Non-profit in Italia: imprese o volontariato di Stato?

In collaborazione con Unioncamere

Domenica 18, ore 18.30

Relatori: Stefano Zamagni, Nuccio Jovene,
Luciano Tavazza, Preside della Facoltà di Coordinatore Forum del Terzo Settore
Segretario Generale Fivol Economia dell’Università Giulio Tremonti,
degli Studi di Bologna Economista

Tavazza: Premesso che la vocazione del cittadino italiano non è di diventare volontario, ma di vivere la Costituzione, il che vuol dire attrezzarsi per diventare un uomo solidale, possiamo affrontare la provocazione: imprese o volontariato di Stato? Uno Stato democratico non può legiferare sul volontariato, perché il volontariato, come la famiglia, nasce storicamente prima dello Stato, e con una sua irriducibile originalità. Per questo nell’articolo 1 della legge 266/91 lo Stato riconosce il volontariato: non lo legittima, ma ne riconosce la precedenza e l’originalità, e quindi ne favorisce lo sviluppo. Nel testo della legge del Parlamento è stato commesso l’errore di dire che il volontariato deve ispirarsi per le sue scelte alle finalità delle Regioni, delle Province e delle autonomie locali: una sentenza della Corte Costituzionale a firma Casavola, ha però affermato che con questa dizione la legge aveva tradito nella sua scrittura lo spirito della libertà che doveva invece essere garantito al volontariato. La 266/91 infatti non è una legge quadro che vuole definire cos’è il volontariato in Italia o fissare delle norme per le sue procedure, ma è una legge che va incontra ai gruppi di volontariato quando essi liberamente decidono di collaborare con lo Stato, fissando delle regole di raccordo fra le istituzioni pubbliche – a livello nazionale, regionale, provinciale, locale – e il gruppo di volontariato, l’associazione, il movimento, che hanno ritenuto indispensabile, per raggiungere certi obbiettivi di solidarietà, la collaborazione con lo Stato e con le sue strutture.

Il peggioramento del rapporto tra Stato e volontariato è responsabilità delle Regioni che hanno legiferato in ritardo cercando di aggiungere alla legge quadro del volontariato una serie di lacci e di riduzioni di libertà. A mio avviso in questo momento ci sono quattro pericoli per via dei quali il volontariato può diventare volontariato di Stato.

Il primo è rappresentato da quel volontariato che si appiattisce sulle leggi che esistono, e ritiene che il problema sia di rispettare queste leggi senza innovare più nulla. La funzione storica del volontariato è l’anticipazione da parte della società, nel venire incontro ad esigenze che nascono dall’esperienza sul territorio e che lo Stato solo in un secondo momento e se lo riterrà necessario potrà assumersi. Questo è dunque il primo pericolo: se il volontariato oggi si preoccupasse solo delle leggi regionali o di Stato che lo regolano, sarebbe il terminale dello Stato anziché essere l’innovazione, la profezia, il rinnovamento; sarebbe volontariato di Stato, ovvero una semplice applicazione giuridica di ciò che lo Stato mette a disposizione, ma non l’invenzione del nuovo e la spinta verso il mutamento del Paese.

Il secondo pericolo è quello di affogare nei servizi; il volontariato infatti dà ancora un’importanza eccezionale alla realizzazione dei servizi, ma sarebbe una debolezza occuparsi solo di questo e trascurare le politiche sociali che debbono decidere sul come fare i servizi. Una associazione viene giudicata attiva se alla fine dell’anno ha creato uno, due, tre o quattro servizi, ma questo non ha alcun valore se nessuno si è domandato che senso hanno o cosa innovano tali servizi: sono la ripetizione di quello che hanno fatto in passato strutture dello Stato, o invece strategie del rinnovamento il cui fine è il creare una comunità solidale? I servizi realizzati non sono per caso soltanto un ammortizzatore sociale che permette a molti, forti e ricchi, di continuare sulla loro strada senza che invece muti nulla rispetto all’emergenza che vede disoccupati quasi 10 milioni di italiani? Non si può ridurre la natura del volontariato al servizio, perché il volontariato, specie nel futuro, dovrà essere soprattutto accompagnamento di educazione alla solidarietà, sfida di restituire la voce ai più poveri.

