Assemblea Nazionale della Compagnia delle Opere

Sabato 31, ore 11

Relatori:

Marco Paglialunga

Aldo Brandirali

Bruno Sancinelli

Francesco Silvano

Antonino Albanese

Carlo Borgomeo

Piero Bassetti

Filippo Maria Pandolfi

Giancarlo Cesana

Moderatore:

Giorgio Vittadini

Vittadini: Questa assemblea della Compagnia delle Opere, che si svolge, com’è tradizione, l’ultimo giorno del Meeting, ha come tema il lavoro, l’economia. Non è un tema diverso da quello generale del Meeting, perché abbiamo cominciato a fare opere per lo stesso motivo per cui i primi apostoli sono andati dietro a Gesù; perché abbiamo incontrato qualcuno che ci ha reso improvvisamente chiaro che la realtà non è solo quello che si vede e si tocca, che la realtà ha una profondità diversa: dietro l’apparenza di quello che si fa e di quello che si sopporta e di quello per cui si lotta, c’è qualcos’altro o qualcun’altro. Tutto l’interesse per l’economia e il lavoro per noi è nato da questo, dal desiderio di capire e di vedere questa presenza che c’è nella realtà, anche laddove sembra estranea.

La scoperta di questa presenza ha dato inizio ad un’amicizia diversa, ha messo insieme degli uomini in modo diverso dal solito. E poi ha messo uno scopo nel lavoro di tutti i giorni più profondo di quello degli altri uomini che lottano per quello che vedono. È cominciato un lavoro per quello che non vediamo ancora, ma che vogliamo capire. Non abbiamo messo a tema l’arricchimento, l’economia, i problemi sociali, ma questa presenza, quest’uomo che c’è nella realtà, che è apparso duemila anni fa e che vogliamo scoprire nel nostro lavoro. E allora impressiona noi stessi il fatto che avendo a tema un problema umano, religioso, personale, di felicità (come ci ha detto don Giussani nell’ultima nostra assemblea a Milano, "che lavorando siate felici"), si riescono ad avere risultati non solo positivi, ma in certi casi impressionanti, cioè di esito civile di lavoro, di realizzazione che non hanno da invidiare nulla a chi ha a tema l’economia, il profitto. Anzi, in qualche caso può essere un esempio, non perché è grande ma perché dimostra che con pochi mezzi si può realizzare molto per il bene nostro e degli uomini.

Oggi la Compagnia delle Opere ha 4.120 soci, di cui 3.320 imprese. E la cosa interessante è che queste imprese hanno prodotto e producono lavoro anche in parti deboli del Paese, come abbiamo visto l’altro giorno parlando del Sud. Sono nati nessi imprenditoriali, possibilità di sviluppo con molti paesi del mondo, con la Polonia, con l’Est europeo, col Brasile, è nato un tessuto imprenditoriale che è interessante anche all’occhio più civile, più laico. Non solo: questo tessuto imprenditoriale ha dato vita a una serie di attività sociali molto interessanti: i Centri di Solidarietà (che hanno dato lavoro nel ‘90-91 almeno a cinquemila persone); il Consorzio Scuola-Lavoro, riconosciuto dal Ministero del Lavoro, per la formazione professionale (oltre 25 scuole che hanno formato mille persone); attività di cooperazione internazionale nei punti più deboli del mondo: Uganda, Nigeria, Messico, Brasile, Paraguay, Cile, Argentina, Perù; interventi d’urgenza come nel Kurdistan iracheno ultimamente; attività culturali con gli oltre 60 centri culturali presenti in Italia; attività in università (le 40 cooperative librarie che associano un totale di 200 mila universitari); 104 scuole libere, messe in piedi dai genitori. La nostra presenza è rilevante anche numericamente, ma noi non cambiamo registro adesso che ci sono dei risultati positivi, non mettiamo a tema lo sviluppo o innanzitutto il successo, vogliamo riguardare ciò che è all’origine di questa esperienza, perché è l’unica cosa che ci fa interessare anche degli aspetti tecnici dell’imprenditoria, che ci fa amare il particolare nel lavoro di ciascuno e di tutti e che ci fa essere una cosa sola, cioè solidali e capaci di aiuto per uno sviluppo che è per la vita civile del nostro Paese e del mondo. Per questo oggi vogliamo verificare cosa cambia l’esperienza che facciamo nel lavoro e perché degli uomini sanno costruire, anche in condizioni difficili, anche quando la vita non darebbe positività, come nelle favelas di Belo Horizonte o in certi posti del Sud dell’Italia.

