Viva Cristo Re!
Il martirio del Messico 1926-29

Presentazione della mostra

Domenica 22, ore 18.30

Relatori:

Guzman Carriquiry,
Sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici

Adolfo Morganti,
Storico, Direttore delle Edizioni
Il Cerchio

Paolo Gulisano,
Docente presso l’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano

Carriquiry: Come vengono scelti alcuni temi delle mostre del Meeting? Perché scegliere la Cristiada, il movimento dei cristeros? Per un interesse accademico? Per mettere in risalto un grande fatto storico certamente ignorato e censurato dalla cultura accademica, non soltanto europea, anche latino-americana, spesso non sufficientemente condiviso, né capito, in certi parecchi settori ecclesiastici?

Forse c’è qualcosa di più, di cui magari non è stato consapevole neppure il Meeting stesso nell’organizzare la mostra: questo tema ha risvolti di grandissima attualità. Il primo legame è da fare con il 21 maggio del 2000, perché il 21 maggio del 2000, nel quadro del Giubileo, nella piazza San Pietro, presieduta da Giovanni Paolo II avverrà la canonizzazione di venticinque martiri messicani, propriamente del tempo della Cristiada, che si aggiungeranno a quelli già canonizzati nel passato dallo stesso Pontefice, tra i quali spicca la figura del padre Miguel Agustín Pro. La Tertio Millennio Adveniente di Giovanni Paolo II chiedeva di mettere in luce i martiri, non solo cattolici, ma cristiani, quindi in dimensione ecumenica, ricapitolando così il XX secolo.

La Cristiada è una straordinaria, commovente epopea storica, una grande testimonianza della fede del popolo messicano – popolo indigeno, meticcio, contadino –, in resistenza alla brutale persecuzione di un regime segnato dall’odio verso la fede del proprio popolo, popolo per il quale vale il ben noto detto: "Il 90 per cento cattolici e il 98 per cento guadalupari".

La prima resistenza dei cristeros fu pacifica; poi, esaurite le vie del negoziato possibile di fronte alla persecuzione, ci fu il sollevamento armato di questo popolo, sollevamento spontaneo, senza che ci fosse il clero a incoraggiare o a capeggiarlo. Fu un sollevamento spontaneo, di padre a madre, di madre a figli, di casa in casa, di villaggio in villaggio, organizzatosi a modo di guerra, di guerriglie, perfino con un primo esercito disarmato per mettere in scacco al regime del partito-stato nel Messico post rivoluzionario.

Ma c’è anche un altro risvolto di grande attualità, un altro fattore decisivo di cui tenere conto: oggi si sta concludendo quel vasto ciclo storico sotto l’impero del partito-stato, del quale il presidente Calles, il persecutore della Cristiada, fu uno degli esponenti tipici e più estremisti.

Oggi alla fine del XX secolo crolla un altro muro; nel concludersi di questo ciclo storico e crollando questo muro il nostro sguardo si allarga alla storia messicana a modo di revisione culturale, oltre le cortine fumogene dell’ideologia ufficiale del regime che pretendeva di riappropriarsi di tutto il fenomeno della rivoluzione messicana. Revisione storica, revisione culturale, ripensamento del Messico come nazione, senza pensare al Messico solo per il suo cosiddetto momento critico decisivo, che sarebbe il momento in cui il paese vive di tutti i sommovimenti tremendi del mercato comune, magari modernizzandosi, ma lasciando esclusi più di trenta milioni di messicani dalla cultura.

Il terzo fattore di attualità è che la Cristiada è un segno tra gli altri di qualcosa che diventa oggi consapevolezza universale: il popolo messicano ha ricevuto doni singolarissimi della provvidenza di Dio. Se andrete in Messico, esperienza appassionante, vi troverete con un fatto anomalo nel contesto mondiale odierno, perché vi troverete un cattolicesimo che è fatto di popolo, di popolo profondamente radicato nella tradizione, nella cultura, nell’identità, nella vita del popolo messicano, in particolare dei poveri nel Messico. Questo significa che il popolo messicano ha ricevuto un dono singolarissimo della fede nel processo di evangelizzazione e di inculturazione della fede.