Il terzo pericolo è l’abbandono del ruolo politico. C’è ancora una resistenza, nel mondo del volontariato, al ruolo politico, che non è ruolo partitico. Un volontariato che si limiti al riparatorio, senza allearsi con le forze sociali, imprenditoriali, sindacali, con l’associazionismo, con la mutualità, con le cooperative sociali, non ha alcuna possibilità di risolvere i grandi problemi dinnanzi a cui ci troviamo e che ci impegneranno per i prossimi cinque anni. è chiaro infatti che lo Stato nei prossimi cinque anni avrà mezzi sempre minori per intervenire nel sociale, come è chiaro che, nonostante il fatto che la produzione aumenti, l’occupazione non aumenta. Questo vuol dire che sul mondo del volontariato ricadranno nuovi compiti, che da solo non potrà portare: occorre per questo una collaborazione stretta tra le forze, perché solo attraverso una strategia unitaria noi potremo dare un contributo alla soluzione dei problemi che abbiamo dinanzi.

Un’ultima tentazione. Non vorremmo cadere nel comune coro della distruzione dello Stato sociale: al contrario, noi riteniamo che soltanto uno Stato sociale possa garantire alcuni diritti. Certo, esso non deve debordare – come invece ha fatto in questi ultimi anni – dai propri confini, ma guai se noi ci assumessimo il privilegio della delega dei nuovi incarichi per la distruzione dello Stato sociale in Italia. In questo modo infatti tradiremmo i poveri, perché mentre lo Stato deve garantire i diritti, il volontariato, anche quando svolge il massimo della sua funzione, non garantisce nulla, perché non ha il potere, che invece spetta allo Stato, per garantire la difesa di un povero.

In questo momento, anche per l’evolversi della situazione politica, i pericoli provenienti da fuori per il volontariato sono pochi, mentre invece è possibile che i pericoli vengano proprio dall’interno, dal non preoccuparsi di innovare, mantenendosi in una grande frammentazione anziché allearsi. Proprio qui vi è il punto di svolta: mutare il nostro paese vuol dire superare la frammentazione, abbandonare le bandiere dei vari movimenti e pensarsi invece come una unità politica, diversificata nei mezzi e nei metodi, ma con fini sociali unitari.

Zamagni: Cercherò di illustrare brevemente il disegno di legge delega che, se approvato, costituirà la prima norma sul settore del non-profit in Italia.

Il punto di partenza è il seguente: per una serie di ragioni che non si possono qui ripercorrere, in Italia è passata nella cultura popolare l’idea che tutto ciò che è pubblico debba essere gestito e posseduto dallo Stato. Questo assunto – ancora oggi presente nel cittadino medio – gravido di conseguenze, ci aiuta a capire il particolare modello di welfare State che si è affermato in Italia. Il welfare State infatti, il cosiddetto "Stato sociale", ammette diversi modelli: quello italiano è un modello che possiamo chiamare statalista, ovvero che vede l’attribuzione all’ente Stato ed alle sue diramazioni di tutto ciò che è la fornitura del servizio pubblico. Ma questo modello statalista oggi non può più reggere: esso infatti si fonda su due pilastri, lo Stato nazionale e il lavoro dipendente – il cosiddetto "posto fisso" – che oggi sono totalmente crollati. Il primo è crollato in seguito ai processi di globalizzazione dell’economia di mercato: i poteri dello Stato nazionale, infatti, si fermano ai confini della patria, mentre invece le relazioni economiche oggi non ammettono confini, e di conseguenza avviene una perdita di potere, soprattutto in materia monetaria, fiscale, tributaria, dello Stato nazionale. Le nuove tecnologie dell’informazione hanno invece fatto crollare l’altro pilastro, il lavoro dipendente, ovvero la centralità del sistema di fabbrica: come sanno bene gli imprenditori, oggi viviamo in un’epoca "post-fordista", nella quale il modo di organizzazione dell’impresa dell’attività produttiva è qualitativamente diverso da quello che abbiamo ereditato dal passato.