Abbiamo invitato alcuni ospiti perché con brevi interventi rispondono a questa domanda: cosa significa l’esperienza cristiana nel lavoro? Cosa cambia negli obiettivi?

Marco Paglialunga, presidente della Co.F.L.A.T.

Paglialunga: Per me ed i miei amici non c’è niente di più concreto che rispondere a questa domanda. La Co.F.L.A.T. è un consorzio di cooperative, una quindicina ora, che danno lavoro a oltre 500 persone, giovani, spesso anche in stato di bisogno. In una regione come la Toscana, dove, come dice qualcuno, rimangono consistenti e forti certe sacche di socialismo reale, dove verso un’esperienza come la nostra non c’è simpatia né consenso, non si può iniziare a fare una cosa come questa senza avere degli amici, gente con cui affrontare nei termini più umani possibili l’avventura della vita per dare una risposta alle esigenze più essenziali dell’esistenza.

Quando uno finisce l’università ha voglia di costruire qualcosa di importante per sé e per i propri amici; però si trova a scontrarsi con tutta una serie di condizionamenti: i primi posti di lavoro che ti vengono offerti, se sei stato bravo, la carriera, i genitori, il matrimonio... Noi abbiamo iniziato a dare una risposta senza poter contare su aiuti, senza sostegno, senza soldi, unicamente confrontandoci con la realtà. Non abbiamo chiesto alla nostra compagnia di lenire il sacrificio e la fatica di lavorare 12 ore al giorno e guadagnare la metà di altri che nella nostra stessa condizione già entravano in un processo differente. Scelta condivisibile e giustificabilissima che noi però non avevamo intenzione di condividere: da qui è nato tutto il resto. Pacche sulle spalle, tanti buoni consigli, soldi pochi o niente, nessuna disponibilità da parte di chi detiene il potere bancario.

La Co.F.L.A.T. oggi è un’esperienza che dà lavoro a tanta gente, si occupa di servizi in generale: trasporti, recapiti (siamo concessionari postali autorizzati), questioni ambientali, turismo, cioè una federazione di questioni, di risorse, di intelligenze che a mano a mano si affiancano l’una all’altra proprio avendo come punto di riferimento il fatto che nell’esperienza umana che stiamo facendo tutto è già compreso.

Proprio attraverso il lavoro svolto in questi anni mi sono convinto di un fatto: una cosa come la nostra non nasce né vive né prospera per la liberalità intelligente di un potente. L’origine e lo sviluppo vanno ricercati dentro l’essenza stessa del significato umano della nostra amicizia. Qui sono contenute le questioni più vere: la prudenza che ci è stata insegnata; l’ironia di fronte a quello che andiamo a fare; la coscienza che quando si lavora insieme ad altri non c’è il bisogno di guardarsi le spalle; la tenacia, perché è l’unica cosa che ci può salvare rispetto agli altri. E la pazienza. Quando uno si misura su cose concrete accade sempre la sconfitta quotidiana, il sacrificio di dover fare una cosa e di aspettare tappe che si susseguono; uno vorrebbe vedere l’alba di tante questioni, ma non ci riesce. Allora c’è bisogno di aiutarsi insieme, però chiedendo alla nostra amicizia di non lenire questo. Spesso mi capita di lavorare con gente che chiede che venga evacuato il bisogno di confrontarsi col fatto che uno deve imparare un lavoro, fare un percorso pagando il prezzo che tutti pagano, dentro la certezza che è possibile farlo senza per questo abdicare all’esperienza di bene che uno ha fatto. Io dico che non c’è bisogno di tante conferenze sulla dottrina sociale, che pure è giusto fare, per spiegare cosa vuol dire un’impresa che non voglia tradire quello che diceva Vittadini prima. C’è bisogno di immagini reali e suggestive, di gente che fa questo e che condivide questo non sulle briciole, ma su quegli interessi dove si spaccano le amicizie e dove c’è rischio di diventare, come tanti di quelli che ci stanno intorno, degli "zombi" che camminano.

