Guardare la Divina Commedia

Venerdì 23, ore 15.00

Relatore:
Alberto Brasioli,
saggista, curatore della mostra

 

 

 

Brasioli: Noi volevamo fare una mostra che fosse la traccia dell’esperienza della vita di un uomo che è diventata forma di un testo, nella quale si dicesse la cosa che Dante aveva capito, che la vita è sempre qualcosa di più di ciò che l’uomo immagina, ci dà di più di quello che le nostre più rosee speranze ci permetterebbero di immaginare, se non si costringe la vita ad essere immagine dei nostri desideri.

Quando ha mandato la terza cantica della Commedia a Cangrande della Scala, gli dice che ha scritto quelle cose per togliere gli uomini dalla condizione di tristezza in cui vivono e raccontare loro che è possibile un’esperienza di felicità, perché io so, dice Dante, lo sapeva da San Tommaso, che gli uomini non possono vivere a lungo nella tristezza.E le ha scritte nella lingua di tutti i giorni, la lingua del pappa e del dindi, dice Dante alla fine della Commedia, cioè la lingua piena di affetto con cui la mamma ed il bambino si parlano, si riconoscono senza che ci sia bisogno di dire altro se non che io e te abbiamo un destino comune: cioè, vorrei essere semplice così. Recuperare questa lingua è il compito della Commedia, è il compito che Dante ci ha dato.

La mostra è fatta in modo che nella prima parte si racconti la modalità con cui Dante è riuscito a capire che è così, nonostante la vita sua fosse stata molto dura, molto contraddittoria; nella seconda parte, invece, si mostra come questa intuizione è diventata forma testuale, che non ha precedenti né successori.

Dante dice di essersi trovato in un momento della vita in cui aveva perso la possibilità di dire Io, di ricostruire il senso della sua esistenza, in una selva oscura, in cui era persa la consapevolezza che le cose si possano dire una in fila all’altra. L’immagine che lui usa è quella della selva percorsa da sentieri intricati che non si sa mai dove portino. Successe un momento di appannamento prolungato; a Firenze tutto era diventato uguale; soprattutto la cosa drammatica era che non si poteva parlare a nessuno di un disagio così. Per Dante risultò estremamente importante il fatto che ci fosse almeno un gruppo di gente che si chiamavano fra di loro Fedeli d’amore che avevano cominciato a scrivere poesie incomprensibili per i loro contemporanei, ritenendo che da questo mare dell’indifferenza, dell’equivalenza insignificante si potesse uscire qualora succedesse una specie di miracolo, un avvenimento, un fatto che fosse materiale, incontrabile, e che avesse però come caratteristica quella di essere sottratta alla mareggiata delle indifferenze, dell’oblio, un fatto che avesse in sé questa cosa strana, questa cosa "dell’altro mondo", e cioè che non fosse destinata ad essere cancellata dalla memoria.

Perché accada una svolta occorre un punto fermo; loro chiamarono questa ipotesi una donna; angelo vuol dire una cosa dell’altro mondo. Dante scrive una poesia nella quale racconta un sogno stranissimo, che una donna che lui stava sognando viene e gli morde il cuore. Uno di questi personaggi, Guido Cavalcanti, gli risponde che lui ha capito ciò di cui stanno parlando, e ciò implica che lui abbia fatto esperienza dell’amore, perché altrimenti non sarebbe mai riuscito a penetrare dentro questo linguaggio così duro. Dante fu contentissimo di questa risposta e a sua volta dice a Guido che se gli ha scritto una cosa incomprensibile è perché se aveva fatto esperienza di ciò che andava dicendo avrebbe potuto capire di che cosa stava parlando. Dante dice che questo fu l’inizio dell’amicizia. Infatti l’amicizia nasce quando qualcuno si mostra improvvisamente, miracolosamente disposto a condividere un’esperienza, condivide con un altro proprio ciò che uno da solo ha paura a pensare, che quasi non dice nemmeno a se stesso. Dante si lascia andare a dire che ciò di cui i fedeli d’amore avevano ipotizzato la presenza, era un dato di realtà, lui l’aveva incontrata, si chiamava Beatrice. Lui l’aveva incontrata molti anni prima quando era bambino, ma questo fatto gli si era così impresso dentro nonostante la crisi della sua vita, nonostante la selva oscura in cui era.

