Struttura dell’esperienza: proposta autorevole e verifica personale.

Esperienze dal Medio Oriente

Martedì 24, ore 15

Introduzione di

Francesco Ventorino

Relatori:

Pier Giorgio Gianazza

Pietro Felet

Alfio Pennisi

Ventorino: Proposta autorevole e verifica personale sono i due fattori dell’esperienza educativa. L’autorità è il luogo in cui la tradizione è più cosciente. L’autorità è segnata e fissata dalla natura stessa. Autorità, dunque, innanzitutto, ne siano coscienti o non lo siano, sono i genitori. "La loro funzione è originatrice; per il fatto stesso di essere tale, essa è immissione in un modo di concepire la realtà, in un flusso di pensiero e di civiltà. La loro autorevolezza, inevitabile, è un fatto, ed una responsabilità. Tale fatto può venire da loro stessi misconosciuto, ma rimane. Essi rappresentano nella vita dell’adolescente la permanente coerenza dell’origine con se stessa, la dipendenza continua da un senso totale della realtà, che precede ed eccede da ogni parte il beneplacito dell’individuo" (p. 56). Ma spesso l’autorità rischia di rimanere estranea alla coscienza della persona, non riconosciuta: affinché un individuo possa essere educato, è necessario che faccia l’esperienza di una reale autorevolezza, è necessario che incontri qualcuno in cui il destino dell’uomo in qualche modo è già presente.

All’origine dell’esperienza dell’autorità sta, dunque, l’avvenimento di un incontro con una umanità diversa che si impone per il fatto che in qualche modo ‘rappresenta’, cioè rende presente il destino vero, cioè la verità della realtà, cui l’uomo con tutto il suo cuore tende. E’ come se portasse in sé questa affermazione: "Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio, esiste"(1). In forza dell’avvenimento di questo incontro nasce nella persona l’esperienza dell’autorevolezza, l’esperienza di una realtà umana convincente, avvertita come necessaria per il cammino verso il proprio destino. Per questo l’autorevolezza è un fattore ineliminabile nell’esperienza educativa, senza autorevolezza non c’è esperienza educativa, vi può essere solo imposizione, costrizione di un modo di vivere, ma non c’è educazione della persona umana.

Ma se questo è un fattore ineliminabile dell’esperienza educativa, è altrettanto ineliminabile il secondo fattore che chiamiamo verifica personale. L’incontro con una persona autorevole desta una responsabilità nella persona, e la responsabilità di fronte all’incontro si esprime innanzitutto in un desiderio costantemente perseguito di una verifica personale dell’ipotesi di verità totale che l’incontro suggerisce. Per verifica, intendiamo il contrario di quello che intende il razionalismo imperante, che dimentica l’importanza dell’impegno esistenziale. Non basta che il giovane senta presente a sé l’annuncio ideale, occorre che renda presente se stesso al valore ideale facendolo, come dice San Paolo nella lettera agli Efesini: "Veritatem facientes in charitate". Affinché l’uomo pervenga alla convinzione, è necessario che faccia la verità e abbia una esperienza della verità; ma l’esperienza della verità presuppone una carità, un amore e una passione alla verità, una passione per la verità più grande della passione che si ha per la propria vita, anzi è la passione alla verità che aumenta e rende vera in noi la passione per la propria vita; solo la passione per la verità del nostro destino rende vera la passione per la propria vita.

Questa esperienza non è possibile senza l’implicazione dell’affettività. Non è possibile aderire a nessuna verità se non nella misura in cui si ama la verità più di se stessi: questo amore è frutto di un’ascesi, che ha come molla l’amore al proprio destino, o, per meglio dire, alla verità del proprio destino.

S. Tommaso d’Aquino aveva già evidenziato questo rapporto tra conoscenza ed affettività, quando aveva detto della facoltà della conoscenza, l’intelletto, e della facoltà dell’amore, la volontà, che "queste potenze si includono a vicenda con i loro atti; poiché l’intelletto conosce che la volontà vuole; e la volontà vuole che l’intelletto conosca. Analogamente, il bene è incluso nel vero, in quanto è un vero conosciuto dall’intelletto; e il vero è incluso nel bene, in quanto è un bene desiderato"(2).