Brandirali: Mi è stato chiesto di fare da pennello evidenziatore del racconto di opere che si sono presentate qui al Meeting senza riuscire a diventare notizia.

Sapete che 530 ragazzi rumeni sono venuti in Italia e hanno fatto due mesi qui nelle famiglie di questa gente, di questo popolo, e hanno quindi potuto vivere un momento di rapporto con il mondo che oggi li chiama a riprendere il cammino. Avete sentito, purtroppo non è diventato notizia, l’Assunta Cescon quando si è parlato di Aids, di quelle cento persone che hanno l’impegno di assistere questi giovani malati terminali che muoiono uno dopo l’altro, fianco a fianco di questi nostri amici che con loro parlano, piangono, ridono. Ogni mattina si sono raccontati quelli dell’Anaconda, quelli di Età Insieme, quelli della Fondazione Moscati, e decine e decine di altri. Perché solo racconti possono essere, quando sono numeri non dicono niente. Se noi dicessimo 100, 200, 2.000, cosa vuol dire? Ma quando tu senti che ognuno di questi che racconta incomincia a dire di Luigi, di Piero e del vecchietto che ha ritrovato la gioia di vivere, voi sentite allora una storia infinita di una presenza che è pulsante, costruttiva, innovativa. C’è un’idea di ordine che ci inquieta per la sua astrattezza; invece questa libertà che crea ordine perché è richiamata ad un significato desta in noi una emozione profonda.

Bruno Sancinelli, presidente di Enterprise.

Sancinelli: Faccio una premessa e dico che non sono e non voglio essere definito un imprenditore cattolico. Sono un cattolico, che fa l’imprenditore. Cosa vuol dire essere cristiano e fare l’imprenditore? Avere Cristo come socio d’impresa. È certamente un paradosso per chi non ha l’esperienza di vivere accompagnato dal Signore. È normale invece per chi ha avuto ed ha la fortuna di vivere assieme a Lui, appartenendo a Lui, lasciandosi accompagnare da Lui. Quando noi glielo permettiamo, Lui lavora con noi e per noi, e questo, vi assicuro, fa la differenza.

Adesso questo mi risulta molto semplice, perché ho provato e ho capito, ma ho passato un tempo in cui non capivo affatto e tantomeno provavo. In altri tempi ho pensato superbamente che il Signore non andasse scomodato per banalità e cose pratiche, che servisse sì come riferimento e anche sostegno, ma solo per motivi di tipo spirituale e comunque di grande levatura o di grande tono, non certo per banalità pratiche di tutti i giorni. La realtà era, e me ne sono accorto dopo, che io in quel tempo non vivevo con Lui, non gli consentivo di vivere con me, e questo è veramente un peccato: è il peccato dei peccati. E non ne parlo in senso morale, anche se lo è di certo il peccato di superbia, forse il più grande dei peccati, ma dico proprio nel senso comune: è un peccato, è una dabbenaggine, è uno spreco, è un comportamento antieconomico non chiedere o addirittura rifiutare quanto Lui ci offre senza chiederci nulla in cambio. È un peccato rifiutare di avere un socio di impresa come Lui.

