Si può raccontare il destino?
Le "storie" di Chaim Potok

Martedì 24, ore 11.30

Relatore:

Chaim Potok,
Scrittore

Moderatore:

Luca Doninelli

Doninelli: Chaim Potok non ha bisogno di presentazione. Ripercorrendo tutta la sua carriera letteraria ci si accorge, a mio parere e anche di molti altri che contano più di me, che è uno dei più grandi scrittori viventi. Non esiste lo "scrittorometro" per stabilire la grandezza o la piccolezza di uno scrittore, il fatto però è che tanti hanno cominciato a leggere i suoi libri e si sono commossi. Il suo primo libro che molti hanno incontrato e sicuramente amato si intitola Il mio nome è Asher Lev; da lì è iniziata tutta la scoperta di Chaim Potok, passando attraverso quel capolavoro che è Danny l’eletto, una sorta di passaggio tra la narrativa del suo predecessore Isaac Bashevis Singer e tutta la problematica successiva che Potok ha affrontato.

Hölderlin si domandava: "A che servono i poeti nel tempo dell’angoscia?". Noi analogamente ci domandiamo: cosa significa raccontare storie (il romanziere è uno che racconta storie) in un’epoca in cui si sta smarrendo il senso del tempo, in cui il tempo sembra una successione di momenti che non hanno nessun rapporto, di momenti, di preoccupazioni, di occupazioni che sembrano non avere più nessun rapporto tra di loro? Chi scrive romanzi, chi scrive storie, chi racconta storie non può, se è serio, non affrontare il tema del destino. Anche per Potok qualcosa che ha inizio, non può che avere uno svolgimento e una fine. Perché le storie finiscono.

Cosa significa, dunque, scrivere in un’epoca senza storia?

Potok: In un’era di angoscia e di ansia noi abbiamo bisogno di storie più che in qualsiasi periodo di quiete, semmai nella storia della nostra specie sia mai esistito un periodo di quiete. Noi abbiamo sempre raccontato storie, fin dall’inizio della nostra specie: le storie sono il modo grazie al quale diamo un significato alla nostra vita. Non è vero che non si raccontano più storie: è vero piuttosto che le storie che raccontiamo oggi sono di tipo diverso da quelle che eravamo soliti raccontare prima dell’era moderna. La differenza rispetto alle storie di un tempo sta nel fatto che l’azione una volta avveniva dall’alto verso il basso, da Dio verso il basso. Noi eravamo coloro che ricevevano, i riceventi; eravamo i soggetti della portata della storia. Gli dei del mondo pagano agivano su di noi, così il Dio della religione ebraica e della religione cristiana si rivela a noi. Nel mondo moderno invece al centro della storia vi è questo nostro sforzo di dare un significato al mondo: è questo che è mutato in modo radicale. Noi siamo al centro della storia, l’umanità è al centro della storia, e dunque noi cerchiamo di attribuire un significato al mondo tramite la nostra percezione della realtà del mondo.

C’è un altro elemento che è molto importante capire: noi crediamo di capire molto meglio, rispetto a prima dell’epoca moderna, come funziona il mondo. Qual è il risultato di questo cambiamento su di noi? Il risultato risiede proprio nelle nuove storie. L’essere umano è oggi molto importante per noi e al contempo noi riteniamo molto importante questo senso di appartenenza alla comunità. La comunità è il nostro patrimonio, è un retaggio delle vecchie storie, è quanto abbiamo in comune con le vecchie storie. L’individuo, invece, è la nuova storia, è la nostra nuova comprensione nella nuova storia. La tensione fra l’individuo solo che aspira alla propria realizzazione e la comunità è proprio l’argomento delle storie moderne, diversamente da quanto avveniva in passato. La vita non è semplice, così le storie non sono semplici, la vita è tragica e allo stesso modo le storie sono tragiche, la vita è piena di domande difficili e allo stesso modo le storie sono colme di domande difficili.

Ma c’è un altro aspetto molto importante: noi abbiamo bisogno di queste storie. Noi abbiamo bisogno di collegare i diversi elementi della nostra vita in una storia. Chi è senza storia non è vivo. Chi sente che la propria vita non ha più storia, viene definito nel linguaggio odierno un depresso. Noi abbiamo bisogno di storie, soprattutto abbiamo bisogno di imparare a leggere e capire le nuove storie. Dobbiamo capire il nuovo tipo di storia che gli autori moderni oggi scrivono.