Tutto ciò significa che riproporre oggi quel vecchio modello di welfare State, al di là delle intenzioni dei proponenti, equivale a condurre una battaglia persa in partenza, non solo per i costi crescenti, ma anche perché si tratterebbe di un modello che non asseconda più le esigenze e le richieste di benessere dei suoi cittadini.

Di fronte a questa situazione c’è chi vorrebbe affidare tutto al mercato privato, ma questa è un’illusione, perché una economia di mercato per funzionare ha bisogno che certi rischi o incertezze sociali siano in qualche modo garantite. Se d’altro canto questi rischi sociali non possono più essere garantiti dal modello statalista, è necessario che intervenga qualche altro soggetto a fornire le stesse garanzie, altrimenti le imprese private sono destinate a fallire e a scomparire. Bisogna dunque che anche l’Italia, come già altri paesi, sviluppi una forma di economia che si può chiamare "economia civile", che proceda di pari passo con quella privata: l’economia di mercato oggi, nella fase di sviluppo post-industriale, ha bisogno di procedere con due gambe, quella dell’economia privata – le imprese che hanno lo scopo di lucro – e quella formata invece dalle imprese o dalle organizzazioni non-profit, che costituiscono appunto l’economia civile.

L’economia civile è il modo più concreto di rendere reale l’idea di società civile, che di fatto si esprime soprattutto nella sfera delle relazioni economiche piuttosto che sul piano politico. È per questo che il mondo del non-profit non può essere identificato solo con il puro volontariato, che possiede certo una funzione specifica molto particolare, ma non esclusiva.

L’idea che ha funzionato da matrice a questo disegno di legge è stata quella di creare un insieme di norme che, per la prima volta, guardassero all’attività che viene svolta e non più ai soggetti che la pongono in essere. La legislazione italiana in questo ambito ha sempre sofferto il limite di essere una legislazione di settore, ovvero riguardante i soggetti che rientravano in certe fattispecie giuridiche. Ma nelle società in evoluzione come le nostre, le situazioni cambiano, e un gruppo di soggetti che oggi si costituisce come associazione, dopo due anni può diventare fondazione o cooperativa: di conseguenza è una mera illusione immaginare un assetto legislativo che tenga dietro all’evoluzione sociale, i cui cambiamenti sono sempre più rapidi. Dunque questa legge si propone di dettare norme sulle attività che si svolgono, indipendentemente dai soggetti che le porranno in essere: si può trattare di una fondazione, di una cooperativa, di un’associazione, e se svolgono le loro attività secondo certi criteri e certe regole precisi, allora vengono a utilizzare i benefici e le varie forme agevolative che la legge stessa presuppone.

La seconda caratteristica di questo progetto è quello di razionalizzare la legislazione vigente, perché molte organizzazioni non-profit stanno impazzendo, non sapendo a quale legge sottostare: un’associazione per alcune sue attività rientra nella legge sul volontariato, ma per altre rientra sotto le norme delle cooperative sociali, per altre ancora sotto quelle dell’associazionismo... il risultato di questa confusione è che chi lavora nel settore, tipicamente i giovani, perde la speranza e abbandona il campo. Proprio per questo la prima parte del disegno di legge riguarda appunto il riordino, soprattutto in materia tributaria, delle leggi esistenti.

La terza novità della legge è rappresentata dal cosiddetto organo di controllo, un’autorità che andrà a sostituire le commissioni regionali di controllo e la commissione nazionale di controllo, la cui istituzione era prevista dall’ultimo articolo del disegno di legge precedente, quello del dicembre scorso del governo Dini. L’autorità – un aspetto innovativo in un ambito di questo tipo – dovrà essere espressione delle varie organizzazioni non-profit, non potrà certo essere un organo che cala dall’alto e che opera con criteri burocratici, perché questo significherebbe aver fatto una legge che in apparenza apre ma che di fatto chiude immediatamente le possibilità di fioritura di queste organizzazioni.