Non è possibile, dunque, pervenire a qualunque certezza senza scommettere la propria umanità tutta intera con la verità, a mano a mano che essa si manifesta a noi come ipotesi da verificare o come evidenza. La verifica implica uno stare di fronte alla tenue o inesorabile presenza della verità con tutta la tensione e la fedeltà della nostra libertà. Solo allora la nostra diviene una solida adesione alla realtà, come ad una presenza che ogni giorno di più si svela a noi nel suo mistero ultimamente insondabile. "La mentalità moderna insegna, purtroppo, ai giovani a seguire le cose fino ad una misura ad essi comunque gradita, e poi basta. Per cui quella presenza è affrontata come spunto per affermare proprie preoccupazioni, propri schemi: non per essere seguita fedelmente fino in fondo. Così, là dove quella presenza non corrisponde a predeterminate preoccupazioni, il fuoco di fila dei "ma" e dei "se" fa così spesso da copertura ad una mancanza di disponibilità e di genuino amore al vero e al bene. Ecco allora quella diffusa paura, quella strana incapacità dei giovani ad affermare l’essere. Questa paura ad affermare l’essere sorge proprio da un mancato impegno con l’essere, sia che quella paura si traduca nel disinteresse in cui i più vivono, sia che si esprima nel "terrore ubriaco" di Montale. Proviamo a pensare quanta intensità di solida adesione all’esistenza (dico all’esistenza e non a una interpretazione di essa) occorre per seguire tutta la voce della realtà nel suo richiamo analogico, fino ai valori personali, fino a Dio! E’ naturale che i ragazzi si fermino subito, prima ancora di cominciare, se non sono aiutati ad aderire sinceramente all’esistenza" (pp. 61-62).

Ancora il già citato giornale studentesco commentava: "Ma è possibile una medicina a tutto questo? Forse l’unico mezzo educativo che possa farci scoprire la vera umanità dell’uomo, la strada che egli deve percorrere per realizzare senza equivoci se stesso, è la cordiale, istintiva, diremmo, attenzione al positivo, in qualunque modo si proponga, attraverso le pagine di un testo, la voce dell’insegnante, l’insuperabile concretezza di un gesto d’amore. Il lato amaro della situazione è che la strada verso il positivo, ci sembra oggi di doverla percorrere da soli, e l’amore istintivo, che per essa nutriamo, non sempre sa sorreggerci fino alla meta"(3).

Se volessimo riassumere quanto detto, dovremmo dire che la convinzione sorge quando un’ipotesi unitaria di significato totale della realtà viene accolta dall’intelligenza e verificata nell’amore alla verità e nella dedizione all’esistenza. Perciò per aiutare l’avvenimento della convinzione l’educatore deve da un canto proporre chiaramente e decisamente un senso unitario delle cose e dall’altro deve spingere instancabilmente il giovane a confrontare con quel criterio ogni incontro ed ogni avvenimento, cioè ad impegnarsi in una personale esperienza, in una verifica esistenziale.

Questo implica come condizioni essenziali:

– L’impegno nel proprio ambiente, "perché è nell’ambiente che attinge spunti, sollecitazioni ed alimentazione la trama di esperienze intime ed esteriori del ragazzo stesso, e quindi è soprattutto nell’impegno con l’ambiente che diverrà chiara la validità dell’educazione data" (p. 64).

– L’appartenenza comunitaria: "nessun grande genio educatore si mosse mai senza immediatamente generare comunità. Il senso dell’universale genera, inesorabilmente, il senso della comunità. Un’ipotesi di senso totale veramente vissuta non può che presentarsi come comunità" (p. 66).

