Solidarietà, impresa e lavoro: quale sviluppo per l'uomo

Giornata nazionale della Compagnia delle Opere.
La legge dell'uomo è la carità

Sabato 24, ore 11.30

Relatori: Filippo Ciantia, Coordinatore Alberto Piatti, Amministratore
Sua Ecc. Mons. Paul Josef Cordes, Progetto AVSI in Uganda e Rwanda Delegato AVSI
Presidente Pontificio Consiglio Enrico Novara, Responsabile Progetto Giorgio Vittadini, Presidente
Cor Unum Alvorada di Belo Horizonte Compagnia delle Opere
Arturo Alberti, Presidente dell’AVSI

 

Cordes: I documenti magisteriali di Giovanni Paolo II nel passato più prossimo hanno utilizzato un’espressione che può sorprendere ad una prima lettura. Essa non appartiene al vocabolario cristiano tradizionale, ma prende origine da un campo che gli è ideologicamente avverso. Si tratta di "struttura di peccato" – in altri luoghi si trova il concetto di "peccato sociale" o di "situazioni di peccato" (Rec. et paen, 16; Soll. rei soc. 36s; Cent. Annus 38).

Certamente questa espressione non vuole assolvere l’individuo dalla colpa personale ed incoraggiarlo ad addossare tutto ciò che è sbagliato solamente al contesto sociale. Infatti gli scritti pastorali del Papa non omettono di ricondurre i concetti sopra menzionati all’egoismo, all’avidità e alla sete di potere dell’uomo. Piuttosto il rinvio a strutture sbagliate vuole tener fermo che il peccato umano può creare condizioni sociali, che possono portare al fallimento l’impegno per la libertà individuale e il benessere, poiché queste circostanze sono più potenti della forza di individui e gruppi. Allo stesso tempo la missione di salvezza della Chiesa crede alla vittoria sul peccato e sulle sue conseguenze distruttive. Per questo motivo i concetti citati legittimano e impegnano la Chiesa ad intervenire nell’azione sociale e politica. La comunità dei credenti non può attuare una politica dello struzzo.

Proprio nella sua attività caritativa essa si apre alle attese dei contemporanei che vivono nel bisogno.

Quest’ultimi hanno spesso un presentimento vago, che la Chiesa e i suoi membri debbano rendere visibile in questo mondo la benevolenza di Dio. Spesso nelle mie passeggiate per le vie di Roma mendicanti e zingari mi chiedono soldi. Essi mi riconoscono come sacerdote.

Certamente possono essere mossi da motivi egoistici o dall’abitudine a domandarmi qualcosa. Tuttavia è significativo che loro si aspettino dei soldi proprio da un rappresentante della Chiesa. Portano in sé la convinzione, che la Chiesa deve rendere sperimentabile l’amore del prossimo, perché essa annuncia l’amore di Dio. Così coloro che spesso mi sono di peso, sono tuttavia portatori di un messaggio importante.

L’espressione del Papa, quando parla di "strutture del peccato", non dovrebbe quindi essere giudicata come un plagio dannoso dell’ideologia comunista. La Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo non si vergogna di ammettere che la Chiesa può imparare dal mondo e dai suoi interpreti; "essa si rende conto di quanto essa stessa debba alla storia e allo sviluppo dell’umanità" (GS 44). Anche se Karl Marx ha tenuto a battesimo i concetti di cui stiamo parlando o se la Chiesa si è fatta ispirare da Bertol Brecht quando parla di "rapporti", l’origine problematica dell’espressione non riduce il suo contenuto di verità.

In primo luogo il conoscitore della Sacra Scrittura non si farà irritare da questo tipo di concettualità e cioè dal fatto che i peccati esercitano un potere opprimente sugli uomini.

Il peccato irretisce il cuore dell’uomo ed usa dell’influenza grave su questo cuore, per avere un influsso malvagio sulla vita quotidiana dell’uomo, sulla storia e perfino sulla natura e sulla creazione (cfr. Rm 5,12 ss; 8,18 ss.).

La Chiesa nel suo impegno per l’uomo e la sua dignità ha così a che fare con le strutture nelle quali l’uomo vive. Come esse possono essere per lui fonte di disgrazia, possono anche essere d’aiuto per la salvezza dell’uomo. Conseguentemente i cristiani vorrebbero operare delle iniziative per risolvere quelle situazioni in cui il male domina ancora; creare un nuovo ordine che migliori anche il nostro ambiente. Non per niente il cristianesimo è caratterizzato dal principio dell’incarnazione: tiene fermo il radicamento necessario di Cristo al luogo e alle circostanze della sua nascita e alla sua esistenza terrena; il messaggio di salvezza di Dio si incarcarna, attraverso la storia, alla situazione di vita concreta di ogni uomo, rimane legata ad essa e ad essa deve rimanere unita. Per questo motivo l’evangelizzazione della Chiesa nei primi tempi della sua storia è stata influenzata dalle strutture dell’ebraismo, della "Sinagoga" e più tardi dal mondo della "Magna Grecia". Gli ordini mendicanti di san Francesco e san Domenico divamparono in forza dei movimenti pauperistici del Medioevo; provarono a dare a questi ultimi una risposta sociale e pastorale.

Fino ai nostri giorni il contemporaneo attento può osservare come l’azione di Dio, mirante alla salvezza dell’uomo, si trovi coinvolta con gli avvenimenti politici e sociali.

Fu di ispirazione di fede l’impulso di fondare la Comunità Europea, per una nuova convivenza nel nostro continente, in pace e libertà.

Perlomeno Robert Schuman – che con gli altri due politici cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, fu il padre di questa idea – si vide guidato dalla Provvidenza divina. Già il 7 novembre 1945 affermò: "Noi tutti siamo degli strumenti, anche se imperfetti, di una Provvidenza che si serve di noi per compiere disegni grandi, che ci sorpassano.

Questa certezza ci obbliga a molta modestia, ma ci conferisce anche una serenità che non giustificherebbe assolutamente le nostre esperienze personali considerate da un punto di vista semplicemente umano" (La naissance d’un continent nouveau, Lausanne 1990).

Anche alcune settimane fa, davanti agli occhi di tutto il mondo, è stato nuovamente riconosciuto il ruolo che il vangelo e i suoi annunciatori svolgono al fine di realizzare benessere e libertà per gli uomini nei loro diversi ordinamenti: il 24 giugno scorso Papa Giovanni Paolo II insieme al cancelliere della Repubblica Federale di Germania ha attraversato la Porta di Brandeburgo; nell’occasione Helmut Kohl dava questa testimonianza: "Al superamento dell’ideologia totalitaria e nemica della fede che aveva diviso il nostro Continente, il nostro Paese e questa città, Ella infatti ha dato un apporto determinante contribuendo a far sì che si realizzasse il sogno della riunificazione della Germania. Ella non ha mai accettato questa divisione così innaturale dell’Europa dovuta alla cortina di ferro. E proprio Lei ha saputo infondere coraggio a milioni di persone che fino a pochi anni fa si vedevano costrette a vivere sotto il regime comunista, dicendo loro di non abbandonare la speranza di poter vivere un giorno in libertà.

Ella ha offerto a tutti un valido supporto morale ispirando fiducia al movimento della libertà non soltanto in Polonia, ma anche in altri Paesi dell’Europa centro-orientale. Ella, infatti, ben sapeva che questo sistema comunista all’apparenza così incontrollabile, in ultima analisi non avrebbe saputo affermarsi nella storia poiché esso non corrisponde affatto alla natura della persona umana" (Osservatore Romano).

La dimensione della salvezza, lo stesso fatto di questa salvezza che viene da Dio e viene trasmessa dalla Chiesa all’umanità, non raramente è stata osteggiata da liberi pensatori e atei. Questo non è il luogo per riflettere se tale critica sia giustificata o meno; sta di fatto comunque che già la Bibbia lamenta lo scandalo che i membri del popolo di Dio danno ai lontani. "Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?" scrive Paolo ai Romani. E continua: "Infatti il nome di Dio è bestemmiato fra i pagani per causa vostra" (2, 23 -24). Perciò non vogliamo giustificarci troppo rapidamente di fronte agli atei e pagani militanti, ma accogliere le loro accuse come una domanda.

