Nel quotidiano e nella storia:
il desiderio dell’infinito

Domenica 22, ore 16.30

Relatori:

Lorenzo Albacete ????

Davide Horowitz,
Presidente DHMA di New York.

Chaim Potok,
Scrittore

Moderatore:

Giancarlo Cesana

Albacete: Quando ho letto per la prima volta The Chosen (Danny l’eletto) di Chaim Potok non avevo quasi nessuna esperienza della vita negli Stati Uniti, eccetto che come studente di college in un’università cattolica: vengo da San Juan, in Portorico, credo di non aver incontrato personalmente un ebreo negli anni della mia giovinezza, e non avevo alcuna conoscenza né del dramma della vita ebraica a New York né della lotta per essere fedeli all’identità del popolo eletto pur restando pienamente inseriti nella vita americana. La cultura dalla quale provengo è quasi completamente plasmata dalla fede cattolica e dal suo incontro con la spiritualità indigena dei Caraibi e africana: in quel mondo gli ebrei sono un’astrazione. Tuttavia, lessi The Chosen con profondo interesse, scoprendovi inattese corrispondenze con qualcosa presente nel mio cuore. L’esperienza ebraica di essere scelti non era infatti del tutto incompatibile con le speranze e i bisogni degli altri esseri umani che erano completamente al di fuori della storia e della tradizione ebraiche: il mistero da cui era sorta l’elezione degli ebrei – la creazione stessa dell’identità ebraica – era lo stesso mistero che io sperimentavo come origine della mia identità, senza dover per questo negare una modalità che non era la mia.

Oggi vivo a New York: l’incontro con la mentalità ebraica, in tutte le sue numerose manifestazioni, continua a trovare un moto di corrispondenza in me, evoca meraviglia di fronte allo stesso mistero. Com’è possibile che una realtà così unica e particolare - al punto che nelle sue manifestazioni più forti rappresenta una cultura alternativa - possa avere una tale risonanza universale? Negli Stati Uniti la fede protestante ha ormai cessato di dettare il mito costitutivo che unificava la società secondo categorie e narrative cristiane, eccetto che per coloro che vogliono trasformare nuovamente la società in ciò che chiamano "paese cristiano". Questo ha aperto la strada al trionfo di una posizione di neutralità radicale verso le convinzioni religiose come base per l’unità della società. La cultura attualmente dominante è stata costruita sul rigetto della storia e della tradizione, viste come sorgenti di divisione, come ostacoli alla tolleranza, tolleranza necessaria in un mondo multiculturale per il progresso economico e per la radicale libertà di scelta da cui si pensa che un tal mondo dipenda. La Chiesa cattolica negli Stati Uniti, tutta occupata a combattere le discriminazioni dei protestanti, ha finito col cercare rifugio in quella stessa neutralità religiosa pubblica che ha preso il posto del mito unificatore cristiano. Oggi i cattolici negli Stati Uniti, con l’eccezione degli ispanici, hanno perso il senso dell’essere un popolo distinto e concreto, basato su un evento fondante il quale genera una storia e una tradizione che lo definisce. Per di più, quelli che credono che la politica di assoluta neutralità religiosa pubblica sia diventata soltanto un’emarginazione del fatto religioso, sono attratti verso gli sforzi protestanti di ricostruire una "nazione cristiana". Com’è che l’esperienza ebraica di essere scelti non è incompatibile con la sua potente risonanza universale? "L’ignoto genera paura, il Mistero genera stupore": il tema di questo Meeting ci offre uno spunto per rispondere a questa domanda.

La ragione per cui vediamo un conflitto fra Mistero e universalità è che confondiamo il Mistero con l’ignoto. Perciò ci sentiamo minacciati dalla nozione di un Assoluto, di Trascendenza, di Eternità perché sospettiamo che il nostro limite di creature legate allo spazio, al tempo e alla storia non possa sopravvivere a un incontro con tale Assoluto. In tal modo cerchiamo di ridurre il Mistero alle nostre dimensioni, di ridurre l’esperienza religiosa a qualcosa che possiamo controllare. Così facciamo della nostra capacità di controllo la misura di tutta la realtà.