– L’uso del tempo libero: "il tempo libero è il luogo della più trasparente scelta dell’adolescente: dal suo uso egli stesso può documentare a sé il proprio ‘interesse’ all’ipotesi educativa. Il tempo libero è il punto in cui l’ideale più facilmente da ‘dovere’ diventa ‘fascino’, iniziativa esclusiva del giovane, responsabilità coscientemente, generosamente assunta" (pp. 66-67).

Il metodo educativo fin qui descritto presuppone nell’educatore il rischio della libertà, la capacità di accettare l’autonomia necessaria della libertà del ragazzo, perché possa da sé compiere la verifica indispensabile alla convinzione personale. Questo equilibrio nell’educatore è possibile solo dentro uno spiccato senso religioso dell’esistenza, perché è un rispetto del mistero di Dio, e del mistero della libertà dell’uomo. La fragilità particolare dei giovani di oggi genera facilmente in chi li educa una malintesa volontà di protezione; essa, più che sorreggere i giovani, tende ad aggravare la causa della loro fragilità, che spesso nasce da un esasperato ed impossibile tentativo di difesa da ogni rischio che derivi dall’esercizio della loro libertà o dalla violenza della realtà. Oggi più che mai, dunque, nell’educatore si esige, insieme allo spettacolo della certezza e della verità, una discrezione nei confronti del mistero della libertà del singolo.

Abbiamo già incontrato persone che testimoniano la carità cristiana, ovvero la fede resa incontrabile in un’umanità cambiata. E’ come se queste persone dicessero – anche tacitamente – ai loro alunni: "Vedi, se io sono così è perché sono cristiano". Questo è lo splendore della fede nell’umano, ed anche lo spettacolo dell’autorevolezza di cui parlavamo prima. Abbiamo avuto da queste persone una grande testimonianza della discrezione e del rispetto del mistero di Dio e della libertà del singolo, perché la carità tanto più è vera, tanto più rispetta la libertà dell’altro e corre il rischio della pura gratuità di fronte al mistero di Dio e al sì dell’uomo.

Pier Giorgio Gianazza, salesiano, ha compiuto gli studi secondari a Beirut e poi gli studi teologici a Cremisan, a Betlemme. Attualmente è direttore dello Studio Teologico "San Paolo" di Cremisan e di un seminario internazionale, che i salesiani hanno a Cremisan vicino a Betlemme.

Gianazza: Vorrei delineare quanto è venuto maturando in questi ultimi anni, dopo tantissime riflessioni fatte dal gruppo dei salesiani che sono impegnati almeno in 8 paesi dell’area del Medio Oriente, nella linea della incarnazione, della inculturazione e della evangelizzazione. Questa riflessione sistematica ha portato non soltanto a delle linee disperse, ma piuttosto a un piano educativo abbastanza difficile nelle sue linee globali, perché interessa non soltanto un determinato gruppo omogeneo e compatto – come può essere quello dei cattolici, e, a un raggio più largo dei cristiani – ma una società e dei centri di educazione in cui vive la regola della pluralità, del pluralismo religioso. Per questo è un piano che potremmo definire di itinerari educativi in un ambiente e in un contesto multireligioso. Per portarvi un piccolissimo esempio, io mi trovo ad insegnare contemporaneamente, nel corso dell’anno, ad un gruppo di seminaristi di 13-14 nazionalità, tutti cattolici, e sono anche impegnato all’università di Betlemme con un gruppo non solo di cattolici, ma anche di cattolici ortodossi. Anche a livello di giovani e ragazzi, mi trovo nel campo educativo oratoriale al centro giovanile, dove sono presenti sia bambini che bambine, giovani studenti e studentesse cristiani e mussulmani, e da qualche anno sono anche invitato regolarmente a tenere conferenze e incontri a donne mussulmane. Da questo piccolissimo esempio personale, si comprende qual è la realtà e la domanda educativa in questo contesto plurireligioso. Quindi per noi la questione è quale educazione dare e come offrire un’educazione integrale, una introduzione alla globalità della realtà o alla totalità della verità, naturalmente non potendo assolutamente prescindere dal proprio essere di educatore cristiano.

