La presenza dei cattolici nella società italiana

 

 

Sabato 29, ore 15.00

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Relatori:

Giorgio Vittadini, Presidente della Compagnia delle Opere

S. Ecc. Mons. Ennio Antonelli, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana

 

Vittadini: Vorrei provocare monsignor Antonelli su alcune osservazioni tratte dalla nostra esperienza.

La prima è che noi seguendo la Chiesa non possiamo rassegnarci ad un ottimismo di maniera semplicemente perché governano quelli che vanno bene, mentre prima governavano quelli che vanno male. Se la disoccupazione è in aumento, soprattutto tra i giovani - in alcune regioni italiane è oltre il 50% - se si perdono ventimila occupati in un anno, se il peso fiscale è del 50%, se le famiglie si impoveriscono, se il livello dei servizi peggiora, se lo statalismo aumenta, non possiamo non dire che il re è nudo. Siamo costretti a dire che il re è nudo, ma non per questo dobbiamo scegliere uno schieramento. In questo senso ci sentiamo confortati dalle denunce della Conferenza Episcopale Italiana che, accusata più volte di essere da una parte o dall’altra, essendo piuttosto dalla parte dell’uomo, espone le nostre medesime preoccupazioni. E, per aggiungere altre questioni, non si può non considerare che la famiglia va disgregandosi, che il rispetto della vita non c’è, che il lavoro soprattutto per le fasce deboli non è tutelato. Dire questo non vuol dire schierarsi da una parte o dall’altra, vuol dire piuttosto dire la realtà; noi vogliamo umilmente seguire questo insegnamento ovunque siamo, in qualunque paese, in qualunque scuola, in qualunque punto di assistenza. Vogliamo poter dire che il re è nudo, che il bisogno dell’uomo non è tutelato.

La seconda osservazione dice la ragione di questo: noi siamo stati educati dalla Chiesa e dal movimento all’amore alla persona, all’amore al singolo uomo. Il cristianesimo è la difesa del singolo uomo, della singola persona, non è un calcolo politico. Per noi dire questo significa aiutare il bisogno di un disoccupato, o di una persona che ha subito una ingiustizia nel come è trattato dai giudici, o di un handicappato che non è curato. Se quello è il prossimo che incontri sulla via, se sei chiamato ad essere il buon samaritano, è su lui che devi intervenire. Devi amare quell’uomo in positivo, tu devi volere che quell’uomo raggiunga il suo destino, devi volere che qualunque uomo raggiunga il suo destino. Questa è la ragione del nostro impegno sociale: non è il risolvere i problemi, anche perché non ne saremmo capaci, ma il condividere il bisogno di ciascun uomo, di colui che è il prossimo. Se tu sei chiamato a quell’uomo, devi aiutarlo, perché è il cristianesimo, Cristo, che ti chiama a quella persona.

Per questo noi denunciamo e nello stesso tempo ci impegnamo a rispondere ai bisogni di chi abbiamo davanti, secondo quello che è il metodo - ed è la terza osservazione - che si chiama carità. Giussani la definisce "dono di sé commosso": tu non solo dai una cosa, ma, come Gesù con la vedova di Naim, ti commuovi, ti commuovi per l’immigrato che è al bordo della strada, fino a chiederti da dove viene, se è un delinquente. Ti commuovi, perché è qualcosa che fa parte di te, come Gesù piangi per lui, e prima di compiere un’opera per lui sei in qualche modo partecipe del suo destino.

Quarto passaggio: le nostre opera nascono così, dalla carità. Nascono dalla carità, nascono dal fatto che tu ti commuovi per un uomo. Dove il primo uomo di cui ti commuovi sei te stesso, per quella carità che è il lavoro. È un dire di te stesso mentre lavori: Signore salvami, rendi questo lavoro che sembra inutile utile, rendi questa fatica utile al mondo. Non per niente il nostro paese è un paese di gente che si fermava a mezzogiorno a pregare, è un paese di gente dove c’erano i crocicchi ai bordi delle strade per ricordare il motivo per cui si lavorava.