Come è spiegato dal cardinal Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo la nostra nozione di cosa è vero si è evoluta da ciò che esiste – verum est ens – a ciò che è stato fatto da noi – verum quia factum –, a ciò che è fattibile o producibile – verum quia faciendum –. La pretesa religiosa di conoscere la verità attraverso l’esperienza del Mistero è quindi assolutamente rigettata, e l’origine di tale esperienza è attribuita alla paura di fronte all’ignoto. La sopravvivenza di pretese religiose, malgrado questi cambiamenti culturali viene spiegata da Francis Fukuyama, autore de La fine del mondo, nei termini seguenti: "Spesso la religione non è tanto il prodotto di una credenza dogmatica, quanto la fornitrice di un linguaggio vantaggioso che permette alle comunità di esprimere convinzioni morali, che esse manterrebbero anche su fondamenta puramente secolari". Definita in questo modo, la religione può certamente avere un importante ruolo nel trasmettere valori morali, purché non s’intendano questi valori come basati su alcun concetto di verità assoluta. La secolarizzazione del Mistero è certamente la fine della storia, il rifiuto della storia, del valore di una tradizione vivente. In un contesto culturale di questo tipo la sopravvivenza di qualsiasi concetto di elezione o di preferenza è assolutamente impossibile.

Finché il Mistero viene identificato con l’ignoto, con ciò che sfugge al controllo razionale, con ciò che non può essere fatto, è comprensibile che una cultura incapace di vedere l’universalità al di fuori di tali categorie rigetti completamente ogni concetto di una elezione che trae origine da tale Mistero. L’assimilazione in tale cultura segnerebbe perciò la fine dell’esperienza elettiva, dell’essere un popolo. Questa cultura percepirebbe certamente l’esperienza fondativa ebrea come una minaccia.

Io accetto completamente la pretesa ebraica di essere il popolo eletto, e tuttavia non vi trovo alcuna minaccia alla mia propria esperienza religiosa. Come è possibile? Deve essere perché il Mistero da cui proviene l’elezione degli ebrei è lo stesso Mistero all’origine della mia esistenza e identità, e in quanto tale non è l’ignoto che genera paura, ma il Mistero che genera stupore.

Cosa si può sapere di questo Mistero, diverso da tutto ciò che è "ignoto", il cui intervento nella storia particolarizza nel momento stesso in cui universalizza? Con quali categorie saremo capaci di comprendere la presenza di questo Mistero all’interno della storia, una presenza singola e concreta dentro la storia del mistero che giace al di là e all’origine di tutte le storie?

Questo problema ci riguarda tutti, ebrei e cristiani. Nel primo caso, la presenza del Mistero nella storia è 1’esistenza e la vita di un popolo concreto; quello eletto. Nel nostro caso, la presenza del Mistero nella storia sarebbe un singolo uomo che, nondimeno, può essere ora incontrato solo attraverso la vita di un popolo concreto. E se è così, qual è il rapporto tra questi due popoli?

Queste domande sono affascinanti e non possiamo nemmeno sperare di tentare una risposta ora. Tuttavia, vorrei ricapitolare il punto di vista di un uomo, un filosofo appartenente al popolo generato originalmente dalla presenza del Mistero nella storia, la presenza originale da cui fluisce la seconda. Si tratta del filosofo ebreo Emmanuel Levinas.

Levinas pone il problema della presenza del Mistero nella storia nei termini seguenti: "Come possiamo affermare la comunicazione fra i due ordini di fronte a un universo in cui tutto è Dio, in cui tutto è mondo? Come è possibile lo stravagante movimento verso Dio senza minare l’unità dell’ordine che lo rende possibile, come una lotta interplanetaria?".