Doninelli: Potok ci parla di una natura essenzialmente drammatica del narrare storie oggi: da un lato esiste questa discesa nell’individualismo – tutta la cultura moderna percepisce la storia come qualcosa che accade ad un io –, dall’altro esiste il retaggio, nella cultura ebraica, di una concezione comune dell’esistenza, sicuramente più forte di quella delle altre cultura. Giovanni Testori mi diceva sempre: "L’arte moderna dice cose che il pensiero moderno non dice". Esiste una concretezza, esiste una drammaticità, che il pensiero comune che ci circonda nega. Che lotta bisogna sostenere, dunque, affinché la verità che ci viene dalla tradizione non vada persa? Che lotta deve sostenere l’artista, quindi anche lo scrittore, perché questa verità, che ci è stata tramandata, sia significativa, e non sia soltanto il ricordo di un tempo passato?

Potok: La mia comunità, innanzitutto, non è solo quella ebraica: sono un americano e dunque appartengo alla civiltà occidentale. Sono stato in Corea sedici mesi come ufficiale dell’esercito americano ed ero cappellano per tutte le religioni, inclusa quella cattolica. Al fronte ho amministrato a protestanti, ebrei e cattolici. Sono un cittadino americano e il mio dialogo non è soltanto con il mondo ebraico, ma anche con il mondo americano. L’artista moderno a cui Doninelli ha fatto riferimento è l’esempio calzante dell’individuo: l’artista moderno cerca disperatamente di esprimere la propria visione del mondo.

L’artista moderno può conoscere la storia, l’intera storia dell’arte moderna o dell’arte occidentale che lo ha preceduto, ma questo può anche non essere vero. Picasso conosceva la storia dell’arte occidentale e ha fatto un ulteriore passo avanti: ha demolito questa tradizione. Un aspetto secondo me interessante è che anche il più radicale degli artisti moderni vuole che il pubblico apprezzi la sua opera: l’artista dialoga quindi con la comunità, e anche quando l’artista colpisce duramente la comunità, desidera che la comunità lo ascolti, lo capisca e acquisti le sue opere.

Vorrei cercare ora di dare una risposta diretta all’ultima domanda che mi è stata rivolta. Asher Lev, Danny e tutti gli altri personaggi dei quali ho scritto, provengono dal cuore della tradizione. I personaggi della mia opera, però, non vogliono vivere con la tradizione, ed è questo che differenzia il mio lavoro dal lavoro di altri scrittori ebrei. I miei personaggi sono cresciuti nella tradizione, capiscono la tradizione e ad un certo momento della loro vita si rendono conto che c’è un altro elemento che conta, di cui la tradizione non ha tenuto conto in modo corretto: l’elemento individuale. Noi siamo tutti individui, nella tradizione cristiana e nella tradizione ebrea, nel cristianesimo e nel giudaismo. Non esiste una massa di persone; il cristianesimo e il giudaismo riconoscono l’importanza della salvezza dell’individuo.

C’è un’altra differenza rispetto al passato nel modo in cui ci comprendiamo nell’era moderna: per la prima volta nella storia della specie umana, noi comprendiamo con le nostre menti come costruire il mondo. Il mondo non è più al di fuori di noi, non è più dato a noi. Noi e il nostro modo di essere creiamo quello che percepiamo essere il mondo. Al centro non c’è più l’esterno, e noi siamo i creatori dell’esterno: questo è importante per capire Danny Saunders e Asher Lev. Questo modo di vedere l’io ci arriva da Kant e da Hegel, che hanno creato l’individuo della cultura moderna. Col passare del tempo, soprattutto nella fascia di età fra i 13 e 19 anni, esploriamo il mondo che ci circonda e ci rendiamo conto che esiste un modo diverso di costruire il mondo, diverso da come ci era stato insegnato: questo è l’io. È l’io che mette in discussione il proprio rapporto con la comunità. Io sono nato nella comunità ebraica americana, voi siete nati nella comunità cattolica: crescendo comprenderete che esiste un diverso modo di capire il mondo, esiste una tensione fra la comunità come nucleo e l’io come nucleo, l’io che si vuole realizzare.

È proprio questo rapporto fra comunità ed io che voglio esplorare. Per rispondere direttamente alla domanda circa la lotta per mantenere in vita questa realtà, posso dire soltanto che questa lotta è del tutto privata e personale. Ciascuno di noi deve trovare un equilibrio fra queste due posizioni, e lo deve trovare da solo. A volte questi tentativi di stabilire un equilibrio hanno successo come nel caso di Danny Saunders, a volte non lo hanno, come nel caso di Asher Lev. Sono convinto che oggi – per il futuro non posso anticipare nulla – questa lotta debba essere portata avanti all’interno della comunità senza uscire dalla comunità. Solo così si ha arricchimento, sia personale, sia della comunità, naturalmente con tutti problemi che ne possono derivare.