Questo popolo ha ricevuto durante la prima evangelizzazione un altro dono straordinario: la visita della Madonna, nelle apparizioni di Nostra Signora di Guadalupe, nel Tepeyac, all’indigeno Juan Diego. Dicono le cronache che dal momento di questa apparizione della Madonna rivestita degli abiti di azteca e pedagoga del Vangelo, l’abbattuto popolo indigeno riscopre una nuova dignità, così che dove aveva sovrabbondato il peccato comincia a sovrabbondare la grazia. Questa Madonna stabilisce con il popolo un’alleanza tutta particolare, un’alleanza a protezione e conforto durante tutta la storia, come è evidente dalla bandiera della Cristiada "Viva Cristo Rey y nuestra Señora de Guadalupe"! Se avrete occasione di andare nel santuario il 12 di dicembre, festa di Nostra Signora di Guadalupe, appena dichiarata dal Papa patrona per tutto il continente americano, vi trovereste a vedere una manifestazione di popolo molto difficile da uguagliare.

Questo popolo è stato provato, e questo è un altro dono singolare della provvidenza, dalle origini fino ai tempi attuali dalla persecuzione, è stato sostenuto dai doni dei suoi martiri, dai primi indigeni battezzati all’inizio della evangelizzazione ai tanti martiri del dopo la Cristiada, fino a ieri, al cardinale Posadas Ocampo, arcivescovo di Guadalajara, ucciso premeditatamente, in forma molto violenta, martire del nostro tempo; perfino all’origine del popolo messicano c’è il primo martire americano, nel Giappone, Felipe de Jesus, all’inizio del XVI secolo, che segna una vocazione "ad gentes", la vocazione cattolica che si pone a una Chiesa che ha ricevuto tanti doni e che dunque ha la responsabilità di coltivarli in seno al proprio popolo e alla propria nazione e successivamente di ridarli anche a tutta la cattolicità.

"Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani" diceva Tertulliano: infatti nel XX secolo non c’è un’altra Chiesa in un altro paese che sia stata così culla di carismi fondazionali, di comunità religiose, di società di vita apostolica, di istituti secolari, di movimenti ecclesiali come il Messico, perfino sapendo accogliere e far fruttificare molte realtà ecclesiali nate in altre parti del mondo. Il seminario di Guadalajara è il seminario cattolico che oggi ospita il più grande numero di seminaristi.

Credo che il Papa, dall’inizio del suo pontificato, abbia dapprima intuito, dopo saputo consapevolmente, questa singolarità del popolo messicano nella comunione della cattolicità, cattolicità che si apre al terzo millennio.

Non è per caso che il pontificato di Giovanni Paolo II si apre e si inaugura con un primo viaggio apostolico in Messico, che lo stesso Papa riconosce come decisivo. Il primo in Messico, il secondo in Polonia: le frontiere critiche di Yalta nel mondo bipolare. Il Papa è andato in Messico per incontrare il popolo messicano come suo interlocutore ed anche per parlare dal Messico a tutta l’America Latina, nella terza conferenza generale dell’episcopato a Puebla, che proprio il Papa ha inaugurato.

I due successivi viaggi del Papa in Messico furono molto importanti, soprattutto nel contesto di un nuovo modus vivendi, del clima di maggiore rispetto e libertà instauratosi tra lo Stato e la Chiesa messicana.