L’intersezione del Mistero con la storia sarebbe percepito come una radicale perturbazione del suo ordine, che è necessaria, se vogliamo prendere sul serio la sua incarnazione. Quale sarebbe il profilo, la forma di questa perturbazione, se deve essere quella dell’eterno, trascendente, divino Mistero? Quale modo di essere nella storia può soddisfare questi criteri? La risposta di Levinas è l’umiltà. "L’umiltà disturba assolutamente, non è del mondo. Umiltà e povertà sono un portare all’interno dell’essere un modo ontologico e non uno stato sociale. Presentarsi in questa povertà di esilio significa interrompere la coerenza dell’universo. La forza della verità trascendente sta nella sua umiltà". Ovviamente questa è una parola molto semplice del pensiero molto complesso di Levinas, che include anche il concetto di traccia e volto così vicino al pensiero di don Giussani. Nondimeno il pensiero di Levinas non è lo stesso, perché fra lui e don Giussani c’è lo scandalo della singolarità dell’identificazione assoluta di un singolo uomo con il Mistero. Il punto, tuttavia, è che per entrambi l’intervento del Mistero nella storia, un intervento che è allo stesso tempo concreto e particolare, chiede a noi di non identificare il mistero con il radicalmente ignoto opposto alla capacità di conoscenza dell’uomo. Il Mistero è aperto alla nostra conoscenza, ma non ad una conoscenza razionalistica, è aperto ad una conoscenza attraverso lo stupore che risponde ad un’iniziativa del Mistero, stupore davanti alla sua umiltà. Questo stupore genera un giudizio che rappresenta l’atto più alto e più sublime della ragione: la ragione abbraccia il Mistero in un’adorazione amante. Naturalmente ciò è assolutamente incomprensibile in una cultura in cui conoscenza è potere, dove prevale il verum quia faciendum. In tale cultura il Mistero è semplicemente l’ignoto, in quanto tale minaccioso per coloro che non hanno il potere di soggiogarlo o di abbassarlo per controllarlo. In quella cultura qualsiasi pretesa di elezione o di conoscenza di verità assoluta è sicuramente una minaccia alla libertà dei non eletti. La pretesa di verità non è permessa in questa cultura. Per essa è particolarmente offensiva la pretesa che questa conoscenza della verità sia associata con l’appartenenza ad un particolare popolo prescelto che vive secondo i legami e le tradizioni generati da tale scelta.

Il programma educativo di una cultura in cui conoscenza e potere sono identificati deve per forza cercare di distruggere quei legami e quelle tradizioni che hanno origine nell’esperienza dell’elezione. Questo è il caso della cultura oggi dominante, in cui viene evocato il multiculturalismo, non per prendere sul serio le implicazioni delle diverse culture umane ma per distruggere ogni pretesa di una conoscenza della verità che sorga dall’esperienza di appartenere a popoli di tradizione diversa, riducendo queste diversità a manifestazioni folcloristiche di una varietà di esperienze umane puramente sentimentali. Così, mentre apparentemente apre a tutto ciò che è umano, questo falso multiculturalismo non è altro che un modo di neutralizzare possibili minacce ai poteri dominanti.

In tale situazione né all’esperienza ebraica né a quella cattolica viene concesso il diritto di sopravvivere. Quando la conoscenza è accettata come conoscenza del Mistero che interviene nella storia umana, il modo di vivere dei "chosen" che ne risulta mostra quell’umiltà e apertura generate dalla forma stessa dell’incarnazione del Mistero .

Per questo motivo l’ignoto genera paura e il Mistero genera stupore. Questa è la base per un autentico ecumenismo, fondato sul dialogo e su un assoluto rispetto reciproco fra le tradizioni. Questa convinzione rende possibile un gesto come la presentazione di un libro di monsignor Giussani su Cristo, All’origine della pretesa cristiana, presso l’ONU, presentazione fatta da un filosofo ebreo e da un diplomatico musulmano.