Doninelli: Non esiste dunque solo la tradizione, ma esiste una sfida che la realtà fa all’io. Da Kant ad oggi la realtà è diventata fragile, nel senso che l’io tende ad essere il creatore del mondo intorno a sé. La lotta per affermare una verità ricevuta dentro questa realtà, avviene in modo più proficuo permanendo all’interno di una appartenenza. L’appartenenza ad una comunità rende l’uomo più forte.

Sembra di intravedere nell’opera di Potok, basti pensare al silenzio in Danny l’eletto, un protagonista spesso presente: il profeta. Il profeta non è solo uno che predice il futuro, è un uomo che parla davanti alla sua gente, e tante volte dice cose che la sua gente non vuole sentirsi dire. Cosa significa questo nell’opera di Potok e come vive questo tema così vitale dentro tutta la storia del popolo ebraico, ma anche dentro la nostra storia?

Potok: Il silenzio in Danny l’eletto è un tema in merito al quale mi vengono spessissimo poste domande. All’Università della Pennsylvania tengo un corso dal titolo La ricerca nell’era del post-modernismo. Una delle domande più importanti che mi viene posta durante le mie lezioni è come sia possibile raccontare le storie oggi quando tutti sappiamo come combinare e separare i diversi elementi di una storia. Un elemento fondamentale del mondo post-moderno è che quando un autore conclude il suo libro egli non è né oracolo né profeta, ma diventa invece lettore del suo libro. Pertanto lascerò a voi il compito di scoprire che cosa significhi il silenzio in Danny l’eletto.

Come lettore, tuttavia, vi darò un’interpretazione di questo silenzio del quale ho scritto. Innanzitutto potrebbe essere una metafora del silenzio di Dio nel XX secolo. In secondo luogo, questo silenzio potrebbe rappresentare il silenzio che pervade le comunità religiose che sono giunte a noi dall’era premoderna come il giudaismo e il cristianesimo, il silenzio sui temi più difficili dell’era moderna. Non mi riferisco alle questioni banali, alle assurdità, alla cultura pop, alla spazzatura, mi riferisco ai temi fondamentali che riguardano la natura e il destino dell’umanità. La tradizione classica fino a 40-50 anni fa rimaneva in silenzio, sulla difensiva, ostile nei confronti di questi temi

Quella che è stata chiamata la voce della profezia in Il mio nome è Asher Lev e in Danny l’eletto probabilmente è la voce della comunità, la voce di una coscienza di un mondo religioso che vuole tenersi ben stretta la propria natura, la verità di fronte a questi quesiti fondamentali della nostra era.

Doninelli: La profezia rappresenta la voce della comunità, un’ipotesi con cui l’io affronta la realtà. La realtà mette alla prova questa ipotesi. Essere cristiano per me significa questo.

Nella tradizione ebraica, della quale io stesso sono inevitabilmente figlio (i cattolici leggono la Bibbia in Chiesa) il profeta rappresenta il senso della vita del popolo. Il profeta talvolta figura anche come il nemico del popolo, che lo condanna. In Il mio nome è Asher Lev questa forza impressionante è rappresentata dalla metafora dell’arte, la metafora della croce: Asher sfida suo padre e una tradizione che non ama le immagini e la rappresentazione delle immagini.

Questa è una sfida alla tradizione affinché sia più se stessa, cioè giunga di più alla propria verità, eliminando gli aspetti formali. Spesso il popolo ebraico si arresta alla forma, e il profeta è colui che invece ricorda sempre al popolo qual è la volontà di Dio, cosa significa Dio per il popolo. In questo senso il profeta è colui che spinge sempre la comunità e la tradizione a vivere per il proprio significato. È commovente il fatto che Potok parli della croce di Cristo. Cosa significano per Potok la croce e la pietà?

Potok: Il profeta è colui che si oppone, che combatte la religione popolare, i comuni fraintendimenti di quello che è il messaggio di Dio. Nella sinagoga c’erano le parole del profeta e il profeta diceva: "Pensi davvero, con questi sacrifici, di obbedire alla volontà di Dio? Chi ha bisogno di questi sacrifici e di questi digiuni?" Dio ha bisogno del cuore, dell’intenzione, e la cultura ebraica è proprio questa ricerca di un equilibrio fra azioni ed intenti che ci contraddistingue: azione ed intenti sono entrambi necessari.

Per quanto riguarda il tema della crocifissione, un anno prima di scrivere Il mio nome è Asher Lev, ho viaggiato in Italia e ho visitato la Pietà di Michelangelo a Firenze. Sono stato sopraffatto da questa scultura vivente che mi pareva respirare, sono stato sopraffatto dalle sofferenze della madre. Mi è sembrato che l’individuo che nell’era premoderna diviene al massimo un cittadino di seconda classe, fosse al centro di una delle più importanti opere d’arte della nostra storia. Questo è il motivo per cui mentre scrivevo Il mio nome è Asher Lev ho deciso che la madre di Asher Lev avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel libro.