Chiudo con questa osservazione generale. Questa legge – che fino ad un anno fa sembrava impossibile – è stata possibile perché, come metodologia, si è partiti dal basso per andare verso l’alto, evitando così uno dei difetti tipici del legislatore italiano, quello di fare le leggi affidando a comitati di saggi e grandi esperti il compito di disegnarne l’architettura. È il vizio del "razionalismo costruttivista", di chi crede che mettendosi a tavolino sia possibile disegnare anche le leggi: invece, non è così, perché per quanta conoscenza o esperienza gli esperti possano avere, a tavolino non si raccoglie la ricchezza delle esperienze. Questa legge è riuscita – almeno fino ad ora – a sconfiggere tutta una serie di impedimenti e pessimismi, proprio perché è nata da un confronto continuo non solo con le varie organizzazioni non-profit, ma anche con le imprese, il sistema bancario e così via. Penso che questa metodologia possa rappresentare sia un esempio per altre leggi di questo tipo, sia il modo di rivitalizzare la società civile.

Jovene: Perché solo negli ultimi mesi l’associazionismo, il volontariato, la cooperazione sociale, che non sono certamente una novità, hanno ricevuto attenzione, anche in ambienti assolutamente insospettabili – come ad esempio Il Sole 24 ore o la Confindustria – che hanno cominciato a scoprire il mondo del non-profit? Le società contemporanee sono basate sullo spreco: le merci e la produzione aumentano, ma a discapito dell’occupazione, e addirittura l’innovazione tecnologica determina la disoccupazione crescente. Nel contempo però crescono alcuni bisogni sociali che restano insoddisfatti, e si alimenta così un circuito perverso dell’esclusione sociale; la politica non riesce a dare risposte a problemi come le contraddizioni tra il Nord e il Sud del mondo, o l’aumento della disoccupazione, o le situazioni relative a fasce sociali sempre più estese di popolazione. In questa situazione è emersa in tutto il mondo, come una delle possibili alternative da percorrere, quella dello sviluppo delle realtà del cosiddetto terzo settore, del volontariato, dell’associazionismo, della cooperazione sociale, della cooperazione internazionale dello sviluppo e cosi via.

Le esperienze del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione sociale nel nostro paese si sono organizzate in maniera unitaria per la prima volta all’interno del "Forum Permanente del Terzo Settore" che comprende oltre 50 tra associazioni, federazioni o coordinamenti nazionali e vuole essere innanzitutto il testimone della questione sociale del nostro paese, lo strumento attraverso il quale porre il problema della modifica delle politiche sociali e della garanzia dei diritti.

Oggi il non-profit ha un peso importante anche dal punto di vista economico-occupazionale: i dati della ricerca condotta dall’Istat di Milano parlano dell’1,8% del PIL rappresentato oggi dalla realtà del non-profit; di 400.000 occupati; di oltre 300.000 volontari a tempo pieno... come si capisce da questi dati, si tratta di una realtà importante, ma se la confrontiamo con quelli di altri paesi vediamo quale può essere il trend positivo di crescita. Negli Stati Uniti ad esempio questa realtà rappresenta già oggi circa il 7% dell’occupazione e del PIL, a dimostrazione del fatto che è possibile, attraverso adeguate iniziative legislative, scelte di governo, scelte amministrative, operare per la crescita e lo sviluppo di queste realtà, che non vogliono essere semplicemente un ammortizzatore sociale, ma vogliono contribuire alla soluzione dei problemi ed essere uno dei pilastri sui quali si fonda il nuovo welfare State di cui Zamagni ha parlato.

C’è anche un altro ruolo, spesso dimenticato: esse contribuiscono alla partecipazione dei cittadini alla coesione democratica, tentando di rispondere al bisogno di comunità crescente, in alternativa alle tendenze neo autoritarie che si presentano nelle società come risposta ai problemi sociali emergenti.

Tremonti: Per vedere il futuro bisogna vedere il passato, e la vicenda di cui ci occupiamo comincia e in un qualche modo finisce nell’arco di questo secolo.