Anche il quarto viaggio ha una singolarità impressionante: il Papa ritorna in Messico, ritorna al santuario di Guadalupe e porta ai piedi della Madonna le conclusioni del sinodo americano. È significativo che nei nostri tempi di globalizzazione il Papa porti in Messico le conclusioni e gli impegni della Chiesa di tutta l’America, non solo dell’America Latina: il Messico è infatti la grande frontiera nella quale si incontrano e scontrano la grande espansione mondiale della prima potenza mondiale, gli Stati Uniti d’America, e la tradizione popolare del cattolicesimo latino-americano. È un crocevia fondamentale, e la simmetria impressionante del potere politico e di quello economico statunitensi, trovano nel Messico la resistenza di radici culturali molto più profonde di quelle degli Stati Uniti, poiché il Messico ha una grande capacità di autoidentificazione culturale del proprio popolo, si prolunga perfino nella immigrazione massiccia e nella presenza massiccia degli hispanos, i messicani immigrati negli Stati Uniti, che sono ormai la maggioranza della popolazione negli Stati del Sud.

Nel Messico c’è questo crocevia, dove si giocano questioni economiche fondamentali: c’è ovviamente il rischio dell’assimilazione economica completa del Messico da parte degli Stati Uniti, e d’altro canto cresce la promessa dell’asse di integrazione dell’America del Sud. Argentina, Brasile e Messico costituiscono una sorta di triangolo di resistenza verso un dialogo più equo e dunque più degno, più fraterno dell’America Latina con gli Stati Uniti. Dal Messico passano anche le grandi sfide delle sette delle comunità pentecostali ed evangeliche provenienti dal Sud degli Stati Uniti, da lì passano tutti i nuovi movimenti religiosi eclettici che attraverso le tradizioni delle religioni orientali inculturate nella California, scendono per via messicana. Il Messico è la grande frontiera per noi, è il crocevia fondamentale; se l’America Latina avrà la metà dei battezzati di tutta la cattolicità all’inizio del terzo millennio, potete essere sicuri che nel Messico il destino di gran parte di questi battezzati si gioca in modo urgente e attuale.

La Cristiada ci pone di fronte a un fatto storico impressionante che purtroppo non si conosce molto, e ci porta anche di fronte alla presenza del popolo messicano e della Chiesa messicana, della quale certamente sentiremo parlare all’inizio del terzo millennio cristiano.

Morganti: L’idea di Franco Cardini nel scegliere i temi delle mostre del Meeting è quella di recuperare in tutti i modi, a partire dalla coscienza culturale e storica, l’identità dell’Europa, che è un’identità che si cristallizza nel simbolo "chrismum constantinianum", la fusione storica, epocale e inimitabile di romanità filosofica, giuridica e culturale e di cristianesimo.

Questa è l’identità europea, senza la quale l’Europa non ci sarebbe o diventerebbe qualcos’altro – l’Europa del latte o l’Europa della misura delle banane –, perché senza questa identità profonda noi non siamo, siamo semplicemente dei numeri o delle carte d’identità. Sulla base di questa intuizione fondamentale il pubblico del Meeting ormai ci conosce, e ha seguìto una serie di tappe e di argomenti: dalla mostra sulle insorgenze antigiacobine in Italia, nel 1997, alla mostra sul martirio del popolo di Scozia l’anno scorso, e quest’anno il Messico.

Questo percorso ci fu stimolato dall’amicizia con Reynal Secher, che venne qui nel 1994 per curare la magnifica mostra sul bicentenario della Vandea.

Esiste un martirologio nascosto nella storia che va tirato fuori grano per grano, perché senza conoscere ogni grano di quel rosario noi non sappiamo chi siamo, ci illudiamo di avere un’identità cristiana e non l’abbiamo, ci illudiamo di saper costruire una cultura cristiana e non la sappiamo costruire. Senza questa profondità noi mentiamo a noi stessi.