Un rifiuto deciso del contributo cristiano al bene dell’uomo è stato per esempio pronunciato in seguito alla rivoluzione francese nel contesto della elaborazione del concetto di "solidarietà".

 

La solidarietà

Il filosofo francese Augusto Comte (†1857), padre della sociologia, si servì del termine solidarieté per indicare l’interdipendenza fra persone e gruppi umani.

Un profilo già definito il concetto di solidarieté lo acquisì attraverso le pubblicazioni di Pierre Lerou (†1871), il quale, come Comte, si rifà agli scritti e al pensiero di Claude Henri de Saint-Simon (†1825). In seguito, Lerou raggiunge un’ulteriore consapevolezza: "Sono stato il primo a mutuare il concetto di solidarieté dal linguaggio giuridico per introdurlo nella filosofia, vale a dire, secondo il mio modo di pensare, nella religione; ho inteso sostituire la caritas del cristianesimo con la solidarietas fra uomini".

Nella sua grande opera De L’Humanité (libro IV) egli affronta il tema della "reciproca solidarietà fra gli uomini". Con la solidarietà egli intende sostituire il concetto cristiano di carità, affinché l’umanità possa lasciarsi alle spalle il cristianesimo: "Il cristianesimo è la massima religione del passato; ma esiste qualcosa di più grande del cristianesimo: l’umanità". È necessario pertanto andare oltre l’amore cristiano, poiché questo ha ormai rivelato il proprio fallimento: nella prassi, com’è evidente; ma ancor di più nella teoria, se si considera il caos e l’ostilità che sussiste fra quelli che, secondo la dottrina cristiana, sono i tre diversi oggetti dell’amore: Dio, il prossimo, se stessi. "Mettere insieme i tre concetti sommandoli e legandoli fra di loro non significa dar loro fondamento o unità. La teologia cristiana, dunque, si è sbagliata". La storia del cristianesimo è la storia degli sforzi falliti compiuti nel tentativo di "armonizzare queste tre cose".

La carità cristiana è quindi contrassegnata da una triplice incompletezza, che consegue all’inevitabile incapacità del cristianesimo nel pensare e organizzare i rapporti (amore) carichi di tensione fra io e non-io: "Non v’è dubbio che il cristianesimo abbia lasciato l’umanità nell’incertezza e nell’oscurità per quanto riguarda il contrasto fra il necessario e sacro egoismo e il sacro ma necessario amore del prossimo". L’ideale della carità cristiana è una cervellotica chimera, giacché non rende giustizia all’uomo; lo misconosce in tre modi uguali e distinti e lo travisa. Nega infatti: 1) "l’io e la libertà umana, che sono cancellati; il necessario e sacro egoismo, che viene disprezzato; 2) l’io o la libertà umana poiché questi vengono orientati e votati direttamente a Dio; 3) il non-io, ovvero il proprio simile, è di fatto ignorato dall’idea di amore al prossimo. Solo apparentemente e in una sorta di finzione – cioè solo per amor di Dio – l’altro viene amato".

Ora, però, la nuova filosofia si lascia alle spalle le contraddizioni del cristianesimo e cioè l’esortazione "Amate Dio e voi e negli altri", vale a dire: "Amate voi stessi (tramite Dio) negli altri"; oppure: "Amate gli altri (tramite Dio) in voi". Al posto della triplicità subentra una bipolarità: Dio non è più oggetto di amore. È escluso; rimangono l’IO e il TU. La solidarietà diventa "La legge stessa del vivere, la legge dell’identità, e quindi dell’identificazione dell’io con il non-io, dell’uomo con il suo simile". Ora la solidarietà non è volta alla vera, eterna meta né dell’uno né delle altre".

Dio viene escluso dai rapporti interpersonali e la solidarietà acquista un senso puramente umanistico, in cui Dio resta assente.

Il concetto di solidarietà è stato accolto nel frattempo, come l’espressione strutture di peccato, nel vocabolario ecclesiale. Uno dei primi che lo assunse direttamente dall’orizzonte socialistico-comunista nel contesto della fede, è stato il poeta francese Charles Peguy (†1914). Solidarietà diventò per lui, in una nascita dolorosa, un concetto da combattimento: Peguy non sopportò a lungo un cristianesimo degenerato, clericale e contento di sé, come quello simboleggiato dal sacerdote che nella parabola di Gesù passò accanto all’uomo spogliato e percosso affrettandosi a Gerusalemme. Dello stesso poeta è la parola amara sui cosiddetti uomini pii: "poiché non amano nessuno, credono di amare Dio". Secondo Peguy la solidarietà caratterizzava la vita comune della Chiesa primitiva.

Con l’aiuto della sinistra francese volle per un certo tempo ristabilire questa solidarietà aprendo la strada così ad un ordinamento sociale cristiano organico. Tuttavia non omise mai di sostenere quanto la fede esige: la solidarietà non può essere ottenuta ad un prezzo minore di quello che la carità richiede, carità nella quale la stessa solidarietà si radica. Per questo motivo rompe, in forza della solidarietà con l’umanità, non solo con un cristianesimo borghese, ma anche con un socialismo scialbo e senza fede (dal 1900 fino al 1905).

La storia dello sviluppo del concetto di solidarietà può aiutarci a comprendere i primi aspetti del nostro tema. Da una parte l’idea che noi cristiani non abbiamo alcun monopolio sulla filantropia. Molti uomini vedono in essa uno scopo nobile. Péguy ha formulato ciò, nel modo suo tipico, come segue:

"Salvare i poveri è una delle cose più antiche che la parte più nobile dell’umanità ha fatto propria attraverso tutte le culture; di epoca in epoca la fratellanza – che sia sotto il nome di carità o di solidarietà, si attui verso l’ospite in nome di Giove, che riceva il povero come figura di Cristo o che voglia imporre per i lavoratori un salario minimo – la fratellanza rappresenta un sentimento umano intramontabile".

Inoltre, oggi, la problematica si acuisce perché nell’ambito caritativo si pone la questione sulla credibilità della Chiesa e del suo messaggio. La buona azione, fatta pubblicamente, e l’esperienza dell’amicizia fraterna, sono per molti versi decisive o anche uniche in ordine all’accettazione o meno del Vangelo.

La frase della Prima lettera di Giovanni diviene così un parametro su cui si misura la missione della Chiesa: "Se uno dicesse: "Io amo Iddio" e odia il suo fratello, è un bugiardo, perché chi non ama il suo fratello, che vede, non può amare Iddio che non vede" (Gv, 4, 20).

Non da ultimo si può scoprire che Dio sparisce facilmente come attore principale della Carità tra gli uomini, perché soltanto gli occhi di fede possono vederlo; soltanto il credente è capace di affermarlo.

 

La risposta politica

Molti motivi parlano a favore del fatto che la Chiesa debba entrare oggi nell’arena pubblica; che essa non si può chiudere nella sacrestia. Ovviamente dovrà muoversi nella vita pubblica in modo prudente. Essa conosce i molteplici richiami della Sacra Scrittura che esortano ad essere attenti, quando ci si trova sulle strade del mondo: il regno di Dio non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), ai discepoli viene predetto l’"odio del mondo" (Gv 15,18); essi sono messi in guardia dal conformarsi alla volontà di questo mondo (cfr. Rm12,2). Tuttavia anche osservatori laici ci mettono in guardia. Per esempio il sociologo Max Weber.

Nei suoi Scritti politici egli scrive: "i primi cristiani sapevano molto precisamente, che il mondo è dominato dai demoni e che chi fa politica, cioè chi si è coinvolto con il potere e con la forza come mezzi, ha concluso un patto con le potenze diaboliche".