Questo ecumenismo sorge in noi dalla nostra esperienza dell’umiltà del Mistero rivelato nel volto di Gesù Cristo che è per noi la Verità, il Cammino e la Vita. Questa autentica conoscenza non genera potere ma amore, amore per tutte le manifestazioni del mistero ineffabile, nelle esperienze di tutti i cuori umani. Questo ecumenismo non è l’espressione della tolleranza generica di un multiculturalismo, che non è nient’altro che lo strumento del potere: è invece l’amore evocato dall’entrata del Mistero nella storia, ed è questo amore che ci spinge a prendere sul serio e con assoluto rispetto l’esperienza di mister Potok come quella di David Horowitz, l’esperienza di quell’unico popolo e tradizione la cui elezione noi affermiamo come la base della nostra.

Horowitz: Recentemente qualcuno mi ha dato un libro intitolato 14.000 cose di cui essere felici. Apparentemente era una lista infinita di cose ed esperienze come mele rosse, buona musica, passeggiate tra i boschi. Ne ho letto diverse pagine, aspettandomi per lo meno di sentirmi più felice. Poi ho riflettuto sul titolo: veramente l’autore pensava che tutte quelle normali fonti di piacere potessero rendermi più felice? Ho chiuso il libro.

Chi era che si stava rivolgendo a me? Ho concluso che probabilmente si trattava di una persona moderna, che credeva che alla felicità si potesse avere accesso come a un sito su World Wide Web. L’autore sembrava credere che io potessi propendere all’infelicità e quindi avessi bisogno che mi fosse ricordato quanto fosse bello il mondo. A questo punto anch’io, essendo una persona moderna, sarei stato felice. Mi chiedo se questa fosse veramente l’intenzione dell’autore, nient’altro, e se non esistesse un significato più profondo del mondo o della felicità. Ma, dopo aver riconosciuto la realtà delle piccole cose menzionate nel libro e la loro possibilità di darci piacere, rimaneva comunque lo stesso pensiero: ci deve essere ben altro.

Don Giussani ha scritto: "La grandezza dell’uomo, l’onore e la gloria dell’uomo, dipendono dal fatto che quest’uomo è in rapporto con l’infinito".

Non posso sottrarmi all’impressione che il desiderio dell’uomo per l’infinito, e quindi il mio stesso desiderio per l’infinito, sia in qualche modo la chiave per la mia ricerca personale della felicità nelle sue componenti di pace, amore, impegno e rapporto con il prossimo. Per lo meno sono certo che l’assenza di queste componenti è l’infelicità, e quando penso alla felicità mi sento spinto verso l’infinito.

Per gran parte di noi, in tutto il mondo e per tutta la storia, credo che Infinito sia un sinonimo di Dio. Nelle opere dell’uomo si percepisce una fede pressoché universale in una definita natura, una personalità, un essere dai poteri soprannaturali, un creatore onnisciente, separato da noi e che comunque può essere conosciuto, che ascolta e che si preoccupa per noi. La storia dell’umanità può essere vista come una lotta continua e sfaccettata al fine di comprendere e definire la natura di questo Essere che esiste al di là del reame dei nostri sensi fisici, una lotta per integrare la sua esistenza nel tessuto delle nostre vite quotidiane. Alla luce di tutte le prove culturali a noi disponibili, si potrebbe concludere che fa parte della nostra natura di esseri umani, e ne è proprio il nucleo stesso, cercare un significato che noi chiamiamo Dio, l’Infinito. Noi siamo creature dell’infinito, noi stessi abitiamo l’infinito e l’infinito a sua volta abita in noi. Questa percezione intuitiva di un potere misterioso nell’universo viene espressa in modo molto elegante da Rilke nel suo poema L’autunno. La vista delle foglie cadute suggerisce alla mente del poeta un’immagine della terra che cade da tutte le altre stelle in solitudine. "Stiamo tutti cadendo e tuttavia c’è qualcuno le cui mani infinitamente calme arrestano questa caduta".

