispetto della persona, significa distruzione dell’umano in senso assoluto"(7).

E’ sorprendente l’attualità delle osservazioni che si leggevano parecchi anno addietro in uno dei primi tentativi di giornale studentesco nato dalla nostra esperienza educativa: "Il vero aspetto negativo della scuola è quello di non far conoscere l’umano attraverso i valori che troppo spesso, tanto inutilmente, maneggiamo: mentre in ogni azione l’uomo rivela la sua indole, appare ridicolo (o tragico?) che a scuola, attraverso lo studio delle varie manifestazioni degli uomini, si percorrano alcuni millenni di civiltà senza saper ricostruire con sufficiente precisione la figura dell’uomo e il suo significato nella realtà. La nostra scuola è impostata su un innaturale neutralismo che annulla ogni valore... ma la cecità del nostro tempo assai di rado fa sì che la scuola sia chiamata sul banco degli imputati quando è veramente rea. La si chiamerà perché non la si trova in grado di formare buoni tecnici, bravi specialisti e gente competente; la si chiamerà per la questione del latino o dei programmi degli esami relativi alla maturità; non la si chiamerà perché non è riuscita a formare veri uomini, a meno che non capiti che questi "non uomini" commettano qualche sciocchezza grossolana e clamorosa, come ad esempio un episodio di intolleranza razziale"(8).

Ma non basta questa passione per la certezza e per la verità nell’educatore: egli deve avere come un punto di aggancio ed il punto d’aggancio è nella tradizione, anzitutto quella in cui il ragazzo nasce e viene educato, la famiglia. Scrive don Giussani nel testo citato: "Se chiamiamo tradizione quel dato originario, con tutta la struttura di valori e di significati, in cui il ragazzo è nato, si deve dire che la prima direttiva per un’educazione dell’adolescenza è una leale adesione a questa tradizione" (p. 43).

E’ importante e significativa la ragione che viene addotta rispetto a quella capacità di certezza, di cui abbiamo parlato e che sta a fondamento di un lavoro di introduzione nella realtà totale, cioè della certezza che essa abbia un significato. "Tale tradizione funziona per i giovani come una specie di ipotesi esplicativa della realtà. Non ci può essere una scoperta, cioè un passo nuovo, un contatto con la realtà generato dalla persona, se non per una determinata idea di significato possibile, idea più o meno clamorosamente riflessa, ma presente e attiva" (ivi). La tradizione offre come una idea di significato possibile per la realtà: bisogna partire da questa idea che è presente e attiva nel ragazzo e che funziona come ipotesi di lavoro. Solo un’educazione come introduzione alla realtà umana e cosmica, alla luce di una ipotesi offerta da una storia o tradizione, può impedire nel giovane una partenza sconcertata, una partenza dissociata o una partenza scettica, anzi, il giovane con questa ipotesi viene gettato nell’universale paragone con una ipotesi che poi, in tutta la vita, è chiamata come a verificare, a provare come vera. La lealtà con la tradizione è il nerbo centrale di una educazione responsabile.

In questo seminario si pongono a noi due questioni: a) Che cosa significa lealtà con la propria tradizione in un contesto culturale come quello occidentale, in cui l’agnosticismo dominante sembra aver cancellato ogni memoria religiosa, non solo nella coscienza individuale dell’adolescente, ma anche nella famiglia, che è il luogo in cui comincia il processo di identificazione della loro personalità? Infatti, "il qualunquismo in famiglia è spessissimo nell’anima del giovane radice di uno scetticismo ancora più tenace a strapparsi che l’influenza deleteria della scuola neutra" (ibid., p. 52).

b) Cosa significa lealtà con la propria tradizione in una scuola pluralista, ovvero una scuola nella quale vengono ospitati studenti che provengono da famiglie che si caratterizzano culturalmente per l’appartenenza ad una tradizione religiosa diversa da quella degli educatori che gestiscono la scuola? Questa questione si pone soprattutto in Medio Oriente, dove spesso cristiani gestiscono scuole aperte anche ai mussulmani.

Pongo quest’ultima domanda ai nostri interlocutori.

Padre Halim Noujaim, francescano, è il responsabile di tutte le scuole della Custodia di Terra Santa. Ha organizzato le scuole cristiane in Giordania ed è stato l’ideatore di uno spazio di coordinamento tra esse.