Al principio di questo secolo fanno il loro avvento sulla scena della storia le masse: dopo la grande guerra le masse, che prima erano immerse nelle campagne, diventano un soggetto che richiede un trattamento politico, trattamento che avviene secondo tre possibili formule: il fascismo, il comunismo, la social-democrazia. Le prime due hanno fallito perché non hanno funzionato, la terza non ha fallito, ma sta entrando in crisi per la ragione opposta, perché ha funzionato. Lo Stato sociale nasce infatti per portare l’uomo dalla culla alla tomba, ed entra in crisi perché produce poche culle e poche tombe: ad esempio, le tavole attuali dell’INPS si basano sull’ipotesi di equilibrio che le donne vivano mediamente 50 anni e facciano mediamente 2,3 figli, mentre invece attualmente le donne vivono mediamente 80 anni e fanno mediamente 1,3 figli. Mai nella storia dell’umanità – per quanto ci è nota – i numeri si sono modificati non solo in forma così rilevante, ma anche con una velocità così impressionante: il fattore fondamentale di crisi delle strutture dello Stato sociale – al di là di quelli, pur importanti, ricordati da Zamagni – sono i grandi numeri. Certamente, contano la perdita di potenza e di monopolio dello Stato nazione, conta la sostituzione della fabbrica controllabile con le numerose piccole imprese proliferate sul territorio, conta il moltiplicarsi della disoccupazione causato dalla migrazione mondiale dei capitali, ma il punto fondamentale è quello dei grandi numeri.

Quale possibile soluzione? Anzitutto, credo che nessuna forza politica in Europa, non solo in Italia, predichi seriamente formule politiche di chiusura dello Stato sociale. La stessa alternativa fra destra e sinistra non riguarda tanto la conservazione o meno dello Stato sociale, ma il metodo e gli strumenti politicamente adeguati per portare avanti lo Stato sociale. Io sono convinto del fatto che il mezzo giusto sia quello "federalista": federalismo deriva dal latino foedus, che vuol dire patto, in senso territoriale, e significa articolazione dei governi sul territorio, dunque alternativa rispetto allo statalismo, poche leggi dello Stato e tanti patti tra i privati, poco diritto pubblico e tanto diritto privato, poca burocrazia e molto volontariato, o altre formule tipiche della organizzazione dei corpi intermedi.

Cosa bisogna fare per realizzare in questo senso il federalismo? In primo luogo, portare l’attività dei pubblici amministratori sotto gli occhi dei cittadini, consentendo la coincidenza tra la cosa amministrata e la cosa tassata e poi votata; inoltre lo Stato deve garantire il diritto ai deboli, ma siccome lo Stato non può garantire tutto a tutti, sorge lo spazio per i corpi intermedi, le mutue, i fondi, le cooperative ed il volontariato, le quattro classi di fenomeni che possono costituire l’alternativa sociale allo Stato burocratico. Come? La dialettica del secolo si è iscritta tra i due principi della sussunzione e della sussidiarietà: il primo è quello in base al quale un corpo intermedio, dotato di una propria, originaria autonomia, capacità e titolo di esistenza, viene sussunto e così cancellato dallo Stato. La sussunzione è, in Hegel come nel pensiero giacobino, quel pensiero burocratico e statalista che ha ispirato gran parte della legislazione italiana nel dopoguerra. L’alternativa alla sussunzione è la sussidiarietà, il riconoscimento ai corpi intermedi – entità quali la famiglia, le mutue, il volontariato, le cooperative... – di un titolo originario e proprio di attività, senza alcun bisogno di una patente da parte dello Stato.

Vorrei ora tornare con due osservazioni all’invito iniziale che ci è stato rivolto di valutare la concreta realtà politica.

Anzitutto, ammetto di non riuscire a capire cosa vuol dire "volontariato di Stato"; mi permetto di ricordare che queste formule ibride e ordinate alla confusione appartengono alla confusione bizantina, che ruppe la chiarezza tipica del diritto romano – che prevedeva solo i delitti e i contratti – inventando i "quasi delitti", i "quasi contratti"...