Molti di noi sono nati con un’idea di Dio, proprio come sono nati in una famiglia, in un villaggio, in un paese, in una razza, in una classe sociale, in un certo contesto storico. Questo Dio dei nostri avi esiste dalla nostra nascita, si ritrova nelle nostre prime parole, nella nostra arte, nelle nostre canzoni, nei templi che abbiamo costruito, nella legge, nella medicina, nei nostri nomi e nei nomi delle nostre città. Il nostro Dio è una figura parentale, che ci conosce, ci guida, ci protegge, ci giudica, ci ama e ci perdona. Noi vogliamo sapere che Dio ci sta ascoltando, così scriviamo bellissime preghiere e inni di lode, i Veda indiani di 5000 anni, il canto di Salomone, i canti dei monaci, il coro dell’Alleluia… è così che noi vogliamo avvicinarci e parlare all’infinito. Ci si riferisce alla religione come la sensazione semplice di un rapporto di dipendenza da qualcosa al di sopra di noi, il desiderio di stabilire un rapporto con questo potere misterioso. Noi vogliamo compiacere il nostro Dio e così tutti noi, scintoisti, induisti, animisti, cristiani, musulmani, eschimesi, ebrei, cerchiamo di rispettare le leggi di Dio e i suoi desideri. Noi offriamo noi stessi ai nostri figli al servizio di Dio, promettiamo obbedienza e consacriamo sacrifici, raccolti e luoghi sacri a Dio. Noi discutiamo di come si possa capire ciò che Dio vuole da noi. Fra gli ebrei la traduzione dell’argomentazione della discussione della Torah, la parola di Dio, ha generato più volumi di quanti mai ne possano scrivere studiosi in un’intera vita. Tutta quest’energia applicata al dibattito religioso è un’ulteriore prova della nostra passione nella ricerca dell’infinito.

Noi abbiamo bisogno di sapere se il nostro Dio, o i nostri Dei, ci lasceranno mai veramente morire: la prova della nostra mortalità di esseri umani è fin troppo evidente in un mondo di pericolo, incertezza, carestie, malattie, guerre. Di fronte a queste realtà gran parte di noi ha bisogno di sapere che il problema della vita dopo la morte è risolto; i riti funerari e i monumenti ci ricordano da vicino che questo è il nostro destino di esseri umani. Le nostre spoglie mortali possono essere seppellite oppure affidate alle acque in una canoa nelle Amazzoni, o ancora ridotte in cenere e poi sparse nelle acque del Gange, i nostri corpi possono ricevere l’estrema unzione o possono essere trasportati via dalle aquile sacre, come nell’Himalaya, in ogni caso noi abbiamo preghiere e riti per garantire il nostro continuo rapporto con dio e con l’infinito.

I reperti archeologici rivelano che, laddove ci sono stati esseri umani, ci sono oggetti cerimoniali, figurine, pitture rupestri, abiti, totem interrati lungo migliaia di anni: simboli muti, artefatti della vita quotidiana, che testimoniano la nostra fede nell’infinito, la grande speranza, fatta di fede e necessità di sapere che Dio si preoccupa per noi.

Oggi, in un’era che riteniamo essere secolare, un’era che ha perso il senso delle religioni ancestrali, si può ancora discernere la ricerca di un Dio. All’interno di una nuova cultura globale la nostra necessità del tutto umana di conoscere Dio non è mutata, forse è mutata la nostra prospettiva. Molti di noi lanciano un appello a favore della tolleranza, a favore di un abbraccio, piuttosto che di un rifiuto delle altre fedi e delle altre religioni. Questa nuova posizione forse parla a Dio in modo molto individuale; ma comunque, Dio ascolta tutti.