Cercheremo ora di capire come si può presentare l’autorevolezza di educatore cristiano, come può essere verificato dall’educando nella verifica personale, e quindi come questo può portare al rischio della libertà e quindi alle sfide e alle interpellanze reciproche di cristiani e mussulmani.

Il primo punto – l’autorevolezza dell’educatore –, per noi che siamo qui cattolici o cristiani, è assolutamente imprescindibile: non si può tentare un’avventura educativa solo da un primo contatto con l’Oriente nella sua complessità. Bisogna viverci anni e anni prima di poter fare una incarnazione ed una inculturazione, per poter avventurarsi in questo campo così intricato; tuttavia, avendo noi le radici della fede, avendo noi uno sguardo di fede e di speranza e naturalmente di carità sulla realtà, dobbiamo partire da Dio stesso, che ama tutti gli uomini ed è presente a tutti e a tutti ugualmente ha dato questa dignità dell’uomo. Quindi qualsiasi persona che io ho di fronte, sia egli cristiano, o mussulmano o ebreo, per me è assolutamente un uomo da amare così come è, perché così lo ama Dio. Questo però non può essere un atteggiamento fideistico, che potrebbe andare verso l’ingenuità: occorre tenere anche conto della realtà concreta quotidiana, in cui ci sono anche severe leggi sul rapporto interreligioso, o una sensibilità speciale dei cristiani locali verso i mussulmani, perché sono stati toccati da secoli di persecuzione, o una mentalità diffusa che vede qualsiasi persona che venga dall’estero, tanto più se cristiano, quasi come una longa manus sotto copertura missionaria dell’imperialismo occidentale.

Come cristiani, non possiamo prescindere dal duplice impegno nel binomio di dialogo e annuncio. Dialogo in quanto ormai – come dice il Papa – il dialogo è l’impegno che per la Chiesa rimane fermo e irreversibile, in tutte le sue modalità, dalle più difficili, come può essere il dialogo sulla verità o sulla scienza religiosa, alle più facili, le più quotidiane e concrete come il dialogo della vita. Ma non soltanto noi abbiamo il diritto di annunciare Cristo, ma anche ogni uomo ha il dovere e nello stesso tempo il diritto di accettare questo annuncio. Starà quindi all’inventiva di ognuno il sapersi adattare tenendo presente gli ostacoli anche nella discrezione e nell’opportunità. Tutto questo produce una spiritualità propria, chiamiamola così, del missionario in questo ambiente, spiritualità da testimone, spiritualità di chi presenta la sua fede, più con la testimonianza che con le parole. Deve presentarsi come il fratello universale, il fratello di tutti. L’incarnazione precisa dell’annuncio deve accompagnarsi ad una conoscenza sempre più personale e sempre più approfondita dei dati delle rispettive religioni, che ha quindi una visione più chiara di quello che significa educazione per il cristianesimo nel rapporto Dio-uomo, e nello stesso tempo che cosa significa – nel nostro caso – per l’Islam. Come è stato ben detto, nell’Oriente non esiste un uomo senza Dio: si può essere contro Dio, si può essere anche non con Dio, ma mai senza Dio.