Noujaim: Vi dirò qualche cosa di una lunga storia della presenza francescana in Terra santa, che risale alla scadenza delle crociate. Mentre i crociati tornavano in Europa sconfitti, entrava S. Francesco con l’arma della pace, della fratellanza e stabiliva una presenza francescana, cristiana nell’Oriente che tuttora esiste, e infatti il Vaticano ha dato ai francescani l’incarico di essere i rappresentanti della Chiesa cattolica nei luoghi santi, ma questa rappresentanza non è stata limitata ad una conservazione, ripristinazione dei luoghi santi, ma è stata anche ingrandita a varie attività sociali e pastorali che tuttora esistono, fra le quali anche la scuola. Vi sono negli archivi della Custodia della Terra Santa dei documenti del Vaticano dal XVI secolo, che comandavano al custode di Terra Santa di aprire e mantenere scuole per ambo i sessi, vicino alla chiesa ed al convento.

Questa attività esiste ancora; solo nei luoghi santi, in Palestina, noi abbiamo 14 scuole con 6.353 ragazzi, dei quali 3.642 cristiani e 2.711 mussulmani. Non è questo il luogo per le statistiche: basti sapere che molte di queste scuole hanno una maggioranza di ragazzi mussulmani, nonostante tutta l’educazione e la direzione sia cristiana.

Il Medio Oriente, terra che ha affascinato ed affascina milioni di individui, non ha mai avuto un lungo periodo di stabilità e di pace: guerre sanguinarie, politico-religiose, e lotte fraticide hanno sempre turbato la regione. Oggi, come anche nel passato e nonostante questa terra accolga in sé le tre grandi religioni monoteiste, resta sempre la zona più turbolenta ed instabile del mondo.

Qui è nato il cristianesimo e da qui si è diffuso nel mondo intero; soltanto qualche secolo dopo la sua nascita esso, qui, è già una minoranza, una minoranza tollerata ed in alcuni casi questa tolleranza è una forzata sopportazione. La storia ci insegna che la convivenza delle tre grandi religioni monoteistiche ha avuto momenti di alta tensione e lotte che, alla luce della nostra mentalità odierna, ci lasciano molto perplessi.

Uno dei mezzi che aiutano a combattere ciò che di negativo esiste è la scuola, perché è l’unica istituzione che ammette nel suo ambiente gli alunni delle differenti confessioni religiose, dando loro una formazione valida per accettarsi e comprendersi nelle differenti realtà confessionali a cui appartengono. La Chiesa, fedele al proprio carisma, di "mater ed magistra", ha avuto l’obbligo di venire incontro ai propri figli, anche nel Medio Oriente, dando le istruzioni necessarie perché vicino alla chiesa e alla casa religiosa vi sia una scuola per la formazione sia religiosa che culturale dei propri seguaci. Ne fanno fede i vari documenti emessi dalla Santa Sede fin dal secolo XVI, che chiedevano ai religiosi, in modo particolare ai Francescani, unici presenti nella regione, di aprire scuole di ambo i sessi, nonostante ci si trovasse in un ambiente che appena iniziava ad aprire le porte all’insegnamento ai soli maschi.

Questa decisione o modo di agire mirava soltanto al fatto pratico di dare al cristiano un movente valido per poter restare nella regione che aveva dato i natali al proprio credo e che, già dopo alcuni secoli – come abbiamo potuto constatare – era diventato minoritario, tollerato e perseguitato.

La scuola cristiana ha avuto in questo modo ed in questo ambiente, un ruolo estremamente importante per la minoranza cristiana: incoraggiarla ad approfondire e rinforzare le proprie radici in mezzo ad una maggioranza non cristiana che pretende di proteggerli. Essi, trovandosi di fronte a simili situazioni difficili, erano costretti all’apostasia per poter restare a casa propria, oppure alienare ciò che possedevano per emigrare verso paesi che avrebbero assicurato loro, oltre ad un lavoro dignitoso, una vita umana e cristiana degna di questo nome. La Custodia Francescana di Terra Santa prima, e gli altri Istituti religiosi poi, sia cattolici che non cattolici, hanno aperto scuole e centri di formazione scientifica e professionale in modo da dare ai cristiani una base religioso-professionale e scientifica perché potessero costruirsi ed assicurarsi un lavoro degno e conveniente alla persona umana e sostenere in questo modo le proprie famiglie.

Parlare dell’importanza della scuola nella storia della Chiesa potrebbe sembrare una cosa fuori posto e contesto. In realtà, la Chiesa ha sempre considerato l’istituzione scolastica un mezzo di vitale importanza per la formazione integrale dell’uomo.