L’agire politico imprigiona i suoi attori. Induce nelle varie confrontazioni ad assolutizzare le mete prefisse e a sacrificare ad esse tutto. Così esso diviene un moloc che pretende per sé l’ultima valutazione dei fatti e la decisione definitiva. Chi cerca alleanze politiche in vista dell’efficacia della sua azione, si muove su un terreno pericoloso. Per questo motivo la pianificazione pastorale che concerne la condotta politica offre sempre un "fianco scoperto", tanto più oggi in cui l’agire ecclesiale si orienta volentieri a categorie politiche: per alcuni la Chiesa appare esclusivamente come un settore di questa società; nel suo parlare ed agire è perfino per molti dei suoi membri indistinguibile dagli altri gruppi sociali.

Sebbene in questo modo la politicizzazione dei fini che la Chiesa si propone prometta un’apertura e un successo rapido, deve essere riconosciuta tuttavia come una tentazione. Questo vale anche per il servizio al prossimo – specialmente per il fatto che le istanze statali sostengono opere assistenziali ecclesiali e stanziano a loro favore forti contributi finanziari. Il Catholic Relief Services, un’associazione Caritativa degli Usa, è stato sostenuto, per esempio nel 1995 con 300 milioni di dollari. Misereor, la campagna quaresimale dei cattolici tedeschi, ha ricevuto nell’anno dalla repubblica federale 147 milioni di marchi, in un bilancio totale di 343,6 milioni di marchi.

Considerando questo grande sostegno si deve presumere anche un mutamento dei modi di lavoro e delle mete.

Di nuovo ci viene in aiuto un pensiero di Weber, per il quale la politica intende "uno sforzo a conseguire una partecipazione al potere e ad influenzare la ripartizione del potere, sia tra Stati che, entro uno Stato, tra diversi gruppi di persone che lo Stato comprende".

Se la descrizione di Weber è esatta, dove conduce la politicizzazione dell’impegno ecclesiale? Per servizi caritativi nati dentro la Chiesa, si può pensare ipoteticamente a uno sviluppo seguente. Le organizzazioni in vista di un raggiungimento dei loro fini elaborano strategie efficaci. Ambiscono ad un potere maggiore, ideale e effettivo. Tuttavia questo itinerario utilizza metodi di lotta: degli orientamenti pedagogico-catechetici per gruppi filantropici scivolano in toni aggressivi e polemici. Vengono presi a modello altri gruppi sociali: si parla ad esempio di creare, a favore dei poveri e degli emarginati, sul modello del sindacato, un "contro-potere" contro i ricchi e i potenti. Si favorisce una "spiritualità del conflitto", per mediare la convinzione che chi si solidarizza con i poveri si impegna nella lotta e nel conflitto. Deve armarsi contro quelli che rendono dura la vita ai poveri.

I concetti e le citazioni che ho presentato non sono una speculazione nata a tavolino.

Si trovano nel documento-base di una associazione caritativa; in esso una totale introduzione politica della progettazione e dell’azione non solo viene presa in considerazione, ma addirittura viene esigita. Così uno di questi documenti diffonde la convinzione che la Chiesa deve attuare l’autopromozione degli emarginati e dei poveri. Perciò vengono rimessi in circolazione, malcelati, i vecchi slogan comunisti della lotta di classe. Si prospetta alla Chiesa di diventare finalmente "un attore della società borghese e di un processo sociale a carattere conflittuale". Le polemiche che ne deriverebbero devono liberare la Chiesa dall’"ideologia della apertura a tutti": questa la strada per recuperare la "credibilità" spesso messa in questione.

A prescindere dal fatto che si deve considerare schizofrenico l’uso di slogan di lotta al fine di aprire la strada all’amore, ci si deve porre la domanda sulla missione più genuina della Chiesa. Perché essa è stata fondata da Cristo?

Chi intende la Chiesa come una istituzione filantropica disprezza la sua essenza autentica; chi la vorrebbe vedere come una specie di Croce Rossa, pur con un contorno di attributi religiosi, o come un’associazione umanitaria mondiale con un sistema efficace di funzioni e di filiali in tutte le regioni del globo, trascurerebbe l’aspetto più decisivo. Certo, essa deve annunciare la bontà di Dio e deve dare segni concreti di questa sua vicinanza agli uomini. Ma tutto questo solo come anticipo di una beatitudine che ancora non è di questo mondo. Se la nostra adesione a Cristo fosse solo per questa vita, allora, come dice S. Paolo, "siamo da compiangere più di tutti gli uomini" (1 Cor 15,19).

La Chiesa annuncia il Signore risorto, che ci dona la Sua vita senza fine, una vita che lascia dietro di sé il tempo, la storia e la miseria di questo mondo. Guai a una chiesa che esclusivamente o prevalentemente persegua fini intraterreni!

 

La buona azione nel suo carattere di segno

Per questo motivo il banco di prova delle proprie capacità consiste per la caritas ecclesiale nel tenere uniti l’agire sociale e l’apostolato. Il Vaticano II parla di una "compenetrazione della comunità terrestre e celeste" ed esige che la Chiesa, "attraverso i suoi singoli membri e nella sua interezza, possa contribuire ad una formazione più umana della famiglia degli uomini" (GS 40). È annunciata la integrazione. La Chiesa, servendo l’uomo, deve rendere trasparente il fondamento della fede nell’azione, attraverso l’esperienza concreta di amore al prossimo. Il combattimento contro le strutture del peccato è da legare alla mediazione riconoscibile della salvezza divina. Il dono della buona azione può poi motivare colui che la riceve a credere al messaggio della vita eterna. Se l’impegno caritativo tenta di fare ciò rispetta ultimamente il fondamento del suo proprio agire. Perché dove si fonda il servizio d’amore dei cristiani se non nella benevolenza e nell’azione salvifica ricevuta da Dio? La Chiesa ripete solamente ciò di cui già solo il suo Fondatore e Signore è stato esempio. Anche l’agire salvifico di Cristo nei confronti dei suoi contemporanei divenne per l’uomo specchio della bontà del Padre eterno, quando glorificarono nel loro stupore Dio e lo lodarono (cfr. Mc 2, 12) o quando intesero il dono della salute fisica come manifestazione del perdono dei peccati (cfr. Mc 2, 8 sg.)

Il 9 giugno 1979 Giovanni Paolo II ha parlato per la prima volta di "nuova evangelizzazione". Ha forgiato questa espressione a Nowa Huta, un quartiere industriale di Cracovia, in Polonia, che era divenuto famoso nel periodo di lotta della Chiesa contro il comunismo. Nowa Huta era stata infatti concepita dal governo come città-modello atea, una "città senza Dio", senza simboli religiosi e senza chiesa. Tuttavia in seguito gli operai si sono riuniti per innalzare una croce in questo quartiere. Più tardi, dopo vari scontri e disordini con la polizia, sorse addirittura una chiesa; una chiesa che – come disse il Papa durante il suo primo viaggio in patria da Pontefice – si doveva al sudore ed alla opposizione dei lavoratori, delle membra vive del popolo di Dio. Il concetto di "nuova evangelizzazione" è dunque segnato profondamente dalla storia della chiesa di Nowa Huta. Già nel suo nascere questo concetto indica come l’attività dei battezzati nel mondo sia legata ad una testimonianza forte dell’opera di salvezza di Cristo; ad una trasformazione della creazione in ordine al vero bene dell’uomo; all’annuncio senza compromessi: sotto i cieli non è dato altro nome agli uomini per salvarsi se non il nome di Cristo (cfr. At 4,12). Questa nuova evangelizzazione spetta però a tutti i membri del popolo di Dio. Di più: in questa evangelizzazione il popolo di Dio esprime la missione alla quale è chiamato e nella quale trova compimento la sua stessa dignità.

Il Papa afferma a conclusione della sua omelia: "Dalla croce a Nowa Huta è cominciata la nuova evangelizzazione: l’evangelizzazione del secondo Millennio. L’evangelizzazione del nuovo millenio deve riferirsi alla dottrina del Concilio Vaticano II. Deve essere, come insegna questo Concilio, opera comune dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, opera dei genitori e dei giovani" (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/1, 1979, Libreria Editrice Vaticana 1979, 1508s).