Ci sono due elementi che è importante comprendere per quanto riguarda la crocifissione in Asher Lev. Innanzitutto mai gli ebrei, pur avendo preso parte a tutti gli eventi della storia della cultura occidentale, persino nel Medioevo non hanno partecipato all’arte. Questo perché l’arte è soprattutto cristiana, e dunque ha il proprio centro in Cristo: come potevano gli ebrei partecipare all’arte?

In secondo luogo, non è vero che gli ebrei considerassero Cristo come la radice di tutti i mali. Il fatto è che la cristianità si è presentata al mondo per essere la continuazione del giudaismo, sostenendo che per gli ebrei la storia era finita e che si apriva ora una nuova storia. La cristianità si è tramutata in una religione di persecuzione nei confronti degli ebrei soltanto nel periodo delle crociate, non prima. Prima era soltanto un concorrente del giudaismo, non un persecutore.

Qui entra in gioco Asher Lev. Dal momento che gli ebrei non hanno partecipato allo sviluppo dell’arte occidentale, non esiste una presenza ebraica nel patrimonio artistico ad eccezione di Rembrant nel Rinascimento. Non esiste una rappresentazione ebraica della sofferenza nell’arte occidentale.

Nell’era moderna sono intervenuti degli sviluppi per quanto riguarda la crocifissione. Nell’era premoderna la crocifissione era un’opera sacra: l’intento era quello di far partecipare l’osservatore all’atto della crocifissione. Il dipinto era sacro, non importa quante rappresentazioni della crocifissione ci fossero. Nell’era moderna invece la crocifissione quale tema dell’arte occidentale è stata desacralizzata. Picasso, pagano, poteva, finalmente, dipingere una crocifissione, e lo ha fatto. Per descrivere le sofferenze degli ebrei russi, Chagall ha dipinto una crocifissione.

Asher Lev, dunque, che vuole descrivere la sofferenza della madre, guarda l’arte occidentale e l’unico tema a lui consono è quello della crocifissione, simbolo di tormento prolungato e solitario. Asher Lev è un artista che vuole dipingere le proprie sensazioni, è un artista che sta a fianco dell’arte a qualsiasi costo. Asher Lev dipinge la crocifissione ed è costretto a pagare il prezzo di questa sua scelta.

Doninelli: Un professore di cultura ebraica rivolgendosi a Potok gli disse che nei suoi libri si parla molto della legge, della Torah e poco di Dio. La sua risposta fu così grande che andrebbe ricordata.

Potok: Ho dato diverse risposte a quella domanda, soprattutto in riferimento al tema del trascendente. Noi non parliamo a Dio, noi parliamo a quella che è la nostra comprensione di come Dio si pone nei nostri confronti. Cosa sia Dio è assolutamente al di là della piccolezza e della finitezza della nostra mente umana. Se io potessi parlare a Dio, sarei Dio. Se è già difficile per me entrare in contatto con un’altra persona, perché non posso penetrare nella sua mente, a maggior ragione è impossibile per me rivolgermi a Dio. Mi rivolgo a quella che è la mia speranza di Dio. Secondo la tradizione ebraica Dio è, Dio è ovunque, Dio è parte del mondo ed è ovunque: per questo noi ebrei non ne parliamo molto, sia che si tratti di una entità femminile, maschile o ancora di un’entità neutra, un "it", come si dice in inglese. Noi certo litighiamo con Dio, lo ringraziamo, lo accusiamo, ci lamentiamo con lui… ma l’unica cosa che si può dire è che questa entità è ovunque.

Se è così, di cosa parliamo quando ci rivolgiamo a Dio, quando trattiamo di Dio? Parliamo della legge, della Torah, parliamo dell’insegnamento di Dio.

Doninelli: Dio nella tradizione cristiana si è presentato a noi attraverso una storia. Noi non aderiamo a Dio se non attraverso i segni cioè attraverso una modalità storica, attraverso la quale misteriosamente lui, il Mistero, ci tocca.

L’uomo di fede non parla molto di Dio, cerca di fare la volontà di Dio. Il secondo comandamento infatti recita: "Non nominare il nome di Dio invano". Ciò non significa solo che non bisogna bestemmiare: quando uno comincia a parlare tanto di Dio, vuol dire che è di fronte ad una crisi, vuol dire che non crede più tanto. L’uomo di fede è uno che cerca di stare davanti a Dio dentro le circostanze che lo toccano, perché Dio è dappertutto. Se Dio è dappertutto, allora è anche dentro queste circostanze.