Da questo punto di vista la storia del Messico è una lezione per tutti noi, perché conoscendola ci riempie di sensi di colpa. Il nostro paese, l’Italia, non solo ha la bandiera degli stessi colori, ha anche altre caratteristiche molto simili: è erede di una cultura enorme, quella romana, così come il Messico è erede di una grande cultura, quella dell’impero azteca. Sia in Italia che in Messico l’arrivo del cristianesimo si è svolto tramite un’inculturazione assolutamente originale, quindi rispettosa della cultura precedente: nella mostra è esposta la pagina di uno dei primi catechismi fatti dai francescani nel ’500, scritto in caratteri ideogrammatici, perché si rivolgeva ad un pubblico che era abituato a parlare e a scrivere in questo modo. Il cristianesimo è dunque passato attraverso le forme culturali di una cultura india, ed ha dato vita ad una civiltà religiosa e culturale del tutto vera, autonoma, irriducibile alle componenti precedenti. Ad un certo punto della storia l’urto della modernità ha toccato noi in Italia e loro in Messico; in Italia il popolo cattolico ha reagito, in maniera efficace e profonda, lasciando dietro di sé una storia di martiri, di santi, di esempi commoventi, come abbiamo visti anche qui al Meeting negli anni scorsi. In Messico c’è stato qualcosa di diverso: c’è stata un’élite che non ha tradito; mentre le nostre élites, in Italia, lo hanno fatto; lì, abbiamo avuto la parata di generaloni tronfi, col petto pieno di medaglie, contenti di farsi fotografare in giacca e cravatta vicino all’ambasciatore degli Stati Uniti d’America… contemporaneamente però esisteva un’élite culturale cattolica, che però si è vista gradatamente aggredire da un processo di secolarizzazione, lo stesso processo che qui in Italia ha morso in profondità.

Lo studio dell’esempio di questo popolo unico al mondo ci serve per delle considerazioni di strettissima attualità: come associazione culturale "Identità Europea", dobbiamo dire che il Messico è un pezzo d’Europa, perché appartiene all’Europa cristiana, alla quale il Messico ha continuato e continua a richiamarsi tutte le volte che ha voluto cercare di difendersi: rileggendo ad esempio – senza gli occhiali deformanti dell’ideologia –, l’avventura di Massimiliano d’Asburgo, essa assume questo significato. Per quale motivo, infatti, andare a prendere un monarca in Europa? Quel monarca voleva essere, ha cercato di essere, ed è morto perché il padre voleva essere, un monarca cattolico: ovviamente è finito fucilato, primo di una lunga serie.

In effetti il Messico, così come tante altre parti del continente americano – come il Quebec – rappresentano delle parti d’Europa che si sono espanse per tutto ciò che l’Europa aveva d’importante da dire nel mondo; hanno incontrato altre culture, vi si sono fuse e richiedono da noi, dall’Europa, un sussulto di dignità e di vitalità culturale.

È verissimo infine che l’attualità della Cristiada non si è fermata nel 1929: l’esempio dei martiri deve farci riflettere personalmente. L’avventura di padre Pro, questo signore che non era una meteora sfolgorante e isolata, ma era piuttosto un esempio di un popolo in movimento, rende difficile evitare di guardarsi, e di vedere riflesso, proprio per contrasto, tutto il numero infinito delle proprie personali e delle nostre comunitarie viltà… credo che la nostra funzione in questo momento sia quella di ritornare spiritualmente nani sulle spalle di giganti, e apprendere da loro cosa può voler dire il sangue dei martiri, cosa può voler dire la frase "il vero cristiano non può far altro che essere perseguitato", frase che tutti noi ripetiamo, perché ripeterla costa molto poco.

Oggi in Italia ci sono sintomi pericolosi di un totalitarismo culturale strisciante, che convive con le istituzioni perché ci passa attraverso: di fronte a una sfida di questo tipo, il popolo cattolico è chiamato a dare una sua risposta. La prima risposta che seppe dare il popolo cattolico messicano fu quella della mobilitazione, dell’organizzazione: durante i decenni della dittatura militare, negli anni Trenta, i cattolici messicani stampavano libri, li diffondevano, li studiavano, si informavano...

Questa mostra vuole essere solo uno strumento per la riscoperta di dignità culturale, con la speranza che questi esempi servano. La nostra associazione collabora col Meeting molto volentieri proprio perché il popolo del Meeting è un popolo che vuole sapere, un popolo assetato di senso: la mostra è uno strumento che deve farci capire quanto ancora dobbiamo camminare, non quante cose belle abbiamo fatto; quanto ancora c’è da fare, non quante cose abbiamo costruito. Certo abbiamo costruito tante cose belle: ma guardando attorno a noi il cammino che ci aspetta, sappiamo di essere solamente all’inizio.