Il termine di nuova evangelizzazione è divenuto un concetto-chiave nella dottrina e nell’annuncio del Papa, come fu per Giovanni XXIII la parola aggiornamento e per Paolo VI l’espressione civiltà dell’amore. Evangelizzazione indica l’impegno su cui oggi si decide il futuro stesso della Chiesa.

Basta misurare il livello religioso della nostra società! Quando ricevo in visita a Roma comunità parrocchiali dalla mia diocesi di origine, chiedo di frequente: "Quanti nuovi cristiani sono entrati nella Chiesa lo scorso anno?". Una domanda, questa, tutt’altro che incongruente; in Germania ci sono oggi circa 15 milioni di tedeschi non battezzati. Però dalle facce di questi connazionali leggo facilmente non solo che nessuno si è aggiunto, ma che piuttosto si ingrossano le file dei lontani. Ho comunque l’impressione che la mia curiosità venga recepita dai miei visitatori come una provocazione: una domanda del genere è sentita come poco "educata".

Anche se ci sono evidenti segni di speranza! Pare che Dio abbia pensato già da anni a questa necessità della sua Chiesa. Poiché fin dalla metà di questo secolo ha spinto uomini e donne a risvegliare nella Chiesa nuovo entusiasmo per l’evangelizzazione. Questo dando loro la grazia di parlare in modo affascinato e affascinante di Gesù Cristo; di accendere gli animi alla sequela di Cristo; di trovare in Gesù di Nazaret – così come la Chiesa lo annuncia – il perno della propria esistenza e la fonte di una pienezza di vita. La loro fede si concretizza anche nelle opere di carità fraterna.

Sorgono nuove opere dell’impegno sociale. L’impulso alla evangelizzazione che spinge questi movimenti, conferisce alle nuove iniziative anche uno spirito specifico, quello appunto della compenetratio tra realtà terrene e celesti, della quale parla la Costituzione pastorale del Vaticano II. Vorrei indicarne alcuni esempi.

1. Il Movimento dei Focolari

"Lublino, 13 giugno 1996. Alle 11.00 viene conferita a Chiara Lubich la laurea honoris causa in Scienze Sociali presso l’Università Cattolica di Lublin (KUL). La Kul che fu roccaforte dell’intellighentia polacca negli anni del nazismo e del socialismo reale – ha assegnato il dottorato a grandi personalità tra cui al polacco Miloz (Nobel per la letteratura), a Karol Wojtyla (che qui fu docente), al Cancelliere tedesco Helmut Kohl, allo psicologo austriaco Victor Frankl. La Lubich è la prima donna a riceverlo. La motivazione al dottorato recita, fra il resto: "Per i meriti in ordine all’attività sociale del Movimento dei Focolari e per la promozione di una nuova forma di attività economica chiamata economia dei beni"" (Economia di Comunione)

La storia di questa "economia di comunione" prese inizio quando nel 1991 Chiara Lubich si recò in Brasile. Sotto l’influsso della enciclica sociale Centesimum annus di Giovanni Paolo II propose alla sua comunità un nuovo progetto sociale. L’orientare entità produttive esistenti o nate appositamente a condividere gli utili prodotti con la loro attività economica con gli indigenti e per finanziare le strutture per la formazione di uomini nuovi.

La caratteristica che distingue tale iniziativa economica è la ripartizione degli utili aziendali. Parte di essi serve agli investimenti della ditta, ma circa due terzi degli utili sono finalizzati a dare prima da vivere e poi un lavoro a chi è nel bisogno, come era nella prima comunità cristiana; ed inoltre vengono utilizzati per la formazione di donne e uomini capaci di adottare questo stile in economia.

Nel ’95 le aziende che aderiscono alla economia di comunione sono cresciute dalle 403 del ’94 a 551, distribuite nel mondo come segue: 8 in Africa, 38 in Argentina, 90 in Brasile e 16 in Cile, Columbia, Uruguay e Venezuela; l’America Latina ospita quindi il 26 per cento di tutte le aziende di economia di comunione. In Usa, Canada e Messico operano 38 aziende, 23 aziende in Asia, 5 in Australia, 35 nell’Est Europeo, 89 nel Nord Europa e 35 nell’Europa mediterranea, esclusa l’Italia. In Italia operano 171 aziende. Si è verificata, dunque, una forte crescita numerica delle aziende soprattutto in Europa ed in particolare in Italia.

Certamente questi numeri non possono fare concorrenza al budget finanziario di Misereor o della Caritas Italiana. Ma forse chi agisce nell’ambito della economia di comunione è meno minacciato dalla tentazione del perfezionismo burocratico e tecnico e riesce a tener vivo più facilmente lo spirito di un amore al prossimo meno mediato e più diretto. La compenetratio di cui abbiamo parlato forse riuscirebbe così meglio.

2. La Missione Famiglie diNazaret del Cammino Neocatecumenale

Anche le comunità del Cammino Neocatecumenale sono riuscite a stabilire un ponte tra l’apostolato e l’impegno sociale. Uniscono così l’annuncio della fede con il servizio al prossimo e alla sua dignità. Nel "Cammino" si è sviluppata l’idea che intere famiglie si muovano per diffondere il messaggio dell’amore di Dio. Dopo i primi tentativi, il 30.12.1988, alla festa della Santa Famiglia di Nazaret, Giovanni Paolo II inviava 72 famiglie, che, abbandonati patria e lavoro, si stabilirono nei quartieri più poveri, soprattutto in zone secolarizzate e ad alta concentrazione di popolazione o in altri punti pastoralmente difficili, con il consenso dei rispettivi pastori. Attualmente il Cammino conta 302 famiglie in missione. Il loro trasferimento normalmente è definitivo. Tuttavia evidentemente particolari circostanze possono consigliare il rientro della famiglia a casa.

José Luis del Palacio, responsabile del Cammino Neocatecumenale per il Perù, mi ha scritto il 31 luglio scorso una lettera su questo argomento: "Attualmente ci sono in Perù 12 famiglie "in missione" inviate dal Papa. Esse – genitori e figli – abitano in mezzo ai pueblos jòvenes o quartieri popolari. Inizialmente abitano in case simili a quelle che vi si trovano e – a poco a poco – iniziano ad adattarle alla realtà familiare e cristiana. Vedendoli gli abitanti di questi pueblos jòvenes cominciano a fare lo stesso con le loro case.

Il caso che attira più l’attenzione è stato quello del pueblo joven Villa Reyes, dove stanno Josè Agudo y Rosario e alcuni dei loro figli, i quali conobbero il Cammino dai suoi inizi nelle baracche di Madrid. Stanno in Perù dal 1987. Quando Josè e Rosario – aiutati dai loro figli – cominciarono ad edificare la loro casetta con materiale nobile (cemento e mattoni), i vicini di casa copiarono rapidamente il sistema e fecero la stessa cosa, dando un nuovo aspetto al pueblo joven!

Data la situazione di povertà economica e morale, la maggioranza di famiglie povere vivono in una casa di una stanza unica, senza nemmeno un bagno. In essa dormono i genitori insieme ai figli e alle figlie giovani e ai bambini. Dunque si può capire le cose che succedono quando il padre arriva ubriaco o quando i giovani cominciano ad essere tentati sessualmente e hanno le loro sorelle a dormire a fianco a loro... È una realtà tragica nel nostro paese. Qui abbiamo visto una vittoria del Vangelo, che si ripete nella maggior parte di famiglie delle nostre parrocchie; dopo un tempo nella Chiesa, cominciano a scoprire – aiutati dalla Parola e dalle catechesi – il grave pericolo che comporta questa maniera di vivere. Così a poco a poco, gli stessi genitori, aiutandosi gli uni gli altri, cominciano a rifare le loro piccole casette, dividendo l’unica stanza in varie stanze: una per i genitori, un’altra per i figli maschi e un’altra per le femmine... in più fanno anche i servizi! Questo è di già una catechesi per i loro figli.