In secondo luogo, confesso un forte pessimismo nei confronti della bozza di legge che ci è stata da ultimo presentata: questo non significa diffidenza nei confronti dell’impegno, intellettuale e morale, che è stato messo da parte di Zamagni e di altri in questa bozza, che come parlamentare voterò – in quanto opportuna e utile –, ma che come giurista considero piuttosto singolare e discutibile. Farò una profezia: attraverso questa legge, lo Stato, con enormi costi amministrativi, detassa chi fa le attribuzioni patrimoniali agli enti in questione, ma di fatto li tasserà sotto forma di imposta occulta, di burocrazia e di complicazione.

Per concludere vorrei fare una proposta: perché non si utilizza in questa sede la formula che è stata usata per il trattamento fiscale della Chiesa in sede di concordato? Una parte di quella formula riguarda le deduzioni e l’otto per mille, ed un’altra il regime degli enti ecclesiastici, per i quali è prevista la neutralità fiscale. Mi sembrerebbe sufficiente assumere tale formula e adattarla alle realtà non-profit, dato che queste, proprio come la Chiesa, concorrono alle prospettive di civiltà del paese.

Zamagni: Vorrei fare ancora qualche considerazione sul tema fin qui discusso.

Anzitutto, è importante ribadire che oggi è proprio il mondo delle imprese private ad avere "interesse" a che si sviluppi un settore di economia civile: che poi questo interesse venga risolto in una forma o nell’altro, sotto forma di finanziamento o di elargizione, questo dipende dalla fantasia creatrice di ciascuno e dalle condizioni locali, regionali o addirittura infraregionali. Ho sempre ritenuto l’espressione "terzo settore" sbagliata, perché equivale a dire un settore che viene dopo il primo ed il secondo, come una sorta di ammortizzatore. Ma il problema è invece di pensare un’economia di mercato moderna, che per funzionare ha bisogno sia del polmone delle imprese private che fanno profitti, sia delle imprese civili, che fanno profitti ma che non li ridistribuiscono. Un altro errore fondamentale è infatti pensare che "non-profit" significhi "che non fa profitti": le imprese non-profit invece i profitti li fanno, però non li ridistribuiscono ai soci, ma li reinvestono, li usano per gli scopi cosiddetti istituzionali.

Un altra questione su cui è importante tornare è quella dell’autorità. Ci sono due modelli di autorità, quello francese – nel quale l’autorità è concepita come autorità di controllo – e quello anglosassone, a cui si avvicina il modello del disegno di legge delega, nel quale si parla di autorità di indirizzo, di consulenza e anche di controllo. L’autorità deve cioè essere un organismo che aiuta la fioritura del non-profit, e quindi deve controllare ed intervenire sempre con la prospettiva di favorirne la crescita, e non invece con la pretesa di esercitare un controllo di tipo burocratico.

Il pessimismo del collega Tremonti, rispetto al disegno di legge, è dovuto al suo punto di vista di giurista: effettivamente, mettendo mano a questa normativa, il giurista non può che rabbrividire, data la confusione legislativa e di conseguenza la mezza rivoluzione che ci si propone di fare. Il mio ottimismo di economista si basa invece su un’osservazione molto semplice: come l’esperienza storica insegna, tutti i processi di trasformazione devono cominciare da qualche parte e di fatto dietro a questo progetto ci sono 9 milioni di italiani, un movimento che è l’espressione della parte più pura e nobile dell’associazionismo italiano. Pur riconoscendo le difficoltà dal punto di vista della tecnica legislativa, ho motivo di ritenere che la nostra fantasia ci aiuterà a trovare la via d’uscita.

Ci sono diversi approcci nel fare le leggi: io credo nell’approccio evoluzionista. Come ho anche scritto recentemente, sono il primo ad ammettere che questa non è la legge definitiva o la migliore, ma d’altro canto le leggi ottimali non esistono, oppure, se esistessero, esigerebbero un ammontare di tempo talmente lungo da portaci alla fine dei tempi. Per questo, preferisco un approccio evoluzionista, che mi permetta di muovere il primo passo nella direzione giusta, riconoscendo che si tratta di una legge che nel giro di qualche tempo dovrà essere ulteriormente rafforzata, perfezionata, modificata.