Gulisano: Non molto tempo fa Giovanni Paolo II ha scritto che il Ventesimo secolo ha visto il ritorno dei martiri: possiamo dire, a corollario di questa forte espressione del Papa, che la stessa Chiesa cattolica nel Ventesimo secolo è tornata nelle catacombe, in mezzo alla generale apostasia prodotta dall’ampio processo di secolarizzazione. Nelle catacombe perché la superficie appartiene ormai ad un potere e ad un mondo secolarizzato, desacralizzato.

Ma sotto la superficie delle catacombe sussiste una cristianità, sussiste un popolo: un popolo di Dio, composto da famiglie semplici, dalle semplici famiglie cristiane che ancora vivono come tali, dai santi sconosciuti, o addirittura da popoli interi che hanno conservato la fede anche di fronte alle peggiori persecuzioni; il Messico, come già abbiamo sentito negli interventi precedenti, ci offre un caso esemplare, un caso che nel nostro paese era sconosciuto. Negli anni Venti e Trenta, uscirono testi sul Messico, per lo più di padri missionari che tornavano e descrivevano ciò che avevano toccato con mano, cercando di far sapere anche in Europa quello che era accaduto; poi, per lunghissimi anni, l’oblio.

Quello che abbiamo cercato di fare è stato di riportare alla superficie questa testimonianza impressionante: non solo un ispano-americano come il professor Carriquiry ha a cuore queste vicende; ma le abbiamo a cuore anche noi, perché la storia quando è vera, è sempre storia contemporanea, per cui la sentiamo come fosse accaduta ieri. Ed è per questo che abbiamo voluto portare alla luce ed alla conoscenza di un pubblico quanto più possibile vasto le vicende dei cristeros, le vicende del popolo messicano.

Abbiamo voluto questa mostra non per una sorta di revisionismo: non ci interessa suscitare polemiche o cercare colpevoli, non ci interessa fare giustizia, quello che ci interessa è rinvenire delle tracce luminose di umanità, di una fede che ci insegni, una fede che anche sotto il peggior nemico e sotto il terrore ha saputo esprimersi ed ha continuato ad esprimersi: e così, la storia diventa memoria. La memoria è diversa dalla storia, perché significa far presente lo spirito di un avvenimento.

La storia della persecuzione dei cristiani in Messico è peraltro soltanto un episodio clamoroso, drammatico, emblematico, di quella guerra contro la religione che da duecento anni, e con radici ancora precedenti, si va scatenando, una guerra mai dichiarata apertamente, una guerra subdola, una guerra che si fa politica culturale.

Lo scopo di questa guerra è di contrapporre alla religione l’idolatria. In Messico alla religione, che dava corpo ed anima al paese, si voleva sostituire l’idolatria dello Stato; poi si è voluto sostituirla con l’idolatria del denaro, del potere, ma sempre con idoli, quando invece la fede aveva forgiato questo popolo, e aveva pacificato popoli che erano stati nemici – gli spagnoli arrivati dall’Europa e gli indios –; questi due popoli vengono poi fusi insieme, perché la Chiesa cattolica non conosce il razzismo biologico, che invece si espresse nel Nord America calvinista, dove gli indios subirono ben altra sorte. In Messico invece la Chiesa favorì in tutti i modi l’incontro, l’unione dei diversi popoli e Guadalupe fu proprio la casa comune di spagnoli e di indios che da allora non furono più tali, ma messicani, un popolo nuovo, una civiltà nuova che diede anche origine a una cultura originale, il barocco ispano-americano. Basti pensare che l’Università di Città del Messico fu fondata prima di Harvard.

La rivolta dei cristeros rappresenta un momento decisivo nella storia della lotta dell’ideologia e delle utopie, che non solo vogliono rifare la società, ma che vogliono anche modificare l’uomo perché, gnosticamente, non lo accettano così com’è, come Dio l’ha creato, ma lo vogliono a immagine e somiglianza degli ideologi.