Scrive la Vita Nova, in cui riprende tutte le poesie precedenti, le inserisce in un tessuto narrativo, le spiega a se stesso come se lui si fosse reso conto adesso per la prima volta di tutto ciò che gli era accaduto. Beatrice muore quando meno se lo aspettava e per Dante questo fu il dramma che vi immaginate perché la morte di Beatrice è l’esempio fisico che può crollare la teoria. Se muore vuol dire che non è una cosa dell’altro mondo, ma solo uno strumento comodo per immaginarsi qualcosa con cui attraversare un pezzo della vita, ma è finito perché la morte domina. "Quando per me fu perso il primo diletto della mia anima io fui di tanta tristizia al punto che alcun conforto volea consolarmi. Dopo alquanti mesi la mia mente che si argomentava di sanare provvide tornare al modo che alcuno sconsolato aveva tenuto a consolarsi", cioè ho cercato se ci fosse qualcuno nel mondo che avesse vissuto una esperienza catastrofica e ne fosse uscito (Qui si adombra la figura di Virgilio; Enea, infatti, è il prototipo di colui che nel mezzo della sua vita vede bruciare la sua città, la sua storia, e deve andarsene via), qualcuno che mi consolasse, parola bellissima che significa con-solacium, cioè qualcuno con cui trovare di nuovo la gioia, il sollazzo, il gioco, il riso, per citare un altro verso di Dante, qualcuno con cui poter nuovamente rifare il cammino della felicità.

Dante dice di aver letto il De Consolatione philosophiae di Boezio, Cicerone, e di avere scoperto che c’è una cosa che non può mai venir meno nel cuore dell’uomo, ed è il bisogno di verità, e lui chiama questo la Filosofia. L’esperienza di questi uomini che nonostante le traversie della vita hanno mantenuto desto il desiderio della bellezza e della verità – questa era stata la cosa che Dante ad essi riconosce – era quello che lo aveva mobilitato con Beatrice. Io capisco adesso – dice Dante – quale era stata la ragione dell’attrattiva di Beatrice, e non me ne sarei mai accorto se essa non fosse venuta meno nell’immagine che io mi ero fatto, cioè nella sua materialità; venendo meno nella sua apparenza Beatrice disvela la sua verità, cioè svela la ragione profonda per cui Dante si era così legato e lo svela a Dante stesso. Beatrice, morendo nel suo corpo, risorge nella inevitabilità di quella sua presenza nel luogo più profondo in cui Dante dice io. Se questo non fosse accaduto – dice Dante – io non avrei mai capito, sarei rimasto all’allegra e spensierata coscienza di prima. Perciò devo dire questa esperienza, che è vera perché è la verità della storia del mondo: la felicità si ha quando si passa da una percezione apparente delle cose, dalla coscienza immediata di quello che sta accadendo, alla scoperta improvvisa della verità del nostro desiderio. L’uscita degli Ebrei dall’Egitto per andare verso la Terra Promessa, di cui non avevano alcuna idea, indica esemplarmente il destino di ogni uomo che è chiamato a passare dalla schiavitù delle passioni al riconoscimento della verità cui Dio lo ha chiamato: questo è il cammino di ogni uomo. La mia vita ha un senso perché ha un senso la storia del mondo e la storia del mondo ha un senso perché ce l’ha la mia.

Il primo capitolo del Convivio è stupendo da leggere. Dante dice che che il pane che sta offrendo al lettore è la sua vita; senza derogare alla Vita Nova intende maggiormente giovare con quest’opera per fare capire di avere capito finalmente ciò che ha scritto nella Vita Nova, esattamente come nella Vita Nova aveva detto che aveva capito che cosa aveva scritto prima. La vita è sempre così: si capisce sempre dopo la verità di quello che ci è capitato prima, ma senza quello che ci è accaduto prima non si capisce quello che viene dopo. E questo spiega tutto: la matematica, l’astronomia, la grammatica, la viticoltura, tutto.