Ricordiamo finalmente quello accaduto nel pueblo joven chiamato Márquez, nel Porto del Callao. Dieci anni fa iniziammo – assieme ad una famiglia "in missione" spagnola, inviata dal Papa – le catechesi per giovani ed adulti. All’inizio non fu facile, giacché Márquez è pieno di droga e di promiscuità. Venne alle catechesi un centinaio di persone circa, fra cui un gruppo di drogati giovani incalzato da un gruppo di omosessuali che offrivano loro della droga affinché si prestassero ai loro usi sessuali. Questi giovani furono fortemente colpiti dal kerygma, dalla notizia che Gesù Cristo li amava nelle loro debolezze e che veniva con potere per trasformare le loro vite. I giovani cominciarono a frequentare la Parrocchia, ma c’era un problema: la maggioranza non aveva finito la scuola, quasi nessuno aveva i documenti di identità – come se non esistessero per la società – altri erano profughi della giustizia. Tutto ciò impediva di trovare un posto di lavoro, passavano il giorno come "vagabondi", senza aver niente da fare... il che alla fine li riportava alla droga e alla promiscuità per avere un po’ di soldi.

Fidandosi della buona intenzione di questi giovani, un gruppo di imprenditori cristiani diede loro un posto nelle proprie ditte, come operai. Parallelamente, gli stessi giovani cominciarono – mossi dallo Spirito Santo – a sistemare la loro situazione davanti allo Stato e alla giustizia. Qual è stata la nostra sorpresa, vedendo che, nonostante questo, dopo un mese nessuno di questi giovani continuava lavorando. Non erano stati cacciati via dal lavoro. Semplicemente loro stessi avevano smesso di lavorare. Poco tempo dopo, con gli stessi giovani, si fece un’altra volta la prova: nuovi lavori per tutti..., ma dopo quindici giorni, gli stessi risultati: non avevano la forza morale per alzarsi presto ed andare al lavoro... non avevano la minima capacità di relazionarsi con la società. Scoprimmo dunque che quest’opera non era umana, che occorreva aspettare che Dio facesse di loro una "nuova creazione".

Oggi, dopo alcuni anni, questi stessi giovani lavorano, parecchi si sono sposati con le ragazze della parrocchia ed iniziano ad aver i loro primi bimbi; hanno risolto i loro problemi penali e sono cittadini cristiani che – a loro volta – incoraggiano altri giovani a vivere la stessa esperienza.

Chi l’ha fatto? Chi li ha inviati a lavorare? Chi gli ha dato la fortezza di farlo? Nessuno gli ha imposto legge alcuna, né sono stati trattati moralisticamente; soltanto sono stati guidati e accompagnati all’incontro con Gesù Cristo Risorto, vincitore del peccato e della morte. Attraverso la Parola che Dio, i Sacramenti e la vita nella piccola comunità, sperimentando la misericordia e la pazienza verso di loro, hanno iniziato a scoprire la dignità di essere persone – ed uno ad uno, senza sbagliati aiuti "paternalisti" hanno lasciato la droga, l’alcool, hanno cercato un lavoro e si sono incorporati alla società. Oggi gli abitanti di questo pueblo joven li vedono e iniziano – molti altri – ad avvicinarsi alla Chiesa. Più di 100 ogni anno vengono per la prima volta alla catechesi in Parrocchia".

Questa testimonianza trasmette a chi si pone al servizio del prossimo, e quindi a noi tutti, importanti indicazioni. Prima di tutto che la buona azione al prossimo non si può delegare. La fondazione e l’accompagnamento di una istituzione caritativa non sostituisce per nessuno l’impegno personale a favore del fratello o della sorella. È significativo che la rivelazione parli di amore al "prossimo" e non al "lontano". E poi, senza togliere alcun valore all’impegno per combattere le "strutture di peccato", neppure comanda l’eliminazione della miseria "in generale" o l’opposizione alla ingiustizia nel mondo.

Il sacerdote e il levita che probabilmente per il loro senso del dovere al tempio di Gerusalemme non hanno visto sul ciglio della strada il samaritano vittima dei ladroni, vengono citati dal Signore. Ancora meno le grandi finalità delle nostre associazioni e agenzie di carità ci potranno sollevare dai nostri obblighi rispetto al sostegno personale che dobbiamo al prossimo.

L’esperienza del Perù approfondisce inoltre il nostro sguardo sulla compenetratio di una possibile salvezza terrena e celeste per l’uomo. In questo caso infatti il passo decisivo verso l’umanizzazione non viene raggiunta mediante l’aiuto che l’uomo presta; non è il programma caritativo a portare i frutti sperati. Nessuno dubita che anch’esso sia irrinunciabile. Tuttavia, a volte, sono la frustrazione e l’insuccesso a risvegliare la nostra fede che nessun altro al di fuori del Signore, con il suo intervento, può rendere possibile il cambiamento e un nuovo inizio. Questi momenti diventano momenti di grazia per chi presta la sua opera assistenziale. Vede il nesso tra la miseria dell’uomo e il suo peccato; vede che la salvezza viene da Dio e ha a che fare con la santità. Prende coscienza della limitatezza dei suoi mezzi. E comincia a cercare opportunità per trasmettere a chi gli è affidato le proprie convinzioni.

3. La Compagnia delle Opere

Il nostro incontro odierno va a merito della Compagnia delle Opere. Le nostre riflessioni si svolgono suulla tematica "La legge dell’uomo è la carità".

Forse qualcuno di voi si è stupito che fino ad ora la Compagnia non è stata presentata per niente. A questo scopo io non sono forse la persona adatta; molti di voi conoscono questa istituzione meglio di me. Sono più di me in grado di valutare adeguatamente questa iniziativa di lotta contro la miseria e per la giustizia e la dignità umana che dei cristiani hanno avviato – iniziativa che è molto simile a quelle descritte in precedenza in quanto deve il suo inizio ad un movimento apostolico di recente fondazione: Comunione e Liberazione.

Naturalmente non posso omettere la Compagnia delle Opere e tuttavia vorrei riferirmi solo ad una delle sue istituzioni che ancora ho viva nella memoria. Essa si inserisce bene nel contesto delle riflessioni di questa mattinata. Vorrei parlarvi di una visita alla scuola agricola Regina degli Apostoli, vicino alla città di Manaus nel Brasile. La metà del mese scorso ho avuto l’opportunità di conoscere le persone e la vita di questa cooperativa.

Nel 1974 questa scuola fu fondata dal Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). Dal gennaio 1989 viene gestita dal Centro di Solidarietà S. Giuseppe, che è l’entità giuridica del movimento Comunione e Liberazione a Manaus. Ho incontrato i circa 200 studenti in un caldissimo pomeriggio d’estate. Essi hanno un’età fra i 14 e i vent’anni e assolvono nei cinque anni di frequenza una formazione scolastica e professionale. Carlos è uno degli ex alunni.

"Quando Carlos arrivò per la prima volta nel grande porto fluviale di Manaus era un ragazzino spaurito, frastornato da un viaggio di tre settimane su barca a motore, il principale mezzo di trasporto dell’Amazzonia brasiliana.

Era la prima volta che abbandonava il suo villaggio di caboclos (i meticci frutto dell’incrocio fra portoghesi e indios) sul Rio Negro per approdare alla grande città. Oggi Carlos è perito agrario di un’impresa agricola di Manaus, ha la sua villetta con moglie e figli e fa già i conti sui risparmi per mandarli tutti a scuola. Anche Xavier è uomo fatto: e, tornato al villaggio nella selva, si è messo ad allevare maiali e a coltivare frutta tropicale, e adesso è uno dei pochi con la casa in muratura. Non così tanti loro coetanei; chi si è abbruttito nell’alcool, chi è andato a rompersi la schiena per scavare l’oro in qualche sierra lontana, chi vaga su e giù per i due milioni di kmq dell’Amazzonia seminando figli senza padre qua e là. La salvezza di Carlo e Xavier e di decine di altri ragazzini indios e caboclos è la scuola "Regina degli Apostoli"".