La nostra mostra ripercorre le tappe di questa lotta, partendo da prima degli avvenimenti del 1926 – anno in cui è databile l’inizio della Cristiada –: solo partendo dalla evangelizzazione infatti è possibile capire l’identità del popolo messicano, e la modalità in cui si è sviluppato ed è cresciuto, per incontrare successivamente i furori della sperimentazione rivoluzionaria.

Abbiamo dedicato alcuni pannelli alla rivoluzione messicana, un complesso avvenimento che ebbe luogo dal 1911 al 1917, che noi conosciamo poco o male: al massimo la conosciamo dalla versione hollywoodiana, che mette in scena Pancho Villa e Zapata senza però che nessuno ci racconti cosa successe veramente; nessuno l’ha mai detto, tantomeno nelle scuole, perché finito il furore populista di Zapata e di Villa si impose una classe dirigente formata nelle logge massoniche secondo l’ideologia illuminista. Questa classe dirigente aveva come proprio compito quello di far entrare il Messico nella modernità, sradicando l’anima cristiana del popolo, togliendo quello che il popolo aveva di più caro: la fede.

La difesa della libertà: fu questo il senso della Cristiada; la difesa della libertà religiosa, non altro; non era un potere contrapposto a un altro potere, non era un’ideologia contrapposta ad un’altra ideologia ma erano le ragioni del potere, le ragioni economiche, finanziarie, con la connivenza dei governi americani interessati a impossessarsi delle grandi ricchezze del sottosuolo messicano, contro le ragioni di un popolo.

Parafrasando il titolo del Meeting, si potrebbe dire che da una parte c’era chi si avventurava verso l’ignoto e trascinava il popolo nel baratro del sangue rivoluzionario, in una distruzione collettiva e in una guerra per bande: dall’altra parte c’era un popolo che continuava ad esistere contemplando il mistero, il mistero che era il fondamento del popolo stesso, la fede che aveva reso questa gente così diversa fra loro – indios, messicani, spagnoli – un popolo.

Questi uomini si batterono non per un’astratta ideologia, per principi generali, ma per delle cose molto concrete: si batterono perché il governo aveva imposto delle leggi liberticide che avevano cercato di estirpare ogni visibilità sociale del cristianesimo. Queste leggi proibivano le scuole, proibivano gli ospedali non statali, perché l’educazione e la cura della salute sarebbero compito dello Stato: ogni espressione sociale del cristianesimo, tutto quello che quattrocento anni di cristianesimo avevano realizzato, quello che la carità vissuta aveva realizzato, furono cancellati per decreto presidenziale. Il tutto non solo come legge, ma accompagnato da una spaventosa repressione: incarcerazioni, torture, deportazioni, campi di concentramento. Ebbene, i messicani si sollevarono per difendere tutto questo: la concretezza di una fede manifestata, di un ordine sociale cristiano, che non può restare estraneo all’ordine dell’incarnazione. Nulla ci è estraneo, proprio perché Cristo si è incarnato e deve regnare nel cuore degli uomini e dunque anche nella società degli uomini.

"Viva Cristo Re!" – il titolo della mostra – era il grido che questi uomini alzavano, spesso davanti al plotone di esecuzione, perché Cristo Re era la guida di questo popolo: per Lui si battevano. All’inizio del 1925, il grande pontefice brianzolo Pio XI aveva promulgato un’enciclica, dal titolo Quas primas nella quale si richiamava al dovere del cristiano di instaurare nella società un ordine sociale cristiano, di instaurare la regalità di Cristo: Pio XI affermava infatti che Cristo non è solo il sovrano della coscienza personale, ma, proprio perché si è incarnato, deve incarnarsi in tutte le manifestazioni dell’uomo, in tutte le manifestazioni sociali, civili, politiche. Cristo non è estraneo all’ordine civile e sociale.