Questo principio di carattere universale è più che valido per la scuola del Medio Oriente. Il Concilio Vaticano II afferma: "La Chiesa ha sommamente a cuore anche quelle scuole che, specie nei territori di missione, sono pure frequentate da alcuni non cattolici", e aggiungono, anche da non cristiani. L’importanza della scuola in Medio Oriente è da attribuirsi a varie ragioni, a tre in particolare: 1) la scuola cristiana è un centro di formazione religiosa. L’ambiente che accoglie le scuole cristiane in Medio Oriente è marcato dalle due maggiori religioni, mussulmana ed ebraica. I due gruppi hanno le loro scuole che fanno capo allo Stato ed hanno un marcato carattere religioso a seconda del gruppo a cui appartengono. Le scuole ebree in genere, pongono l’accento sul nazional-sionismo che, in certi momenti, sfocia anche in un certo razzismo. Le scuole mussulmane pongono il fulcro della loro vita nel nazionalismo arabo-islamico. I cristiani, essendo una minoranza sopportata e che forse farebbe contenti molti se sparisse quanto prima, vivendo fra una maggioranza che appena li accetta, spesso sono defraudati dei propri diritti di uguaglianza agli altri cittadini dello Stato. La scuola cristiana, invece, esiste appunto per dare ai cristiani ciò che lo Stato non dà loro nelle sue scuole.

2) La scuola è uno dei mezzi per conservare i cristiani in Medio Oriente. Le scuole governative, non assicurando a tutti i sudditi, a qualsiasi religioni essi appartengano, l’apprendimento e l’approfondimento del proprio credo, sono guardate con sospetto dai cristiani e ritenute come luogo di proselitismo. Inviare un giovane cristiano in una scuola governativa, in quei luoghi dove si può evitare, è come inviare l’agnello in bocca al lupo. Da qui nasce la necessità della scuola cristiana. Qui i giovani, oltre a ricevere una istruzione religiosa, ricevono anche una istruzione oggettiva, per quanto riguarda la formazione e la conoscenza della storia. Inoltre, la preparazione socio-scientifica che assicura la scuola cristiana è di gran lunga superiore a quella delle scuole governative. Il giovane viene preparato alle varie possibilità di scelta che potrà avere in seguito entrando alle specializzazioni universitarie, che gli permetteranno di potersi distinguere nei vari rami richiesti dalla società, che li assorbirà in seguito impedendo anche la realizzazione del sogno emigratorio in cerca di fortuna altrove, perché sono stati preparati ed accettati da quella società che – per se stessa – non li vorrebbe avere. Ma, data la preparazione, data la serietà professionale, si impongono alla stessa società ad essi ostile.

Senza dubbio le scuole cristiane, anche se non sono né l’unica e neppure la principale causa, hanno giocato un ruolo di primaria importanza nel conservare i cristiani nel mondo Medio Orientale. L’emigrazione è il grosso problema della Custodia di Terra Santa e della Chiesa orientale e locale. Il rischio esiste ed è alle porte: stiamo perdendo i cristiani da dove il cristianesimo ha avuto origine. Questa è la grande sfida lanciata, sebbene non ufficialmente, alla Chiesa dai due gruppi maggioritari che vivono oggi là dove il Cristianesimo ebbe la sua culla e da dove esso venne a noi.

Qui vorrei fare una pausa, leggervi una nota di un articolo, scritto in arabo, in una rivista araba, stampata a Parigi, Nuatel Arabi. Nel numero del 3 agosto 1990, affermava che l’emigrazione cristiana dai paesi del Medio Oriente era molto aumentata dagli ultimi anni e dava le seguenti ragioni: a) la paura di una possibile guerra atomica tra i paesi arabi ed Israele, prima della fine di questo secolo. La paura aumenta, considerando che è proibito ai paesi arabi avere armi nucleari o chimiche, mentre tutto è permesso ad Israele; b) l’incremento del radicalismo religioso islamico per combattere i principi di convivenza promossi dal Vaticano, dalla Università dell’azhar in Cairo, dal defunto re Faisal dell’Arabia Saudita e dalla stessa famiglia reale di Giordania. c) l’incremento e lo sviluppo del movimento religioso ebraico, che risulta molto più radicale dell’integralismo islamico. Anzi, esso è quasi un razzismo nazionale; d) infine, l’immigrazione degli ebrei verso la Palestina e lo Stato di Israele. Le guerre continue, come quella del Libano, sono state la causa prima dell’emigrazione di oltre 700.000 cristiani dal solo Libano in meno di 10 anni. Tutto ciò ha fatto concludere alla stessa rivista che, probabilmente, nel 2025 in Medio Oriente non ci sarà più un cristiano locale: speriamo che questo non si avveri. Ancora un’altra statistica: se consideriamo la città di Gerusalemme, la madre di tutte le Chiese, nel 1940 i cristiani erano 40.000, nel 1960 sono diventati 20.000, nel 1990 10.000.