La mattina i giovani studiano in classe, il pomeriggio lavorano nei campi, negli orti e nelle stalle: arance, cocco, maracuja, cavoli, pomodori, guaranà, mucche, pecore, maiali, galline, pesci e tartarughe attendono le cure dei discendenti dei "signori della foresta".

Imparano il mestiere dell’agricoltore, le condizioni perché una volta tornati nelle comunità di origine, migliorino le condizioni di vita con le capacità acquisite o comunque, se decidono di emigrare a Manaus, possano trovare un lavoro dignitoso.

Ma queste qualità della scuola non sono ancora il criterio decisivo, poiché la "Regina degli Apostoli" non vuole semplicemente preparare all’esercizio di un mestiere, in quanto è una scuola di vita.

Sentiamo adesso padre Giuliano, uno dei responsabili della scuola: "Ciò che proponiamo nella nostra educazione è partendo dalla loro realtà che rimane lontana farli incontrare con degli adulti che permettono e favoriscono una realtà familiare che insieme alla formazione tecnica educa tutta la persona in tutte le dimensioni.

La "Scuola di Comunità" è una vera e propria introduzione al cristianesimo, ha dato un volto vero e adulto al soggetto educativo e diventa una proposta esplicita per tutti (anche per chi non è cristiano o non è cattolico). È una sfida quotidiana di verificazione della propria umanità e della novità di Cristo nell’amicizia, nello studio, nel lavoro".

Questa scuola intende fornire una integrazione tra azione sociale e apostolato. Tuttavia un concetto pedagogico non basta per raggiungere questo scopo. Più importanti sono la forza di convincimento e lo spirito missionario dei responsabili.

Alcune esperienze di studenti testimoniano che in questo modo si diffonde lo spirito di Cristo.

Mario Jorge Itou: "È un ex alunno che da due anni lavora in Giappone per procurarsi un piccolo capitale e cominciare una piccola fattoria nella sua terra amazzonica, la piccola e bella cittadina di Maues. Ci scrive spesso (oltre che telefonare) e così vi mandiamo anche una sua lettera che ha scritto per tutti gli amici studenti: "Colleghi, studiare nella scuola agricola Regina degli Apostoli è una cosa grande. Vivere le amicizie e la vita di lì è indimenticabile. Ogni sogno sudato segna e fa storia. Nonostante viva qui, lavorando e convivendo con persone di ogni parte del mondo, niente sostituisce il vostro ’calore’.

Approfittare bene di ciò che la Scuola offre ci aiuterà per la vita e qualunque sia la realtà, noi non ci accontenteremo di una vita senza grazia, cercheremo sempre la novità. Ho nostalgia di lì, di tutti i momenti, specialmente delle partite di calcio alla fine della settimana dove non c’era né Garrincha né Pelè, dove spellarsi le dita dei piedi era normale. E dopo lavorare nei campi e pensare alla rivincita, stare attento a non essere preso in giro sul giornale murale. Nelle preghiere chiedere di non cadere in tentazione, educare i sentimenti e aprire la ragione. Tutto passa per il filtro dell’obbedienza che ci fa approfittare o no del tempo che passiamo nella Scuola. Vale la pena. Niente è facile. Vi mando una cartolina di Natale per tutti e approfitto per mandare un grande abbraccio a tutti gli alunni e funzionari. Buon Natale e buon anno nuovo"".

Regina, direttrice della scuola: "Ricordo, per raccontare un fatto recente, il pomeriggio in cui un ragazzino mi ha stupito e commossa con una frase che mi è rimasta impressa. Si era innamorato di una ragazza della scuola e questa me ne aveva parlato. Lei gli volevo molto bene, tuttavia non credeva fosse il caso di diventare la sua ragazza, aveva in mente l’ipotesi della verginità (ha 21 anni). Io le suggerii di spiegare tutto al collega, eccetto l’ipotesi della verginità, e di proporgli un rapporto di amicizia vera. Così fece. E lui dopo due giorni di diatriba con la ragazza, cercando di farle cambiare idea, comunicò a lei e poi anche a me: "Io non vorrei terminare questa passione, ma se è per qualcosa di più grande e più vero ci sto; accetto perché ho fiducia in voi"".

Padre Giuliano: "Nei, un ragazzo di strada, 16 anni, più volte in prigione. Ce lo mandano quelli del tribunale dei minorenni. Arriva alla scuola. Non può rimanerci perché non ha la 4° elementare. Celso, l’amministratore della Scuola, lo porta a casa sua. Chiede alla moglie: "Quanti figli abbiamo?". Lei stupita dice: "Tre". "Da oggi ne abbiamo quattro".

Ne combina di tutti i colori ma riesce ad entrare nella scuola. "La mia famiglia siete voi, non ne ho un’altra, mai sono stato amato così". Dopo tre anni di "lotta" esce dalla scuola, vuole ritornare nel "mondo". Rimane lontano sei mesi. Una settimana prima del Natale 95 ritorna in comunità, si confessa e fa la Santa Comunione. Prepara con entusiasmo la Festa di fine anno con gli amici ritrovati, ma deve aiutare un parente proprio quella notte. Alle tre del mattino, finito il lavoro, torna a casa, stanco e un po’ triste perché non ha potuto partecipare alla festa che anche lui aveva preparato. È investito da una macchina che lo uccide sul colpo. Da 1° gennaio ’96 abbiamo un "angelo" patrono della scuola e della nostra comunità. L’impossibile è diventato possibile e il ricordo di Nei è per tutti motivo di impegno serio per non perdere la "nuova famiglia" dove anche il male è diventato esperienza di misericordia".

 

Un principio missionario

La Chiesa commemorava la festa di S. Benedetto quando, il mese scorso, ho vistato con alcuni conoscenti la scuola agraria di Manaus. Non senza ragione S. Benedetto viene venerato come patrono d’Europa; i suoi impulsi missionari stanno infatti all’inizio della cristianizzazione del nostro continente. La "regola" che a lui viene fatta risalire confermò la sua validità nei secoli XI e XII anche nei diversi rami riformati dei Camaldolesi, Vallombrosani e Cistercensi. Ancora oggi essa conferisce un orientamento importante a coloro che intendono fare del vivere insieme cristianamente una scuola di fede.

Per rilevare la formazione dell’istituto dei Conversi è stato studiata accuratamente la connessione tra azione sociale e impegno apostolico.

Si sapeva infatti che nei secoli XII e XIII erano stati fondati nell’ambito culturale tedesco e nel baltico più di 140 conventi cistercensi. Questo Ordine veniva chiamato soprattutto nelle zone di confine dell’occidente cristiano dove costruiva aziende agricole modello. Il rapido sviluppo e le numerose vocazioni, necessarie per tali fondazioni, dipendevano però dalla connessione tra formazione professionale e trasmissione della fede che evidentemente i monaci riuscivano ad attuare. Non è questo il luogo per analizzare le particolarità di questo sviluppo storico, che fu differenziato. Basta un sommario.

Ai monaci prestavano aiuto fratelli laici (fratres barbati), conversi e mercenari. Essi formavano assieme al convento la familia; in altri posti venivano chiamati coloni. Hanno la loro abitazione al di fuori del convento, la sera tornano nelle rispettive famiglie, per ritrovarsi la mattina seguente alla portineria del convento. Nei documenti di fondazioni famose come Vallombrosa, Hiersau o Citeaux trova continua espressione il fatto che l’esempio di vita dei monaci segnava questi coloni.

I monaci erano modelli, e chi li aiutava nel lavoro cercava, nella misura del possibile, di imitarli anche nella vita. A Cassiodoro († dopo il 580) risalgono le più antiche notizie al riguardo. Chiede che i coloni siano legati saldamente al convento e ricevano anche un insegnamento sulla conduzione di una vita cristiana. "Le fonti al riguardo ci dicono che... in luoghi geograficamente molto lontani, ai margini delle comunità monacali, si crearono gruppi di persone le cui consuetudini di vita conventuale vanno ben oltre le forme di obbligazione economica feudale e ben oltre l’ambito religioso tipico della "familia"". (Hallinger, 59s).