Tremonti: Non credo alla distinzione, che devo dire tipica della civiltà mediterranea, tra il giurista e l’economista: Zamagni è un legislatore, e a questo titolo, quindi, è un giurista. La qualità della legge in questione, lo ribadisco, è a mio parere cattiva e genererà agli operatori enormi problemi.

Un altro punto mi sembra importante: non vedo la ragione di principio economico per cui le cooperative non debbano pagare le tasse; il fatto che reinvestano gli utili è un fatto che si trova in moltissime altre imprese, che hanno avuto la detassazione degli utili reinvestiti. L’onorevole D’Alema, in campagna elettorale, ha detto che le grandi cooperative, nelle quali l’attività commerciale è dominante rispetto a quella istituzionale originaria, devono pagare le tasse: sottoscrivo questa affermazione, perché è essenziale distinguere tra piccole e grandi cooperative.

Jovene: Il rischio fondamentale per il terzo settore – o comunque lo si voglia chiamare – è l’omologazione: per questo, occorre una tensione ideale e morale all’interno di queste realtà, che punti a conquistare uno spazio per dare voce a chi ancora non ne ha.

Faccio anche una proposta alle realtà ed alle associazioni che operano nel terzo settore: bisogna muoversi innanzitutto per una carta di autoregolamentazione che in qualche modo definisca alcuni criteri qualitativi dei servizi e delle prestazioni che questo settore eroga. Questa è la strada maestra, che è già stata attuata in alcuni campi specifici con risultati significativi a livello mondiale: ad esempio, esiste un marchio di garanzia – "Tranfei" – che garantisce i prodotti del commercio equo e solidale mediante un sistema di autocertificazione che può essere controllato da tutti i cittadini di volta in volta.

Infine, un’ultima questione importante riguarda le possibilità che hanno le imprese e le banche di far sviluppare e determinare la crescita delle realtà del terzo settore. Ma ci deve innanzitutto essere una iniziativa ed un movimento che parta della realtà del terzo settore. L’esperienza ancora iniziale della cooperativa verso la banca etica ha questo senso: si sta raccogliendo il capitale sociale per costruire una vera e propria banca che finanzi le realtà del terzo settore, 22 associazioni hanno dato vita a questa cooperativa e sono già 1500 i soci singoli o collettivi che aderiscono a questa impresa in corso. Ma il risultato più significativo che ha avuto questa banca (che ancora non c’è!) è il fatto di aver imposto il tema della finanza etica nel nostro paese. Da quando è nato questo progetto anche tanti istituti di credito hanno cominciato a scoprire che ci sono persone disponibili a sacrificare una parte del proprio interesse pur di sapere che i loro risparmi sarebbero stati investiti esclusivamente per attività socialmente utili e significative.

Tavazza: Ho l’impressione, lo dico con rammarico, che in questo momento il volontariato si sia ripiegato su se stesso, che abbia perso il gusto del rischio, e che sia circondato da paure che non dovrebbero essere tali. Ma il nostro problema non è quello di sopravvivere come volontariato per fare i servizi, bensì quello di schierarci dalla parte delle politiche sociali che garantiscano la difesa dei non tutelati. Tutto il resto è secondario. Dobbiamo dunque anzitutto chiederci: cosa serve al paese in questo momento? Che noi ripetiamo all’infinito i servizi per gli anziani? Oppure che ci impegniamo in politiche sociali perché il governo ci aiuti a mantenere presso le famiglie un anziano? Dobbiamo ripiegarci su ciò che il Comune di offre, o inventare con il Comune cose nuove? Il pericolo – come già cercavo di spiegare – non viene dallo Stato, ma dalle Regioni, cui spetta il compito di tradurre le leggi nazionali, e il cui comportamento, rispetto al volontariato, non è finora stato eccellente.

O investiamo le nostre forze nel tentativo di uno Stato sociale di tipo nuovo – come diceva Zamagni – oppure rischiamo di fare un volontariato residuale, ovvero che ripete delle cose che oggi non hanno più significato. Bisogna che il volontariato si sposti dal piano dei servizi al piano della difesa delle persone che vedono i loro diritti violati. L’aver paura del futuro e il ripetere il passato, sono i peggiori servizi che noi possiamo rendere alle classi più deboli del paese.