3) La scuola cristiana è un centro di ecumenismo e di dialogo islamico-cristiano. Chiarisco subito perché non si parla di dialogo ebreo-cristiano. Le nostre scuole cristiane erano frequentate, fino alla creazione dello Stato ebraico del 1948, da tutti, indistintamente: ebrei, cristiani e mussulmani. Una volta fondato il nuovo Stato, gli ebrei si sono ritirati dalle scuole cristiane ed arabe, frequentando soltanto le loro scuole. In questo modo, la scuola cristiana è rimasta, anche nello Stato ebraico, una scuola riservata ai cristiani ed ai mussulmani, come in tutti gli altri paesi del Medio Oriente. Il principio fondamentale di una scuola consiste nel rispecchiare, in qualche modo, la società dove essa esiste: la scuola deve essere una piccola società in cui gli allievi apprendono quei principi validi per potere inserirsi un giorno nella grande società che offre loro lo Stato. Nel nostro caso, gli allievi dovranno ricevere quei principi basilari che li introdurranno nella società a maggioranza mussulmana ed ebraica, dove i cristiani formano soltanto una minoranza. Come ho già detto, questa minoranza non dovrebbe essere soltanto tollerata, ma deve avere gli stessi diritti della maggioranza perché di questa ha i medesimi doveri.

Affinché si potesse avere questo fine, le scuole cristiane hanno aperto le porte a tutti, senza discriminazione di razza o di religione o di ceto sociale. Soltanto in questo modo si può dare al cristiano la possibilità di vivere in un ambiente suo, anche se deve condividerlo con un coetaneo mussulmano. Così facendo, i due si abituano a vivere insieme, a conoscersi, a cooperare, a partecipare agli stessi interessi che sono poi quelli che offre ad entrambi la società, anche se il loro credo differisce.

Così si gettano le basi per un vero dialogo, improntato sulla tolleranza reciproca e la coesistenza pacifica, accettandosi l’un l’altro, con tutti i diritti e doveri, perché nell’ambito scolastico essi sono trattati indistintamente allo stesso modo, tutti hanno gli stessi diritti e doveri; l’educazione impartita, sia dal lato scientifico che morale, è identica per tutti, come uguali per tutti sono gli educatori, i professori, i programmi scolastici, gli orari quotidiani. Non si fa distinzione di razza o di religione: tutti sono uguali. Voglio precisare qui che la scuola cristiana dà anche l’educazione religiosa mussulmana ai mussulmani, mentre questo non lo troviamo nelle scuole mussulmane, dove ci sono dei cristiani, e non vengono date lezioni di religione cristiana a loro, e addirittura talvolta vengono forzati ad assistere alle lezioni di religione mussulmana.

La scuola cristiana, aperta a tutti, e dove qualche volta la presenza mussulmana assume una certa rilevanza, dà la possibilità di confrontarsi quotidianamente per potersi accettare così come sono. In essa non vi sono barriere o muri, che troviamo sorti lungo i secoli, tutto ciò viene abbattuto in nome dell’amicizia e della fratellanza, fondando una nuova società dove, per la minoranza, non si parla più di tolleranza, ma di diritto all’esistenza.

Non esiste proselitismo nelle nostre scuole, tutt’altro. Siamo più che liberali perché, pur conoscendo che questo diritto non è dato ai nostri cristiani nelle scuole governative, noi non abbiamo esitato a dare spazio all’insegnamento della religione mussulmana nell’ambito delle nostre scuole. Il nostro lavoro nell’ambito scolastico, in una società a maggioranza islamica, consiste nel vivere il nostro vangelo prima di tutto e nell’aiutare i nostri fratelli di fede ad essere sempre più radicati nella loro terra, nonostante tutte le difficoltà che conosciamo, perché essa non è soltanto la loro terra, essa è anche la nostra terra, essa ci appartiene, perché in essa si è rivelato il Figlio di Dio, e qui Egli ha proclamato il lieto annunzio. Noi, quindi, non possiamo lasciarli soli, non possiamo abbandonarli a farli schiacciare da altri che non hanno accettato il Cristo. Dobbiamo fare in modo che anche gli altri, conoscendo i nostri fratelli di fede, imparino ad essere buoni credenti, dove tutti possiamo convivere in pace e comprensione, godendo tutti degli stessi diritti e doveri.