Vuole fare questa enciclopedia in quattordici libri in cui il mondo è legato tutto dal rapporto che l’avvenimento ha alla struttura logica del segno. Il segno è ciò che capita nella tua vita e che, morendo nella sua apparenza, svela la verità e sua e di te che lo leggi. L’incontro con Beatrice era stata per lui la modalità con cui lui aveva finalmente capito Cristo. Beatrice è stata la cosa che gli ha fatto capire che cosa è Cristo presente nella vita di ogni uomo. Ma al quarto capitolo smette, non perché è incapace, ovviamente, ma perché si accorge che, i filologi lo sanno benissimo, che è diventato un altro. Usa già le parole in maniera diversa di come le usava all’inizio. Le parole gli diventano mano mano che scrive il libro più vere, più profonde, più autentiche cosicché lui dovrebbe riscriverlo dall’inizio, anzi più va avanti più si accorge che alla gente che non ha fatto questa esperienza dovrebbe spiegare ogni parola che usa, perché la gente non ragiona più così. Al massimo è possibile rivolgersi a coloro ai quali almeno un lumetto di ragione è rimasta. Ci vorrebbe dunque un libro che, nel suo stesso farsi, fosse la traccia di questo continuo mutamento di sé, che costituisce l’anima dell’esperienza di Dante e che lui vuole invitare i lettori a fare. Il lettore deve mutare, parola per parola, segno dopo segno, come sta cambiando lui, parola per parola, pagina dopo pagina. Questo libro procede di pari passo con la crescita dell’esperienza di chi scrive e che è il luogo della felicità di chi scrive perché per Dante, che è uno scrittore, fare questo vuol dire scrivere. È la sua vocazione, il suo compito.

L’inferno è l’atrofia, il luogo della statica, in cui le persone sono bloccati su di sé, sanno già le parole che usano. Il purgatorio, invece, è l’ambito in cui qualcuno comincia a domandarsi che forse può essere diverso da questo, però non sa come si fa e gli sembra che per la fragilità non ce la faccia più. Il miracolo del purgatorio è costituito dal fatto che uno continua a camminare solo perché vede davanti un altro che regge e che ha una motivazione più forte. Questo è il purgatorio, una fatica tremenda, che ha però come contraltare questa strana presenza. Il paradiso é il luogo fatto proprio dell’umana specie, il luogo in cui si può essere umani, in cui ogni incontro ti cambia, la novità è continua, e il desiderio si incrementa a dismisura.

Per far capire come questo sia diventata testo, abbiamo preso alcune parole della Divina Commedia, esemplificative, paradigmatiche, e le abbiamo seguite nel loro cammino, come si può ben vedere nei pannelli della mostra.

Dante dice che c’è una cosa che lo ha convinto, l’essere del mondo, che il mondo è bello e Dio è grande. Questo stupore l’ha condotto da una selva oscura e inesplicabile, dal limite della disperazione, fino al riconoscimento di una invincibile volontà di Dio di rinnovare la nostra vita. Come dire tutto ciò? Come sarebbe bello se gli uomini potessero sempre parlare come una mamma parla al suo bambino, come lui ha parlato con gli altri senza riserve, perché queste parole fossero il luogo in cui ciascuno di noi recupera tutta l’intera sua vita passata e si rilancia, certo di questa esperienza, in quella che viene. La ricostruzione di questa lingua è il compito di cui lui si è incaricato. Cioè provate a rileggere la Commedia dall’inizio e forse ancora una volta è nuova.

 

 

 

 

Sul tema della mostra si rinvia, per una maggiore puntualità, al volume: Brasioli, Dante. Lo sguardo la realtà, Sottomarina 1995, e al catalogo della mostra (ndr.)