I messicani presero sul serio questa enciclica, così come avevano fatto con la Rerum novarum: il Messico è infatti uno dei primi paesi in cui la dottrina sociale della Chiesa viene studiata ed applicata, e il laicato cattolico messicano, fino alla fine del secolo scorso, era un laicato vivace, intraprendente, che aveva dato vita ad opere pur continuando ad essere fondamentalmente contemplativo, fondandosi nella devozione alla Madonna. Questa gente cercò di difendere in tutti i modi non violenti, se stessa, i propri cari, le proprie scuole, le proprie Chiese, i propri ospedali, le case. Questo ad un certo punto non fu più sufficiente: gli stessi vescovi messicani, che avevano cercato inutilmente una solidarietà internazionale, arrivarono ad un gesto clamoroso, la sospensione dei sacramenti, decisa il 31 luglio 1926. Non vengono più celebrate messe, battesimi, cresime, perché i vescovi volevano poter dire al governo che non ha senso togliere tutte le libertà e fare finta di lasciare la libertà di celebrare i sacramenti. È un gesto clamoroso, unico nella storia della cristianità. È un momento tragico, un momento quasi apocalittico per questo popolo fedele, attaccato alla sua Chiesa, ai suoi pastori, alla sua religiosità popolare: tuttavia è un momento che deve essere attraversato.

Il governo non viene assolutamente scosso da questo richiamo, da questo segnale forte: anzi, aumenta la persecuzione. Non si fanno nemmeno più i processi farsa, si uccide la gente per strada, con esecuzioni sommarie e torture: in questa situazione, il popolo non poteva non prendere le armi per autodifesa, per legittima difesa di se stesso, dei propri cari, dei propri familiari. Prendono le armi che potevano trovare, fucili da caccia, forconi, strumenti di lavoro: davanti a loro avevano un esercito con i carri armati, gli autoblindi, gli aeroplani, gli aiuti economici e materiali degli Stati Uniti d’America; nonostante tutto nasce, dapprima, appunto, questa lega per la difesa della libertà religiosa che cerca di difendere sul piano civile, sociale i diritti lesi e poi nasce l’esercito nazionale dei liberatori che verrà chiamato sprezzantemente dei cristeros dal potere. Ma così come la croce di Cristo da segno di ignominia è diventata un segno di gloria, anche questo nomignolo diventò un nome portato con orgoglio. Cristeros voleva proprio dire "i seguaci di Cristo Re" e sulle bandiere, come si diceva prima, campeggiavano Cristo Re e la Vergine di Guadalupe.

Questa epopea culmina nella mostra con una sala dedicata interamente forse alla figura più bella e commovente di questa storia: padre Miguel Augustin Pro, beatificato da Giovanni Palo II e di cui è in corso anche la causa di canonizzazione. Padre Pro è una vittima innocente, una vittima sacrificale, un figlio del popolo messicano. Egli era gesuita, aveva studiato in Europa, in Spagna, in Belgio, abbeverandosi alla dottrina sociale; era tornato in Messico proprio nel 1926. Padre Pro diventa la spina nel fianco del governo messicano perché proprio a Città del Messico, la stessa capitale, in mezzo alla polizia, all’esercito, alla repressione più dura, lui esercita il suo ministero clandestino, in piena serenità, in piena tranquillità. È commovente leggere l’epistolario di padre Pro. Il suo apostolato coraggioso lo portava a girare per Città del Messico, sempre ovviamente in borghese, travestito da meccanico, beffandosi della polizia in tutti i modi. Confessava la fede apertamente in quella situazione di persecuzione rincuorando la gente, facendo conferenze clandestine, celebrando la Messa, portando i sacramenti, tenendo desta nel popolo quella fede che si cercava di schiacciare e di disperdere in tutti i modi. Padre Pro è una vittima innocente sacrificale: il segreto di padre Pro, come di tanti cristeros, sta nell’aver sempre vissuto accanto a Gesù. La sua personalità così semplice e straordinaria s’era formata a quella scuola di eroismo che era la fede popolare messicana.