Il quinto aspetto sonda il motivo per cui nascono le opere: le opere nascono perché tutto quello che puoi fare da questa carità e da questa memoria lo fai, se può render la vita migliore. Il nostro non è un paese orfano della grande impresa nord-europea, capitalista, protestante: la nostra è una grande civiltà, è una civiltà cristiana, ricca di piccole imprese fatte di tanta gente che osservando la realtà riesce anche a inventare le imprese. Il nostro è un paese che amando così l’uomo, amando così la memoria di Cristo usa tutti i pezzi, costruisce le piccole imprese - dagli occhiali alle presse - dove gli altri direbbero che non c’è niente da fare. È un paese che all’inizio del secolo ha inventato addirittura le banche cattoliche che servono per far del bene. Il nostro è un paese in cui il realismo cristiano usa di tutto e quindi crea un benessere come partenza - ignoto anche ai paesi più ricchi come gli Stati Uniti - con un fattore in più: non basta essere da soli con questa inventiva, bisogna mettersi insieme. Il nostro è un paese dove dalla memoria il cristianesimo costruisce una capacità di realismo, di usare di tutto e una capacità di mettersi insieme. Il nostro è un paese di cooperative, di leghe bianche, di imprenditori che si mettono insieme, che usano i soldi per costruire la parrocchia, l’oratorio, l’asilo, la scuola, l’assistenza. Noi siamo in questo solco: non siamo gente nuova, vogliamo solo essere in questa tradizione. La Compagnia delle opere e tutto quello che facciamo come Compagnia delle opere lo facciamo come gente che si sente dentro queste radici, che vuole riscoprire queste radici.

Per questo parliamo di sussidiarietà e di scuola e promuoviamo delle campagne su questi temi. Sussidiarietà vuol dire che se uno con il suo gruppo fa del bene e risponde ad un bisogno, lo devi solo lasciar fare. Se la sua famiglia è capace di accogliere un anziano lo devi aiutare, se aiuta un handicappato lo devi aiutare, non puoi sostituirti a lui; se mette in piedi una scuola che rende la gente e i bambini felici, lo devi aiutare, se è capace di crear lavoro, lo devi aiutare a reinvestire i soldi per trovare altro lavoro, non portarglieli via tutti con le tasse. Questa è la nostra tradizione: per questo abbiamo fatto una petizione sulla sussidiarietà e ci stiamo battendo come dei leoni per una scuola libera.

Per questo sentiamo - ed è il punto fondamentale - come padre e madre la Chiesa italiana e il Papa. Mai come adesso sentiamo la Chiesa maestra in queste battaglie, perché le battaglie sulla famiglia, sulla scuola, sulla sussidiarietà, sul lavoro, sul sud, le stiamo imparando dai nostri pastori, li abbiamo sentiti non al nostro fianco, ma davanti a noi, li abbiamo sentiti non come copertura del nostro impegno di laici, ma come qualcuno che ci stimolava dicendoci di prendere le nostre responsabilità.

Siamo qua per chiedere a monsignor Antonelli come continuare e che cosa la Chiesa si aspetta da noi. Tutto il nostro impegno, il sacrificio, il sudore della fronte, il lavoro di tutti i giorni va in questo senso: così vinciamo il marxismo, perché il lavoro non è mai alienato per noi. Secondo Marx il lavoro è alienato perché il padrone lo porta via: per nessuno di noi il lavoro è alienato quando si ricorda che può offrire qualcosa di quello che fa al nostro Signore. Dal lavoro dipendente a quelli di noi che fanno opere culturali, sociali, economiche, tutto il nostro impegno vuole essere un servizio alla Chiesa.

Antonelli: Il titolo di questa XIX edizione del Meeting "La vita non è sogno" è un invito a rimanere ancorati alla realtà, all’esperienza umana integrale con le sue attese profonde, all’esercizio della ragione e della responsabilità, alla concretezza dell’impegno. È in definitiva invito a incontrare Cristo: un incontro reale che fa risplendere il significato della realtà e cambia la vita concreta in tutte le sue dimensioni.

Sogno, cioè fuga dalla realtà, nel nostro contesto culturale, è un certo spiritualismo di tipo emotivo, funzionale alla ricerca di un qualche benessere psichico; o anche l’attivismo e il consumismo che soffocano le domande ultime, mascherano il vuoto, generano solitudine e disagio.

La fede cristiana invece, come diceva Giovanni Paolo II, nell’incontro di Pentecoste con i movimenti ecclesiali in piazza san Pietro, "non è un discorso astratto, né un vago sentimento religioso, ma è vita nuova in Cristo suscitata dallo Spirito Santo". I vescovi italiani nel documento redatto dopo il Sinodo di Palermo, hanno presentato la fede come un dialogo con le persone divine che si prolunga nel dialogo con gli uomini, in tutte le relazioni, attività, ambienti, situazioni; a partire dalla preghiera, la carità assume e purifica tutte le realtà dell’esperienza personale di ogni giorno, le relazioni familiari, sociali, ecclesiali, le attività professionali, culturali, ricreative. La carità congiunge la preghiera con l’impegno in modo da rendere contemplativi nell’azione e memori del mondo davanti a Dio; essa genera una spiritualità che va oltre la storia ma che è sostanziata di storia; ama appassionatamente Dio, ma vede Dio in tutti, e ama tutti appassionatamente come Dio li ama. La fede non è né uno spiritualismo intimista né un’attivismo, ma una sintesi vitale capace di redimere l’esistenza vuota e frammentaria, capace di dare unità, significato, speranza.