A Manaus non è stata solo la data dell’11 luglio a ricordarci S. Benedetto. Potevamo constatare come egli e i suoi molti figli spirituali hanno realizzato una attività missionaria ideale, poiché legava la coltivazione del suolo con la diffusione della fede. Evidentemente la storia non si ripete e oggi l’impegno a favore della dignità dell’uomo non ha solo i tratti della formazione professionale. E tuttavia uno sguardo al passato può diventare uno stimolo per le nuove realtà che emergono a cercare sempre maggiore profondità.

Quando verso la metà di questo mese ho preparato la mia relazione odierna, la Chiesa faceva memoria di S. Massimiliano Kolbe, un martire dei nostri giorni. Come sapete, egli morì nell’agosto del 1941 ad Auschwitz, vittima dei nazisti. Prese spontaneamente e volontariamente il posto di un giovane padre di famiglia che in una azione punitiva della direzione del lager avrebbe dovuto subire l’esecuzione capitale insieme ad altri prigionieri.

In un commento a questo fatto, pubblicato già negli anni ’50, il Papa attuale scriveva che S. Massimiliano Kolbe con la sostituzione di questo condannato non solo intendeva far sì che i suoi due figli piccoli potessero ancora contare sul loro padre, ma anche accompagnare i candidati alla morte nel bunker della fame, verso il loro ultimo viaggio.

S. Massimiliano Kolbe realizza in modo evidente l’idea fondamentale che oggi vogliamo perseguire. La sua capacità e attività organizzativa nel servizio al prossimo è estremamente moderna, impressionante e universalmente riconosciuta. La sua lotta contro la tirannia e per la libertà documenta nello stesso tempo le sue abilità nell’agire politico. Nell’offerta della sua vita mostra la sua sensibilità nel servizio al fratello in necessità e la sua attenzione nell’adoperarsi per la salvezza eterna degli uomini. Il prezzo che egli ha pagato evidenzia che nessuno è in grado di compiere questi passi in virtù di una propria forza, ma solo in funzione di Cristo e con la forza che viene da Lui. L’atto dell’offerta di sé testimonia una doppia verità: da una parte in modo sorprendente la salvezza della vita terrena di Frantjsêk Gajowniszek e dall’altra il lasciar trasparire totalmente la forza dell’amore di Dio. In questo frangente estremo si può quindi toccare con mano che la motivazione che proviene dalla fede non riduce l’impegno a favore dell’uomo, ma lo rende possibile; questa è una legge che continuamente si attua. Massimiliano Kolbe può così diventare modello per tutti coloro che si dedicano al servizio del prossimo: nella misura in cui l’amore di Dio è presente nel nostro agire, gli altri ottengono anche una piena umanità.

E queste azioni mettono in moto nello stesso tempo l’evangelizzazione: negli uomini si sviluppa la fede e si diffonde tra di essi la lode al Padre che è nei Cieli (cfr. Mt 5, 16).

Alberti: Nonostante la crisi che i paesi ricchi vivono e che ha avuto come conseguenza una riduzione degli aiuti allo sviluppo, in questi due anni l’Avsi non ha cessato l’impegno, anzi ha aumentato la propria presenza nel mondo. Oggi abbiamo 40 progetti in 16 paesi grazie ad una mobilitazione di amici in tutta Italia, ad una rete di sostenitori che ci ha aiutato in questo periodo a partire dalle tende di Natale, e grazie anche all’internazionalizzazione del budget sociale dell’Avsi. Oggi sono collegate con l’Avsi organicamente numerose altre ONG in Spagna Portogallo Germania Belgio San Marino Uganda Cile Argentina Perù e Brasile. Questa internazionalizzazione ha reso più facile l’accettazione della nostra domanda di adesione ad Ecosoc, che è l’ente di consultazione economica-sociale dell’Onu. L’Onu si serve di questo strumento per elaborare le politiche internazionali sui grandi temi di interesse comune: habitat, ambiente, difesa dei diritti dei bambini, valorizzando le esperienze delle ONG. La domanda di adesione dell’Avsi è stata esaminata nella seduta Onu del 13 maggio 1996 al Palazzo di vetro e si è trattato di un vero e proprio esame molto approfondito; i delegati di molte nazioni – Russia, Cuba, Irlanda e Francia – hanno rivolto numerose domande al rappresentante dell’Avsi relative ai progetti, alla metodologia d’azione, ai finanziamenti, al funzionamento dell’associazione. Al termine della seduta l’Avsi è stata ammessa ad Ecosoc – categoria 1, che è la più importante. Vi fanno parte 56 ONG di tutto il mondo e noi siamo la prima ONG italiana che è stata ammessa.

Ciantia: Dedico queste poche parole a un’amica maestra, Lucille, del Congo che ci ha lasciati il 2 agosto.

Nel 1993 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per rifugiati affidò all’AVSI la gestione di un campo rifugiati nel Nord dell’Uganda che venne attaccato il 12, il 13 e il 14 luglio di quest’anno con l’uccisione di 106 persone, la distruzione di attrezzature, l’incendio di 356 case e capanne: il lavoro di tre anni fu completamente distrutto.

Questo avvenimento, come molti altri, ci appartiene, è nostro, è mio, è vostro; questi morti e i sopravvissuti sono nostri fratelli e sorelle perché lì ci sono dei nostri amici al lavoro che hanno già quasi ricostruito il campo: ci sono Luca, Cirillo, Stefano, Valerio, Marco, Adolf, Albino, Julius: qui con noi c’è Monsignor Tabani, il vescovo di questa gente, nostro grande amico. La vostra amicizia, il lavoro di Arturo e di altri dell’Avsi ci accompagnano ed anche l’intelligenza e la passione di persone come Tonino Aloi, Vincenzo Odo che lavorano al Ministero e ci aiutano in questa impresa: Vincenzo era con me al campo due giorni dopo il massacro.

Novara: La realtà socioeconomica brasiliana è certamente meno drammatica. Questo ci ha permesso di uscire da un contesto di emergenza per intraprendere un intervento più strutturale di lotta alla povertà urbana. Che cosa è una Favelas? In un documento della Banca mondiale si dice che una favelas rappresenta quasi per definizione un luogo dove la fornitura di acqua è tanto poco affidabile quanto la distribuzione di energia elettrica, un luogo dove le strade non sono pavimentate, le fogne scorrono a cielo aperto, non si raccolgono i rifiuti, e non si conosce che cosa sia un autobus. Ciascuna di queste situazioni impone un peso ulteriore a gente già appesantita dalla povertà.

Nel 1985 fu approvata in Belo Horizonte in Brasile per la prima volta una legge che riconosceva l’esistenza delle favelas e che disciplinava l’ urbanizzazione e la regolarizzazione . Da qui comincia il nostro lavoro: in cosa consiste? Quali sono le azioni, quali le priorità?

In questi giorni stiamo eseguendo lavori di urbanizzazione in una favelas abbastanza densa, centrale, antica. Le prime baracche risalgono a circa 40 anni fa. Qui vive una popolazione di circa 1200 famiglie su un terreno arido. È una sacca di povertà incuneata nel quartiere col quale non c’è nessun legame. L’area su cui stiamo intervenendo prima dell’intervento presentava una densità eccessiva compromettendo condizioni minime di areazione e di illuminazione, assenza di reti di infrastrutture. Quest’area veniva inondata ad ogni pioggia rappresentando la parte più bassa del bacino embrifero. Per dare un nuovo assetto urbano sono state rimosse temporaneamente le famiglie in situazione di rischio, poi sono state realizzate le infrastrutture collegandole a quelle della città formale, è stato innalzato il livello del terreno, sono stati aperti nuovi passaggi mediante rimozioni parziali per garantire una percorribilità interna e siamo pronti in questi giorni a costruire le nuove case per le famiglie che sono state temporaneamente rimosse. È quello che il Papa ha ribadito più volte anche nell’occasione dell’ultima conferenza mondiale sull’Habitat: "diritto alla casa significa ricostruire un luogo fisico adatto a soddisfare le proprie esigenze sociali, culturali e spirituali". Rosetta Brambilla, da trent’anni in Brasile a Belo Horizonte lavorando in queste condizioni, scrive in una lettera che potrete leggere interamente sul periodico dell’AVSI Buone Notizie: "ricordo ancora come fosse oggi che quello che mi muoveva ad incontrare le persone era la passione per comunicargli che il desiderio di felicità, di giustizia e di amore si è fatto carne e attraverso la mia persona comunicargli lo scopo della vita".