Samar Sahhar vive a Betania con 200 ragazzi arabi disagiati. 120 di questi sono ragazzi abbandonati che vivono nel suo istituto, una sorta di orfanotrofio: gli altri frequentano l’istituto per l’istruzione scolastica.

Ha dedicato tutta la sua vita a questa opera.

Sahhar: Vi sono molto grata di avermi invitato, mi sento molto onorata e felice di essere qui tra voi questo pomeriggio. Desidero parlarvi della mia esperienza di lavoro presso la scuola Jeel-Al-Amal che significa "Generazione della speranza". Questa società è stata fondata nel 1972 dai miei genitori, Alice e Basil Sahhar, insieme ad un altro gruppo di persone che si occupavano degli orfani e dei bambini abbandonati della nostra zona. In quella occasione era stata affittata una casa per accogliervi gli orfani, ma, con grande sorpresa di tutti, il loro numero è aumentato in brevissimo tempo. Jeel-Al-Amal è nata quasi dal nulla, alcuni anni fa, quando abbiamo acquistato della terra, perché si era reso necessario passare da una semplice casa colonica ad un vasto edificio per poter accogliere un numero sempre maggiore di bambini e mostrare loro che un amore reale e un atteggiamento positivo possono dar vita ad una società migliore.

La parte adibita ad alloggio ospita 120 piccoli orfani, che dipendono completamente dalla nostra organizzazione, per quanto riguarda i loro bisogni primari. Inoltre altri 200 tra ragazzi e ragazze che abitano nei dintorni frequentano la scuola in cui ricevono un’istruzione, insieme al materiale scolastico, gratuitamente. Questi bambini che vengono qui con i loro problemi e le loro numerose sofferenze, chiedono di essere aiutati non soltanto con il cibo materiale, ma anche con quello dello spirito. Essi non dimenticheranno mai di essere stati amati e una volta cresciuti saranno essi stessi l’amore che hanno ricevuto. La prova più evidente di ciò è il fatto che essi ritornano sempre a visitare la nostra casa, per partecipare alle nostre attività, e la buona riuscita del nostro lavoro è anche per loro un’occasione di gioia.

Uno degli ex alunni è venuto a trovarci alcuni giorni fa (ed è l’unico, tra la popolazione dei tre villaggi della zona di Ramalla, che sia diventato avvocato): quando gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua infanzia si è espresso così: "Se nei primi anni della mia vita non fossi stato educato da dei buoni cristiani, oggi non sarei quello che sono. Vorrei poter essere di nuovo bambino per ritornare a Jeel-Al-Amal".

Uno dei candidati alle elezioni mussulmane, dopo la vittoria, ha fatto questa dichiarazione, di fronte ad una folla numerosa: "Ho vinto le elezioni come mussulmano, ma sono fiero di essere stato educato presso un orfanotrofio da una donna cristiana di nome Alice Sahhar. Non dimenticherò mai tutto il bene che mi è stato fatto".

Un altro ex alunno, quando in Libano gli ordinarono di uccidere dei cristiani rispose: "Non posso uccidere dei cristiani, perché sono cresciuto grazie all’amore cristiano che mi è stato dato da una donna cristiana in un orfanotrofio, quando nessun altro si prendeva cura di me".

E’ questo è verissimo, perché i bambini non dimenticano mai la loro infanzia e l’amore che hanno sperimentato.

Vi chiedo di pregare per noi, mentre portiamo avanti il nostro compito di creare un futuro migliore per i nostri ragazzi e di seminare i semi dell’amore e della pace che Cristo ha detto di seminare.

 

NOTE

(1) L. Giussani, Il rischio educativo, Jaca Book, Milano 1990, pp. 11-12. A questo testo si riferiscono le citazioni riportate nelle due introduzioni al seminario sul rischio educativo (n.d.r.).

(2) Cfr. Ventorino, Educare e istruire: mestiere, rischio, passione, in Echi di un Avvenimento, CUSL La Traccia, Catania 1992, p. 28.

(3) G.K. Chesterton, Il bello del brutto, trad. it., Sellerio, Palermo 1985, pp. 17-18.

(4) E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984, pp. 11-12.

(5) Summa Theologiae, I q. 25 a. 3,5.

(6) Cfr. F. Ventorino, Le grandi questioni. Appunti di metafisica. Tools, Faenza 1992, pp. 9-68.

(7) Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere. Morcelliana, Brescia, p. 177. Cfr. anche F. Ventorino, op. cit., pp. 31-34.

(8) G. Gamaleri, in Milano Studenti, IV (1960), n. 2, p. 13.