Dopo aver presentato brevemente ciò che deve essere l’educatore, mi preme ora rilevare ed evidenziare molto di più quelli che possono essere gli itinerari concreti e quotidiani di una strategia e di una metodologia educativa, sulla falsariga di quello che è il metodo – essendo salesiano – di don Bosco, che ci ha lasciato un sistema speciale – chiamato sistema preventivo –, che si può riassumere in un trinomio: ragione, religione e amorevolezza. Questo trinomio si adatta a tutte le religioni, come hanno riconosciuto tanti altri educatori sparsi in tutto il mondo, di religioni anche diverse dall’Islam, ad esempio delle religioni dell’Estremo Oriente – Buddismo e Shintoismo. La ragione è la prima dimensione del trinomio perché, come ho detto, nell’Oriente cristiano e non cristiano, cristiano e mussulmano, il senso di Dio è la base di tutto. Come già dicevo, non si può essere senza Dio: o si è pro o si è contro, ma mai senza. Basti pensare ai mussulmani: Islam vuol dire proprio questo, sottomettersi a Dio, e anche noi cristiani accettiamo questo. Proprio in nome di questa unica sottomissione non vogliamo sottomettere gli altri nel nome di Dio, come invece cercano di fare gruppi fondamentalisti islamici. Educare tutti a questa sottomissione a Dio vuol dire essere consapevoli del comune riferimento ad un unica fede, che è quella di un unico Dio, quindi ispirarsi a Lui e operare con Lui e per Lui, senza mai strumentalizzare l’uomo o lo stesso Dio per i propri fini. Non siamo noi a possedere Dio, ma è Lui a possedere noi: per questo Dio, il vero Dio, la vera religione, non è mai contro l’uomo, ma viceversa, l’uomo è sempre con Dio e Dio è sempre con l’uomo. Se la religione strumentalizza l’uomo, uccide in qualche modo l’uomo: comprendere questo è essenziale per vivere in reciproca armonia e nei principi della sana comprensione reciproca e della convivenza, per cercare comunemente un dialogo e non è facile.

Il campo della ragione è quello in cui ci troviamo più nell’armonia e nella comunione, e include numerosi altri campi e certezze: senso della coscienza, senso della grandezza dell’uomo, di tutti i valori, delle qualità umane, senso dei diritti, il campo della vita e dei valori famigliari. Quest’ultimo campo è piuttosto trascurato, è quasi un tabù, mentre noi siamo chiamati ad affrontarlo, sia pure con una certa delicatezza. Anche il campo sociale è molto importante, e occorre difendere certe caratteristiche e certe virtù che sono dell’uomo, ma che purtroppo sono molto trascurate sia dai cristiani che dai mussulmani: virtù forti e coraggiose, come quella della gratuità, del perdono, della comprensione, della donazione, del capirsi e del volontariato. La modalità attraverso cui coltivare tutti questi campi è la dimensione dell’amorevolezza. Ciò che più colpisce i nostri destinatari non cristiani, particolarmente i mussulmani, è proprio questo stile di vicinanza, di fratellanza, di solidarietà, il farsi incontro all’altro senza cercare il proprio tornaconto, la disponibilità totale a qualsiasi tempo, a qualsiasi ora, con uno stile di presenza, di condivisione, di accoglienza, con un atteggiamento iniziale di simpatia, e scevro di pregiudizi culturali o sociali.

Tratterò ora l’ultimo punto, parlando dei rischi e delle verifiche, cominciando da alcuni esempi. I mussulmani pongono alcune sfide a noi cristiani, che dobbiamo tenere presente: il Corano evidenzia alcune note distintive dei seguaci di Cristo, come la mitezza, la misericordia, l’umiltà, la fedeltà alla preghiera e all’elemosina, l’attesa dell’ultimo giorno, ma denuncia anche la loro divisione. Noi cristiani, proprio per rispondere a questo che i mussulmani si attendono da noi, cerchiamo di vivere in modo credibile questi valori al di là delle controtestimonianze di certe società che si dicono cristiane. Ma noi, a nostra volta, come cristiani possiamo porre delle controdomande e delle controsfide ai mussulmani: ad esempio, i cristiani chiedono ai mussulmani che vivano coerentemente il loro rapporto con le "genti del libro" – come chiamano noi cristiani e anche gli ebrei – con una vera tolleranza, al di là delle misure coercitive e restrittive. Mi riferisco a tutta l’area del Medio Oriente, ma soprattutto a certi posti come il Sudan, l’Arabia Saudita o altri paesi del Golfo, che qualificano i cristiani quasi sempre come gente di seconda categoria, come minoranza in qualche modo protetta, come miscredenti o addirittura come pagani. Ma questo atteggiamento è veramente fedele a quello che lo stesso Corano dice di noi cristiani? Noi chiediamo di riconoscere e applicare il principio della reciprocità, garantendoci la libertà di testimoniare la nostra fede, con tutte le sue esigenze. A livello locale inoltre, noi cristiani siamo chiamati a testimoniare con la vita virtù forti e difficili che sono quasi cancellate dal vocabolario sia mussulmano, come il perdono incondizionato, l’ascesi, il sacrificio gratuito, la penitenza, l’espiazione redentiva, la purezza, la castità illibata, la verginità per il Regno di Dio – che i mussulmani non riconoscono –, la sincerità interiore ed esteriore.