Padre Pro venne catturato e lo si volle uccidere senza processo. Doveva essere una morte esemplare: l’accusa era di tentato omicidio del Presidente della Repubblica. C’era stato infatti un attentato contro il presidente Alvaro Obregon, e poiché l’auto usata dagli attentatori era appartenuta al fratello di padre Pro, questo fu sufficiente per giustificare lo screditamento della Chiesa.

Pochi anni dopo questi eventi Adolf Hitler scrisse: "Io non voglio fare dei martiri, ma degli apostati". La stessa intenzione era dei vari Calles e Obregon, e di tutta la classe dirigente massonica e anticristiana del Messico; non si volevano i martiri, si voleva evitare che la Chiesa fosse martire, si doveva screditarla, quindi si doveva giustificare l’esistenza di un complotto gesuitico ai danni del legittimo capo dello Stato. Quindi padre Pro venne arrestato: il governo a scopo propagandistico fece anche delle foto di questa esecuzione, dettagliate, che invece ora sono le foto che ci mostrano la morte di un martire e che noi abbiamo esposto nella mostra. Sono particolarmente commoventi quelle di padre Pro con le braccia aperte in croce, che come tanti altri martiri grida per l’ultima volta: "Viva Cristo Re!".

La mostra non evita anche di affrontare il problema dello strano epilogo di queste vicende. I cristeros dopo tre anni di guerriglia erano ormai sul punto di vincere, ma clamorosamente parte dell’episcopato, che forse non aveva avuto paura in precedenza di affrontare questa persecuzione e non aveva avuto paura di perdere, sembra che stranamente abbia paura di vincere. L’ambasciatore americano in Messico Morrow, un finanziere del potente gruppo bancario Morgan – siamo nel ’29, l’anno di Wall Street – convoca un vertice tra i capi dello Stato messicano e due vescovi che erano in esilio a New York. Carica questi vescovi su un aereo, li porta a Città del Messico, e in due giorni conclude un accordo. Questi accordi sono i cosiddetti Arreglos, con i quali si chiede ai cristeros di abbassare le armi, di tornare a casa, e in cambio si otterrà soltanto la riapertura delle Chiese, poiché la Costituzione e le leggi penali rimarranno tali e quali. Questi accordi vennero dunque fatti sulla testa dei cristeros, da due vescovi che in realtà non avevano titoli per trattare a nome dell’esercito dei liberatori: però la fede della Cristiada era tale che quegli uomini, incredibilmente, obbedirono.

Vi è una sorta di mistero rispetto a questo cedimento e a questa rinuncia: ci possono essere stata molte cause, cause contingenti come la pressione americana e anche una motivazione metafisica o religiosa. Esiste nella Chiesa, in questo secolo per lo meno, un male oscuro: una certa paura di fronte al mondo. Non a caso Giovanni Paolo II, il Papa che riscoprì e rilanciò il Messico, iniziò il suo pontificato dicendo proprio: "Non abbiate paura". Non dobbiamo avere paura né davanti alla persecuzione violenta né davanti a quella strisciante, quella con le armi come quella culturale che imperversa tuttora.

Secondo sant’Agostino, il destino della Chiesa è quello di proseguire il suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio; si può quasi dire che la persecuzione sia la condizione normale di un cristiano che sia autentico. Non dobbiamo avere paura e dobbiamo volere, come i cristeros, che Dio regni, che regni attraverso una continua conversione, attraverso l’evangelizzazione e il nuovo sangue dei martiri, come quello del cardinale Ocampo, sono testimonianza della volontà di testimoniare una fede che non rimane un concetto astratto, ma che diventa seme di nuovi cristiani.

La mostra si conclude appunto con questa frase evangelica: "Se il seme non muore, non può dare frutto".

Dalla storia dei cristeros abbiamo imparato e continuiamo a imparare proprio questo: che Dio dà a coloro che lo seguono e che percorrono il suo cammino la vittoria in cose che appaiono impossibili.