Per quanto mi riguarda l’impatto con qualcosa di universale più grande di me avviene quando scrivo musica. Per questo motivo non so da dove venga la musica, io stesso sono ammirato dall’atto creativo. Analogamente, in qualsiasi momento sono pienamente consapevole dell’amore della mia famiglia e per la mia famiglia, e del miracolo dell’amicizia. È la sensazione che provo anche nei momenti di tranquillità, in privato, quando la vista di una sola farfalla mi muove alle lacrime; certi passaggi della musica di Beethoven, o un verso di una poesia di Blake o Montale, o ancora, una frase di una canzone, o un’immagine in un film di Fellini, mi riempiono di un desiderio di gioia, gioia di vita, così intenso, che sento che il cuore potrebbe scoppiarmi. Non è soltanto la bellezza di queste cose a commuovermi, credo che ci sia qualcosa di più profondo; è una comunione fra anime, una comunione fra la vita.

Penso che fosse questo il significato di quanto ha scritto un filosofo cinese, 2.500 anni fa. "Conosco la gioia dei pesci nel fiume, attraverso la mia gioia quando passeggio lungo lo stesso fiume". Credo proprio che gli esseri umani abbiano un bisogno infinito. Gli uomini vogliono superare i limiti di una vita terrena, cercano uno stato d’essere in cui ragione e fede, pensiero e sensazione, azione e riposo, tutte queste dualità spesso spaventose dell’esistenza fisica, possano in qualche modo conciliarsi. Hanno bisogno che Dio aiuti e conforti nelle sofferenze, che ispiri a vivere vite migliori, e più piene, che benedica e sostenga nella prosperità.

Potok: Per quanto concerne l’infinito, o il trascendente, tre sono le cose che vorrei evidenziare: innanzitutto che non posso parlarne, sono pochissime le persone che sono state in grado di parlarne con credibilità, che sono state in grado di descrivere esperienze con Dio, che descrivono Dio, l’infinito o il trascendente. Ciò di cui possiamo parlare è il rapporto fra Dio e l’essere umano, è questo l’aspetto di cui possiamo parlare, questo rapporto è un dato di fatto. Se potessi parlare di Dio, significherebbe che io sono Dio, mentre non lo sono: sono un essere umano.

In secondo luogo devo dire che nessuno, assolutamente nessuno, ha il monopolio dell’esperienza con Dio. Infine – ed è la terza cosa – negare la possibilità di quest’esperienza di Dio, equivale a negare uno degli elementi fondamentali della nostra natura umana. Sono uno scrittore, uno scrittore di storie, e come scrittore vorrei raccontare alcune esperienze: i miei incontri con ciò che noi chiamiamo l’infinito o il trascendente.

Quale cittadino degli Stati Uniti sono stato ufficiale nell’esercito americano in Asia per sedici mesi. Quando ero in Giappone una volta vidi un uomo anziano, con una lunga barba bianca, con un libro di preghiere, che pregava davanti ad un idolo; era pienamente assorbito dall’atto della preghiera, ogni fibra del suo essere lo era; ho guardato quell’uomo, e nella mia mente è sorta l’immagine di un anziano in preghiera nella sinagoga in cui sono cresciuto, durante la notte di Young Kippur, la notte più santa di tutta la religione ebraica. Sono stato completamente sopraffatto da quella preghiera, e attraverso quella preghiera, in quel momento, sono entrato in contatto con quello che noi oggi chiamiamo l’infinito, il trascendente; io non lo capii, non l’ho mai capito, sto soltanto raccontando di come sono andate le cose. Per quanto riguarda le implicazioni di quell’evento ho scritto un libro, The book of lights, che racconta dei miei incontri con il mondo asiatico. Questa fusione di esperienze ha universalizzato, per la prima volta nella vita, la mia esperienza con l’infinito, con il trascendente.

Racconterò ora di un’altra esperienza: la nascita del mio primo figlio. Il ginecologo mi lasciò entrare in sala parto, e così ho potuto osservare l’intera procedura, dall’inizio alla fine, e ad un certo punto ho anche aiutato il dottore. Mia moglie era del tutto cosciente, e insieme abbiamo visto nostro figlio nascere: ci siamo resi conto che era una femmina, ho visto mentre la lavavano, ho guardato mentre l’avvolgevano nella coperta, ho sentito il suo primo vagito… Proprio in questo momento, in cui ve la sto raccontando, rivivo l’esperienza con il trascendente, qualcosa accade nella mia mente, nel mio corpo, nel mio cuore, la stessa pressione sanguigna.