Tutto questo, come dice San Pietro, richiede molto tatto e comprensione e noi dobbiamo essere sempre pronti a rendere conto della nostra fede a chiunque ce ne chieda. In tutto questo noi non siamo soli, noi sappiamo di essere circondati da tutto il mondo cristiano: tutti i cristiani, dice San Clemente, devono implorare l’aiuto dello Spirito Santo, affinché sia l’ispiratore decisivo dei loro programmi educativi, delle loro iniziative e della loro attività evangelizzatrici.

Pietro Felet è nato a Vittorio Veneto. Si è preparato al sacerdozio presso il Seminario del Patriarcato latino di Gerusalemme, e risiede a Gerusalemme fin da quand’era seminarista. E’ religioso dei preti del Sacro Cuore di Gesù di Betarram ed è sacerdote dal 1970. Ha svolto il suo ministero sacerdotale quasi sempre tra popolazioni arabe e cristiane palestinesi e giordane. Attualmente guida, in stretta collaborazione con il delegato apostolico in Terra Santa, il segretariato per le scuole cattoliche della Terra Santa con sede a Gerusalemme.

Felet: Parlerò dell’area geografica presente tra Israele, Westpan e Giordania, dove la Chiesa Cattolica possiede 131 complessi scolastici, con una popolazione studentesca che sfiora i 59.000 studenti. Una presenza importante come numero e significativa. Da un anno sono al segretariato delle scuole cattoliche in Terra Santa, e ho cercato di riflettere sul carisma che ha portato al fiorire di tutte queste istituzioni, sul desiderio della promozione umana, dopo 400 anni di dominazione ottomana che aveva distrutto ogni elemento culturale nella popolazione. Chi poteva, andava a seguire dei corsi a Beirut o a Il Cairo, ma la stragrande maggioranza della popolazione cristiana e mussulmana non poteva permetterselo. Le scuole cattoliche hanno voluto fin dall’inizio essere aperte a tutti gli uomini, ricevere mussulmani, ebrei già durante la fine del periodo ottomano e il mandato ottomano, ed hanno così assicurato una formazione religiosa e cristiana alle minoranze cristiane, evitando loro di essere confinate in ghetti chiusi su se stessi: una formazione che conduca l’uomo a scoprire la sua realtà, a scoprire la bellezza della sua fede e nello stesso tempo a testimoniare con forza il Vangelo. Nel Medio Oriente vale molto di più la testimonianza di vita che quella della parola. Le scuole hanno voluto essere aperte, in vista del bene di tutti, cercando di riavvicinare le diverse fedi, ed aprire così una via di intesa, di comune accettazione, di rispetto reciproco, di stima della propria fede, cercando di arrivare ad un dialogo.