Piatti: In Romania ci sono 3000 casi di AIDS pediatrici, più del 50% dei bambini d’Europa. Un giornalista, Mino Amato, che da quell’ospedale ha adottato una bambina, porta a conoscenza del grande pubblico questa situazione, coinvolge noi dell’AVSI per ristrutturare un padiglione pediatrico. I lavori iniziano il 2 maggio 1995; a metà dicembre dello stesso anno i bambini entrano nell’ospedale nella loro nuova casa. È un esempio significativo di un progetto finanziato totalmente con fondi privati del valore di 2 miliardi e mezzo; circa 2500 ore sono state lavorate gratuitamente, grandi imprese ci hanno aiutato e ci hanno regalato molte cose; imprenditori che sono venuti ci hanno ringraziato perché hanno potuto lavorare sul campo ancora come operai come quando avevano iniziato la loro impresa. Ed ora in collaborazione con l’ospedale Bambin Gesù, adesso che la struttura è terminata, abbiamo iniziato un programma di formazione per il personale medico e paramedico.

Vittadini: Volevo dare la ragione di un incontro come quello di oggi dentro il contesto del Meeting perché penso che le ragioni della carità ci siano state ampiamente spiegate da Monsignor Cordes che ringraziamo moltissimo.

Quello che vediamo dai nostri amici dell’AVSI è parte della nostra fede perché, come diceva don Giussani all’incontro della Compagnia delle Opere, "la fede rende così commossi di fronte al bisogno dell’altro che questo diventa come un bisogno mio, commuove le fede di fronte al bisogno che incontro al punto che è come se fosse un bisogno mio e allora mi ci butto con tutta l’intelligenza, con tutte le risorse, chiedo aiuto agli amici, chiedo aiuto all’autorità, chiedo aiuto a tutti, metto tutti insieme, metterei possibilmente insieme tutto il mondo per soddisfare il mio bisogno ma quello che faccio per me lo farei per chiunque altro. Quello che accade a me, il bisogno mio, è come quello che senti tu. Se tu senti un bisogno non posso dormire tranquillo se non faccio qualcosa per il tuo bisogno". E poi la citazione sui disoccupati: "Vedere per esempio un disoccupato, per citare la piaga terribile di oggi, quella socialmente più grave, non può farmi star fermo se ho fede, se ho una certa sensibilità umana, dico che la fede favorisce questa sensibilità".

Noi per vivere la fede, per guardare il mondo con gli occhi di Cristo insieme a Lui siamo costretti a vivere questa responsabilità: questa carità che diventa opera è parte della fede, è parte della Chiesa, non come certi falsi profeti ci hanno insegnato, la promozione umana slegata dall’evangelizzazione. È evangelizzazione perché Dio si è incarnato in un uomo e da allora in poi, come diceva Mons. Cordes, il piano terreno e il piano spirituale si sono fusi; per noi è il modo naturale secondo quelle due dimensioni, quelle due prospettive che ancora ci ricordava don Giussani e che ha ripreso nel suo intervento, con grande ricchezza di citazione dei testi della dottrina della Chiesa, Mons. Cordes. Ci muove sempre un’ipotesi positiva. Per noi anche questa tragedia del Sudan come molte altre tragedie a partire da quella della disoccupazione, tutte le occasioni anche negative sono un’occasione per costruire. Ci muove non la nostra forza, ma la compagnia con qualcuno che ha già visto una ipotesi positiva sulla realtà, un’ipotesi positiva sul nostro peccato, un’ipotesi positiva sul nostro errore, un’ipotesi positiva sul male: non il lamento cominciando dalla circostanza quotidiana del lavoro, ma la costruzione. Tutto è positivo, come si dice nel tema del Meeting dell’anno prossimo; in secondo luogo è positivo perché si fa con, perché "dove due o più saranno uniti là sarò presente Io". Queste cose si fanno non per una forza organizzativa, ma per la presenza di un Altro tra noi.

Queste sono le caratteristiche attraverso cui la nostra fede affronta il bisogno per cui questo lavoro della Compagnia delle Opere è parte integrante dell’esperienza di fede che facciamo, anzi senza questo la fede non dimostrerebbe la sua vittoria sul male, non perché è vinto il bisogno, ma perché, come ci diceva 40 anni fa don Giussani, solo affrontando il bisogno si può capire che il bisogno dell’uomo è più grande, è infinito. E non si capisce, non si può sentire il bisogno di un altro se non ci si mette a sporcarsi le mani in un lavoro che non è notizia, non interessa, è scandalo. Parlare della tragedia del Sudan, parlare della guerra in cui c’è un genocidio di cristiani non interessa alle grandi potenze e ai proprietari dei giornali, e noi denunciamo questo scandalo, che interessi di più la polemica dell’uomo di partito che il genocidio di migliaia di persone.

Questi temi che abbiamo voluto affrontare in connessione con la questione culturale posta dall’intervento di Monsignor Cordes aprono alcune direzioni.

Innanzitutto il lavoro, perché fino a quando c’è un disoccupato vuol dire che c’è qualcosa di ingiusto e se il lavoro è sacrificato ad un’idea di sviluppo senza occupazione – cosa detta da politici o da economisti che oggi sono al governo – noi non ci rassegniamo: meglio più poveri, ma con un lavoro per tutti piuttosto che una ricchezza che porta una disuguaglianza. Perché tra di noi ci sono i disoccupati; tra il 35% di disoccupati in Sicilia ci sono nostri amici, nostri fratelli, quindi sentiamo questa questione sulla nostra pelle. Tutto quello che possiamo dire o fare lo facciamo.

Secondo: il tema del non-profit, che riprende qualcosa che dicevamo 10 anni fa: "Più società meno Stato" perché non-profit vuol dire scuole paritarie come ha detto ieri Berlinguer, opere di assistenza di sanità che possono essere detassati, come diceva Zamagni, vuol dire possibilità che il cittadino conti usando i suoi soldi per opere vere, non per finanziare la spesa pubblica che può diventare tangente (prima del moralismo denunciamo che l’inizio della tangente è lo statalismo che in Italia c’è ancora).

Infine la solidarietà internazionale che abbiamo sentito essere la fase anche dello sviluppo economico. È uno scandalo che questo governo abbia già detto che solo la Germania e il Giappone possono permettersi una cooperazione allo sviluppo; è un insulto anche alla tradizione italiana: quando eravamo più poveri c’è sempre stato un aiuto a chiunque; secondariamente è una miopia perché si diventa invisi a paesi che ci vedevano come loro fratelli ed ha come conseguenza una non assistenza delle imprese che vanno all’estero.

Questi tre temi sono un giudizio che nasce da un’esperienza. Per noi parlare di queste cose vuol dire innanzitutto farle non perché risolviamo i problemi, ma perché, come veniva detto da Monsignor Cordes, uno fa personalmente, uno deve fare innanzitutto personalmente. Ognuno deve innanzitutto pensare cosa può fare, cosa può inventare, cosa può creare di fronte a questa positività. Non è un tentativo burocratico, bensì il tentativo di ognuno che inventa questa unità, questa costruzione comune che poi diventa la Compagnia delle Opere. Non ci interessa la difesa corporativa di quello che facciamo noi, ma la scoperta di tutto quello che fanno gli altri. È per questo che parlare di Compagnia delle Opere vuol dire parlare di fratellanza, di lavoro comune con tutti gli ordini religiosi, come già avviene da tempo, con tutte le iniziative anche laiche, anche comuniste che cercano, partendo da punti diversi, di fare questo bene per l’uomo.