Quanto al carisma di Comunione e Liberazione, da cui trae linfa vitale questo Meeting, tutti sanno che si caratterizza per una appassionata attenzione all’umano, alla storia, alla realtà. Emblematico a riguardo, il libro stesso di don Giussani qui presentato, Vivendo nella carne. In esso, significativamente, il metodo pedagogico seguito per la crescita verso la maturità cristiana viene fatto consistere specialmente "in una valorizzazione di ogni incontro, di ogni avvenimento, di ogni cosa come segno dell’ultimo" (p. 77).

Al di là dei rischi possibili di ogni esperienza umana, questa sottolineatura appassionata di una spiritualità incarnata e conseguentemente anche di un forte impegno civile è un’istanza validissima, un dono prezioso e stimolante per tutti; è in sintonia con gli orientamenti pastorali della Chiesa in Italia e risponde ai bisogni dell’uomo del suo tempo, tentato da varie forme di fuga dalla realtà.

Se dal titolo del Meeting si passa ai contenuti, si rimane impressionati dalla varietà di esperienze, incontri e temi trattati, di carattere spirituale, culturale, sociale, religioso, ricreativo. E questo fa venire in mente un passaggio dell’intervento del cardinale Ruini al Convegno ecclesiale di Palermo, riguardante il "Progetto culturale orientato in senso cristiano" della Chiesa in Italia: "Dalla centralità di Cristo si può ricavare un orientamento globale per tutta l’antropologia, e così per una cultura ispirata e qualificata in senso cristiano. In Cristo infatti ci è data una immagine e interpretazione determinata dell’uomo, un’antropologia dinamica capace di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici mantenendo però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali, e i suoi contenuti di fondo. Questo riguarda in concreto la filosofia, il diritto la storiografia, la politica, l’economia: incarnare e declinare nella storia, per noi nelle vicende concrete nell’Italia di oggi questa interpretazione cristiana dell’uomo, è un processo sempre aperto e mai compiuto". Il Meeting con la sua ricchezza di esperienze e di riflessioni si configura come una valida e interessante esemplificazione dei possibili sviluppi del Progetto culturale, e costituisce un incoraggiamento per i tanti soggetti della Chiesa in Italia che sono chiamati a situarsi in esso con responsabilità e creatività.

I cattolici sono chiamati a sviluppare una capacità di proposta culturale, sociale e politica, con l’intento di contribuire al bene di tutti, senza alcuna pretesa di egemonia o di privilegio. Devono acquistare fiducia e coraggio, essere più consapevoli che hanno molto da offrire su temi quali il valore della vita umana, la centralità della famiglia, la libertà dell’educazione e della scuola, la società civile, l’economia sociale, la solidarietà. E le loro proposte in linea di principio sono comprensibili e condivisibili anche per chi non condivide la fede cristiana, perché in sé stesse sono ragionevoli e umane. Don Giussani direbbe: "Seguendo Cristo, le cose umane - oh finalmente! - sono veramente umane".

Certo è anche possibile e legittimo che gli stessi cattolici, pur rimanendo uniti quanto agli orientamenti fondamentali, si trovino a volte su posizioni riguardo a "valutazioni storiche", "linee operative", "strategie di attuazione" (Dcs - il già citato documento dopo Palermo - 25) e quindi anche in partiti e schieramenti diversi. Ma con un ascolto reciproco serio e paziente, con un atteggiamento sincero istruttivo si possono trovare convergenze insperate e non solo tra cattolici.

Mi sembra un fatto molto positivo che nel Meeting abbiano trovato spazio incontri interreligiosi e che su vari temi culturali e sociali si siano confrontati interlocutori di diverse provenienze e appartenenze. Ciò testimonia che l’identità cristiana, pur ferma e precisa nella sua coscienza di verità e attenta a non lasciarsi appiattire sul minimo comune denominatore di valori generici, rimane sempre aperta a ulteriori sviluppi, pronta ad ascoltare, accogliere e valorizzare ciò che è compatibile con il vangelo.