Le scuole cattoliche incontrano alcune difficoltà nel trasmettere i valori, ad esempio nell’area geografica di Israele, dopo anni di sofferenza – anche politiche – di sconvolgimenti politici, economici, di scardinamento delle famiglie, di villaggi cristiani distrutti completamente. I giovani che frequentano le nostre scuole risentono di questa situazione, e cercano di prendere le distanze dal comportamento dei loro padri, sono attirati dall’ideale democratico d’Israele. Sono anche attirati da ideali come l’edonismo: mi ha stupito che da una recente inchiesta risulta che l’edonismo è il primo ideale ricercato dalla maggioranza della gioventù delle nostre scuole. I padri hanno avuta la vita dura, i giovani la cercano facile; quello che conta per loro è l’immediato, non un ideale proiettato nel tempo. In Galilea c’è una grande maggioranza di cattolici, greci-cattolici, maroniti, latini, ma senza istruzione religiosa: fortunatamente ci sono tentativi, ci sono presenze che fanno da richiamo. L’esperienza dell’intifada che i giovani stanno vivendo, paragonata dagli studiosi alla rivoluzione culturale del ‘68 in Italia e in Europa, era nata come un’occasione di rivolta politica, e nello stesso tempo di coagulamento delle diverse etnie, e vi si è inserita la pretesa di una maggiore dignità e giustizia. I padri si erano adagiati in una certa situazione. I giovani si sono ribellati, non solo all’occupante, ma alle loro famiglie, ai loro tutori, distruggendo ciò che è culturale. Le scuole sono state chiuse, a volte con la forza o con scioperi selvaggi. In Giordania, la situazione è più facile: la gente tende ad un ideale di sviluppo economico, creato dal governo, dalla politica locale; i giovani vogliono crearsi uno spazio nella società, una vita personale, individuale più agiata. Di conseguenza, c’è la tendenza da parte dell’Islam a confinare il Cristianesimo quasi in sacrestia, nell’ambito delle mura della loro Chiesa.

Quali sono le prospettive, in queste difficoltà? E’ necessario cambiare, perché la Chiesa sta giocando la sua esistenza nell’area medio orientale, non tanto come numero ma come presenza significativa. La scuola non deve essere più un mezzo per affermare la presenza della Chiesa, deve invece essere un servizio che la Chiesa rende alla comunità e alla società.

Il mese scorso leggevo sul quotidiano arabo di Gerusalemme, un’affermazione del vicesindaco di Gerusalemme, un ebreo, a proposito delle scuole private, cattoliche in particolare: "Lo stato di Israele deve essere riconoscente all’opera svolta dalle scuole cattoliche, perché han reso realmente un servizio alla società, e noi come stato dobbiamo sostenerle, aiutarle, anche finanziariamente". "Lo stato di Israele finanzia le scuole cattoliche – a differenza dell’Italia – perché lo studente è cittadino a pieno titolo, e quindi lo stato ha un obbligo. E’ essenziale – come suggerivano i padri cattolici orientali dall’assemblea degli ordinari – prendere coscienza di essere arabi, non stranieri, non una forza occulta a servizio dell’occidente. Non ci sono due popoli, arabo e cristiano, ma un unico popolo, che parla la stessa lingua e vive la stessa cultura. Essere arabi cristiani è quindi un ruolo ben specifico, ed occorre essere testimoni della propria fede in maniere nitida, chiara, trasmettendo e informando la società – Israele, Giordania e i territori occupati – di valori cristiani vissuti con convinzione. La presenza cristiana deve essere trasmessa attraverso un’educazione, per questo è importante avere educatori chiaroveggenti, che sappiano guardare di fronte a sé. Gerusalemme non deve essere una capitale limitrofa, una piccola capitale, ma dev’essere una grande capitale anche per il mondo cristiano, perché è la madre del monoteismo, dove mussulmani, cristiani, ebrei, si ritrovano. Gerusalemme deve risplendere come città dell’incontro, in cui tutti possano trovare uno spazio nell’intesa, nel rispetto, nella stima.

Alfio Pennisi, nato a Catania, dal 1991 vive a Il Cairo, dove insegna italiano nel liceo scientifico della scuola italiana Leonardo Da Vinci.