Una terza esperienza. Anni fa stavo conducendo una ricerca per il terzo libro che ho scritto Il mio nome è Asher Lev, e a Firenze ho visto la Pietà di Michelangelo. Avevo visto delle fotografie della Pietà, ma avvicinarmi a quella pietra e vederla come viva, con l’agonia di quella madre, con quella drammaticità incredibile nella storia cristiana, è stata ancora una volta un’esperienza che mi ha completamente sopraffatto. Questo è stato un contatto con il trascendente, del quale ho scritto nel romanzo.

Una quarta storia che racconto non è mia, appartiene ad un libro la cui edizione non è ancora terminata, un libro di Isaac Stern con cui ho collaborato, dal titolo Il violinista. Si racconta di un concerto nel quale il protagonista ha suonato la notte in cui il presidente J.F.K. fu assassinato. "Ho suonato Bach, e mentre si avvicinava la fine, non riuscivo più a trattenere le lacrime, non penso vi fosse un solo individuo fra il pubblico che non percepisse un senso di perdita personale che si associava alla morte di Kennedy". La musica è usata per esprimere le proprie sensazioni in uno dei momenti cruciali della vita degli Stati Uniti. Ciascuno di noi ha avuto, nella sua vita, un momento in cui ha vissuto un’esperienza che non può essere tradotta in parole, che ci spinge ad uscire da noi stessi per raggiungere qualsiasi cosa ci circondi.

Un’ultima osservazione sugli elementi che compongono l’uomo: la conoscenza, il mondo fisico, una penna, un foglio di carta, l’atmosfera, la terra, il mondo degli scienziati… e ancora l’azione, quanto facciamo nel tentativo di capire come comportarci gli uni nei confronti degli altri in questo mondo, la fede, le speranze, i sogni per il futuro, gli obiettivi, l’eternità, l’infinito, il trascendente... Tutti questi elementi costituiscono la base della nostra ricerca, della nostra immaginazione, della nostra scelta, della nostra esperienza, del nostro viaggio, dello sconosciuto, dell’ignoto.

Cesana: Il desiderio di infinito ci attrae dentro ad un’esperienza vertiginosa in cui sembra di perdersi; tuttavia, di fronte a questo desiderio che ci è stato dato e che fa parte della nostra vita, quasi più di noi stessi, mai l’uomo si rassegna a non desiderare.

La congiunzione tra il trascendente e il mondo fisico, tra il trascendente ed il terreno, non può che essere qualcosa di umile, un fatto umile. Quando ho visto pregare di fronte al tempio di Gerusalemme mi ha colpito l’umiltà di questa azione e al contempo la grandissima forza che contiene.

Inoltre, questo infinito deve rispondere all’uomo. Ho presente una frase che mister Potok riporta nell’introduzione al suo libro La scelta di Reuven: "Se tu non risponderai a noi, noi non saremo più il tuo popolo". Questo Infinito non può essere misurato dall’uomo, ma deve riempire la sua ragione e la sua libertà, altrimenti non serve veramente a nulla, sarebbe come essere stati fatti male. E certamente in questa ricerca ciascuno parte dalla sua tradizione: è l’unico modo. Però, proprio perché parto dalla mia, non posso tacere – seppure con grandissimo pudore, e senza pretendere di insegnare o convertire nessuno – l’aspetto più misterioso, almeno per me, di questo Infinito, o l’evento più misterioso, che si chiama Gesù Cristo; un uomo che lega l’infinito alla storia di altri uomini, e che, in fondo, congiunge storie così diverse. Comunque, io spero che l’incontro di oggi aiuti ciascuno di noi a sentire sia la dignità cui siamo stati chiamati, sia il pudore di ritenere di definire ciò che pur essendo più grande di noi è dentro la nostra vita.