Mi sembra anche degno di nota il fatto che il Meeting abbia privilegiato il confronto sui problemi reali della gente, sugli obiettivi e le proposte concrete, lasciando in secondo piano i partiti e gli schieramenti politici. Questo, certo, non significa una svalutazione delle forze politiche e del loro ruolo necessario in una società democratica: sarebbe mancare di realismo e contraddire lo stesso messaggio generale del Meeting "La vita non è sogno"! E tuttavia rilevo in questa scelta una significativa convergenza con la posizione della Chiesa in Italia, autorevolmente formulata dal Papa al convegno di Palermo: "La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito... Ma ciò nulla ha a che fare con una diaspora culturale dei cattolici" (Dcs 32).

La Chiesa non si schiera con nessuna forza politica, ma addita alcuni valori di riferimento, segnala alcune urgenze e priorità. Su questa linea si colloca la scelta del Meeting di promuovere il confronto sui problemi della gente, sollecitare contributi e proposte, provocare e prendere posizione. E questa mi sembra la giusta direzione da prendere per dare credibilità alla politica, al di là delle polemiche, delle contrapposizioni strumentali, delle ambizioni di potere, degli interessi clientelari, corporativi, elettoralistici. È una strada non facile, che richiede tenacia e perseveranza, ma che alla fine raggiunge dei risultati: a camminare in essa esortavano il Papa e i vescovi italiani dopo e durante il Convegno ecclesiale di Palermo, quando raccomandavano ai cattolici di seguire anche in ambito politico i principi e i metodi del discernimento comunitario che consentono ai fratelli di fede dalle diverse formazioni politiche di dialogare aiutandosi reciprocamente ad operare con lineare coerenza con i comuni valori professati, ed esortavano a predisporre per questo scopo a vari livelli, luoghi e opportunità di confronto fra i cattolici, proprio come avviene qui al Meeting. Tali iniziative, sottolinea ancora il documento dopo Palermo, giovano alla comunione all’interno della comunità ecclesiale, contribuiscono a rasserenare lo stesso dibattito politico.

Mi sembra molto significativo il fatto che il Meeting abbia raggruppato i numerosi temi di impegno civile in un ciclo di incontri, promosso dalla Compagnia delle opere, identificandolo con un motto programmatico complessivo, "Più società fa bene allo Stato". Il motto evoca la centralità del principio di sussidiarietà in una ordinata organizzazione della società. In virtù di questo principio-guida la solidarietà si costruisce secondo responsabilità a partire dal basso, valorizzando le risorse e la creatività dei diversi soggetti sociali, primo di essi la famiglia, quindi le formazioni sociali e le autonomie territoriali, chiamando i cittadini a partecipare a una sorta di autogoverno per una migliore qualità della vita.

Opportunamente il motto auspica una crescita della società civile nel nostro paese e nello stesso tempo mette in evidenza che essa ha un rapporto positivo con lo Stato non di antagonismo ma di cooperazione. Il principio di sussidiarietà esigendo che l’intervento statale sia sussidiato, cioè sia di aiuto e di sostegno ai cittadini e ai soggetti sociali e territoriali, non pone un pregiudizio alla dignità dello Stato, ma lo riconduce alla sua autentica funzione di servizio e al suo compito più alto, quello di governare, cioè incentivare, ordinare, controllare, integrare in vista del bene generale. Oggi, anche se soffiano venti favorevoli alle privatizzazioni e al libero mercato, sentiamo continuamente alzarsi voci che, davanti alla grave emergenza dell’occupazione specialmente giovanile reclamano giustamente un intervento sollecito e appropriato dello Stato, per promuovere opportunità di lavoro. Spetta allo Stato dare incentivi ad imprese per favorire nuovi investimenti, equilibrare il costo del lavoro e il costo del denaro, semplificare le gravose procedure burocratiche, introdurre formule di flessibilità nei rapporti di lavoro, promuovere la formazione in vista di profili professionali validi e in generale dare regole e certezze al mercato e mantenere aperti alla concorrenza. Si tocca dunque con mano come sia indispensabile e importante il ruolo dello stato anche con un’economia di mercato: l’economia come altra dimensione della convivenza civile ha bisogno di essere governata. Inoltre, tanti servizi possono essere gestiti solo dallo Stato, e spesso l’intervento statale deve supplire le carenze di altri soggetti; l’impresa pubblica potrebbe conseguire e di fatto ha conseguito buoni risultati anche sotto il profilo economico.