Pennisi: Insegno in una scuola italiana all’estero, il liceo italiano de Il Cairo, una scuola il cui primo fine è quello di garantire una frequenza scolastica ai ragazzi italiani le cui famiglie si trovano all’estero per motivi di lavoro. Anche la mia scuola è pluralista: c’è una minoranza crescente di studenti che hanno un’origine diversa da quella degli "immigrati di lusso" di cui ho già parlato; ho infatti numerosi studenti italoegiziani, che spesso hanno alle spalle situazioni difficili dal punto di vista economico o familiare affettivo, di religione islamica, ed ho anche alcuni studenti che si sono trasferiti con le loro famiglie lì in Egitto da regioni africane inquiete, come l’Eritrea e la Somalia, e hanno scelto la nostra scuola per questione di affinità storica tra la loro terra d’origine e l’Italia.

Posto di fronte alla varietà di condizioni umane e sociali cui accennavo, il terreno su cui io ho portato il rapporto educativo, è stato quello delle esperienze umane fondamentali della vita, della vita mia e di quella dei miei ragazzi. Mi riferisco alla esperienza e alla questione affettiva, l’amicizia, il rapporto tra ragazzo e ragazza, o tra marito e moglie, il rapporto familiare; la questione della dignità della persona – ciò da cui la persona riceve il proprio valore – la questione culturale, ovvero del giudizio sulla realtà, e per noi in particolare il giudizio sulla vita scolastica, la vita quotidiana fatta dei contenuti che studiamo e dei rapporti che viviamo quotidianamente. Questo è stato il terreno, ma con una precisazione: quello che quotidianamente tento di proporre ai miei alunni, non è un certo numero di generici valori comuni per l’edificazione di un’imprecisa area di incontro in cui tutti andiamo d’accordo, a riguardo dell’amicizia, dell’amore, della dignità della persona. Sul terreno dell’esperienza affettiva, della dignità della persona, del giudizio sulla realtà, vengono verificate le nostre reciproche appartenenze. Il rapporto educativo deve tendere ad esplicitare l’identità mia e dei ragazzi, ad una reciproca manifestazione dell’espressione della propria fede religiosa. Portare il confronto sul piano dell’affettività significa non escludere nessuno, perché non c’è nessuno che non ami e non voglia essere amato. Questo instaura un legame profondissimo tra me e chi mi sta dinnanzi, perché entrambi viviamo la stessa cosa, eppure non tutti amiamo allo stesso modo, ci sono tanti modi di amare: inevitabilmente, portare il rapporto sulla questione affettiva, mi chiederà di mostrare cosa significa per me amare i miei amici, mia moglie, i miei figli e evidenziare qual è la ragione del mio amore. Dire questo instaura un legame fortissimo con chiunque mi sta dinnanzi, perché chiede di evidenziare la propria appartenenza.

Aggiungo un piccolo corollario, quasi paradossale: questo mi ha portato talvolta, nel rapporto con i miei alunni islamici, a dover chiedere loro maggior fedeltà all’islamismo. Ad esempio, un mio alunno molto simpatico, Murini, ha alle spalle una situazione familiare un po’ particolare, perché il padre è egiziano islamico e quindi ufficialmente la sua religione è questa, ma nello stesso tempo condivide la cultura occidentale, quando si tratta di fare il Ramadan, o quando si tratta di parlare e pensare alle ragazze. Quindi, parlare con lui della questione affettiva ha significato chiedergli di prendere seriamente quella che diceva essere la sua appartenenza.

Questa modalità di rapporto tende a valicare, evidentemente, i confini di un rapporto orario, non nel senso di fare la scuola a tempo pieno, ma nel senso che chiede evidentemente di avere come tempi e come ritmi quelli della vita. Quindi, tende a farmi aprire le porte di casa mia e di offrire, oltre al rapporto con me, anche quello con la mia famiglia e quello con i miei amici. Questo evidentemente è nella dinamica del rapporto educativo, ma anche questa apertura va vissuta con la coscienza che non è fine a se stessa. La coscienza con cui io posso aprire le porte di casa mia deve portare a Cristo, la ragione per cui faccio ciò che faccio.

 

NOTE

(1) Cfr. L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Ariccia-Roma 1993, p. 210.

(2) Summa theologiae, I, q. 82, a. 4, ad 1.

(3) G. Gamaleri, Milano Studenti, cit.