Il principio di sussidiarietà dunque non sminuisce affatto lo Stato; ma orienta la sua azione ad aprire spazi per le forze vive della società, facendole convergere al bene comune; lo spinge a non gestire quei servizi alla persona e ala società che i privati e le formazioni sociali possono realizzare con maggior efficienza e qualità e con minori costi. A volte si cerca di costruire una sussidiarietà al rovescio, attribuendo ai cittadini e alle formazioni sociali un compito residuale di supplenza e di integrazione riguardo alla insufficienza delle istituzioni statali. Per fortuna ci sono anche segnali positivi, che vanno nella direzione opposta: ad esempio la riforma della pubblica amministrazione con il trasferimento di molte competenze agli enti territoriali. Occorre però che gli ulteriori passaggi attuativi di questa stessa riforma favoriscano l’autonomia e la vita sociale, non l’espansione burocratica. Un altro esempio viene dal settore della così detta economia civile o non profit, settore dinamico con notevole espansione occupazionale che opera in molti campi - assistenziale, educativo, culturale, ambientale, sportivo... : quelli di voi che appartengono alla Compagnia delle opere hanno il merito di aver ridato vitalità e freschezza a una gloriosa tradizione del cattolicesimo italiano, tradizione di servizi all’uomo.

Complessivamente la società civile al suo interno presenta in Italia ancora molti aspetti di debolezza: c’è molto da fare sul piano culturale, giuridico, economico, informativo, politico. Il campo è assai promettente, e i cattolici possono mettere a frutto un ricco patrimonio di idee e di esperienze. Consapevoli di questo i vescovi italiani hanno convocato per il novembre ’99 la 43esima settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema "Quale società civile vi è per l’Italia di domani? Le proposte dei cattolici".

Altri elementi positivi dell’economia civile sono le varie forme di sussidi di solidarietà, i provvedimenti presi a favore della famiglia su sollecitazione del Forum della società delle condizioni famigliari che rappresenta ben 37 associazioni e 3000000 di famiglie, compreso il vostro Sindacato delle famiglie. Sgravi fiscali per ogni figlio a carico nella scorsa finanziaria, aggiornamento degli assegni famigliari e legge di tutela dell’infanzia che è un pro forma di auto- organizzazione delle famiglie nei servizi ai bambini, proposta di legge - è ancora una proposta - che agevola l’accesso alla casa delle coppie che si sposano: sono tutti segnali positivi, anche se però siamo ancora lontani da una organica politica della famiglia proporzionata al suo ruolo di soggetto sociale quale fondamentale. Si attende in particolare che venga finalmente superata quella che il santo Padre ha chiamato "infelice anomalia italiana" riguardo alla parità scolastica, e che venga riconosciuta dalle famiglie il diritto di accogliere liberamente l’educazione dei loro figli: scuola statale o privata senza aggravi finanziari. A questo proposito, viene in mente come la rilevanza sociale della famiglia fondata sul matrimonio sia insidiata pericolosamente dai vari tentativi di equiparare giuridicamente ad essa le convivenze di fatto, perfino quella omosessuale. Ciò significherebbe disconoscere il contributo che ha la società dalla famiglia, la prima struttura dell’ecosistema umano secondo la Centesimus annus; significherebbe considerare irrilevanti i compiti di trasmissione della vita e dell’educazione dei figli che sono decisivi per l’esistenza e la salute della società. "Più società fa bene allo stato", più famiglia, più formazioni sociali, più autonomie territoriali, più economia civile: tutto questo però comporta più consapevolezza, responsabilità di formazione, iniziativa, attività di confronto e collaborazione.

In questa prospettiva considero molto positiva e promettente la raccolta di firme a sostegno delle due petizioni al Parlamento per la sussidiarietà e per la parità scolastica: molto positiva perché gli obiettivi sono importanti; molto promettente perché la lista dei soggetti promotori e sostenitori è interminabile e comprende numerose componenti nel mondo cattolico e varie rappresentanti di altre aree culturali. L’autentico impegno civile è a servizio della gente, è intorno a problemi della gente ricerca, convergenza culturali e politiche, esplora con tenacia tutte le strade possibili per raggiungere obiettivi di autentica umanità.

Se sono necessari in ambito civile il confronto leale, l’attenzione seria alle ragioni dell’altro, lo spirito costruttivo di collaborazione per il bene concreto della gente, ancor più necessaria e profonda è la comunione che si deve vivere e sperimentare visibilmente all’interno della comunità cristiana in vista dell’evangelizzazione.

La Pentecoste del ’98 penso sia stata una data storica. Il santo Padre ha convocato tutti insieme in piazza san Pietro i nuovi movimenti e le nuove comunità ecclesiali e le ha presentate ufficialmente alla Chiesa intera, indirizzando loro due documenti: un messaggio e un discorso. Li ha presentati come un dono dello Spirito Santo per il nostro tempo, un’espressione importante per l’espressione carismatica della Chiesa che è "coessenziale" a quella istituzionale, perché lo Spirito non costruisce la Chiesa come un’organizzazione efficientista ma "come flusso di vita nuova che scorre entro la vita degli uomini". Li ha presentati con una risposta provvidenziale ai "modelli di vita senza Dio" fomentati e reclamizzati dalla cultura secolarizzata di oggi. La Pentecoste ’98 dovrebbe aprire la seconda fase nella vita dei nuovi movimenti e delle nuove comunità, quella della piena maturità ecclesiale, come si è espresso il Papa. Questo vuol dire che da una parte i pastori e tutti i fedeli dovrebbero guardare ad essi come a doni destinati a tutto il popolo di Dio, non marginali ma importanti per la vita e la missione della Chiesa e quindi da accogliere in docilità e obbedienza allo spirito facendo spazio anche nella pastorale a questa novità che attende ancora di essere adeguatamente accolta e valorizzata; d’altra parte i nuovi movimenti e le nuove comunità dovrebbero sentire più concretamente le loro esperienze nelle Chiese locali e nelle parrocchie per dare un contributo prezioso - dice il Papa - a un nuovo slancio apostolico dell’intera compagine ecclesiale, alla dinamica vitale dell’unica Chiesa fondata su Pietro nelle diverse situazioni locali. L’avvenimento della Pentecoste ’98 tende dunque ad aprire una fase più matura caratterizzata da unità nella pluriformità, l’unità che non scade a piatta omogeneità e a negazione delle diversità.

Mi ha molto colpito l’interpretazione che ne ha dato don Giussani nella sua lettera alla Fraternità del 3 Giugno: "È stato il grido che Dio ha dato a noi come testimonianza dell’unità, dell’unità di tutta la Chiesa. Almeno io lo ho avvertito così: siamo una cosa sola. L’ho detto anche a Chiara e a Kiko che avevo di fianco in piazza san Pietro... E poi ho percepito per la prima volta così intensamente il fatto che noi siamo per la Chiesa, siamo fattore che costruisce la Chiesa... La nostra responsabilità è per l’unità, fino alla valorizzazione anche della minima cosa buona che c’è nell’altro".

Sono parole molto commoventi, che potrebbero fare invidia a Chiara Lubich che ha il carisma dell’unità, perché sono davvero una riflessione, una esperienza molto forte interiore ed ecclesiale. I vescovi italiani nell’assemblea generale di maggio, una settimana prima del Congresso mondiale dei movimenti, facendo discernimento sui segni della presenza dello Spirito Santo nella vita delle nostre Chiese, hanno constatato in queste nuove realtà ecclesiali frutti abbondanti di conversione e santificazione, di intensa comunione fraterna al loro interno, di coraggiose e generose evangelizzazioni, di serio impegno civile, professionale, culturale, sociale e politico, di splendide vocazioni al matrimonio e alla famiglia, alla vita consacrata, al ministero pastorale, alla missione universale. Nel contempo, hanno anche avvertito l’esigenza che i rapporti di comunione si intensifichino fra tutte le componenti ecclesiali, e hanno auspicato - come già avevano fatto nel documento dopo Palermo - che cresca una cultura della reciprocità e che venga coltivata una comunicazione cordiale e assidua. Considerando che il Concilio Vaticano II ha accentuato con forza la comune vocazione alla santità di tutti i cristiani e la comune vocazione di tutto il popolo di Dio, mi viene da pensare che la fioritura delle vocazioni ecclesiali in questa stagione post-conciliare sia destinata dalla provvidenza a far crescere una santità di popolo una coscienza missionaria diffusa, un impegno civile più largamente partecipato e più coerente con il vangelo.

Siamo chiamati a edificare comunità vive che siano nella storia segno tangibile e trasparente di Cristo salvatore di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. Insieme possiamo testimoniare in modo credibile che la presenza del Signore Gesù in mezzo a noi non è un "sogno" e che quindi neppure le cose della vita non sono un "sogno", non si consumano, non finiscono nel nulla; ma rimangono trasfigurate nell’eternità.