A me è successo di capire di colpo nell’82 quando è avvenuta la mia conversione ed è ora un’esperienza tanto forte e importante e tanto precisa che non posso fare a meno di proporla anche a voi, di farla condividere a chiunque voglia ascoltarla e sperimentarla: non solo è possibile essere cristiani e fare l’imprenditore, ma di più, è conveniente essere cristiani nel fare l’imprenditore. E mi sbilancio con un’altra affermazione paradossale: con un socio come Cristo fare l’imprenditore è un gioco da bambini. È difficile essere cristiani, caso mai, e lasciar lavorare il socio, inserire i nostri progetti nel suo progetto su di noi e poi lasciare che le cose avvengano come devono avvenire perché tutto già esiste, tutto è già fatto, noi dobbiamo solo scoprirlo e starci dentro e imparare a vivere nel mondo senza essere del mondo. Non voglio essere frainteso; per fare l’imprenditore servono anche competenza, professionalità, esperienza, umiltà nell’imparare il mestiere, mezzi a disposizione e così via, ma sono condizioni, mezzi e strumenti che si possono acquisire. Questa è la mia esperienza attuale ma non è sempre stato così. Ho provato nella mia vita un altro stato d’essere, quello della non conversione, dell’assenza di Cristo e del rifiuto a lasciargli spazio. E in questo secondo stato ho vivo il ricordo degli sforzi vani, dei rischi corsi, delle disgrazie che mi sono tirato addosso. Ho percorso per un lungo tratto della mia vita un’esperienza di tipo gnostico, senza Cristo, e nel fare da solo ho rischiato di rovinare me stesso, di rovinare la mia vita familiare e di rovinare la mia vita imprenditoriale fino all’orlo del fallimento. C’è una grande differenza fra il tempo della provvidenza e il tempo della non provvidenza, anche se poi la distinzione non è più così precisa perché ci sono momenti di provvidenza anche nel tempo della non provvidenza e viceversa, però lui, nostro Padre, è sempre lì, discreto, ad aspettare che noi eventualmente lo chiamiamo, se vogliamo.

Ho cominciato a lavorare nel ‘52, avevo 16 anni, ora ne ho 55. Ho cominciato con studio e lavoro contemporaneamente in una famiglia povera facendo un piccolo commercio di rottami con mio padre e i miei fratelli. Lì è cominciata la mia avventura imprenditoriale che mi è capitata addosso, senza che io lo volessi in modo preciso, è stata quasi una vocazione. L’attività principale è diventata nel tempo quella industriale siderurgica; due anni fa ho fondato Enterprise, dal nome dalla famosa portaerei americana. È un’impresa che fabbrica imprese, le promuove, le sostiene, le sviluppa, le gestisce direttamente o magari le cede a chi voglia gestirle. Enterprise si interessa di tutto, ma sceglie prevalentemente di investire nei settori dedicati all’industria dell’ambiente, dell’energia, della logistica e delle sue strutture; investe anche in campo immobiliare e nel terziario avanzato. In questi ultimi due anni ha dato vita o ha acquisito partecipazioni in circa 40 iniziative. Io sono attualmente un piccolissimo imprenditore, certamente un microbo nell’attuale panorama degli imprenditori italiani più importanti, per adesso comunque. Per il futuro lascio fare al mio socio d’impresa, è lui che detta i ritmi dello sviluppo.

Sono imprenditore di prima generazione e prima della mia conversione mi veniva facile pensare e dire che mi ero fatto da solo. Ora ho capito e ho coscienza precisa che nulla di quanto posseggo, lo posseggo per merito mio. Io devo solo gestire le cose che lui mi ha donato e che mi dona ogni giorno. E questo devo dirlo a voi, devo ripeterlo a chi intraprenda ora o svolga già la sua vita di lavoro: non abbiate paura, con Cristo non potete sbagliare. E non vergognatevi se diventerete ricchi, se avrete mezzi, beni, denaro, tanto non sono vostri, sono dono del Signore come la salute, la bellezza, la vita stessa. E siate generosi, generosi verso la vita, con gli altri, perché essere generosi non è solo un superamento dell’egoismo che è un limite umano, ma è soprattutto conveniente. E se sarete generosi potrete scoprire in pratica come io ho scoperto il significato del detto evangelico: a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto.

Principio fondamentale dell’economia è quello di ottenere sul piano pratico il miglior risultato con il minimo sforzo: allora essere cristiani, appartenere a Cristo è economico.

Francesco Silvano, amministratore delegato della STET.

"Quando si occupa, come nel mio caso e non certo per meriti miei, una posizione di rilievo nel contesto sociale, gli schemi di potere prevedono una schedatura di appartenenza che non è mirata all’individuo, ma alla definizione degli ambiti di influenza e quindi del potere. A me sono state attribuite nel tempo molte arbitrarie appartenenze, ma io sento il dovere di dire che una sola è quella vera, l’appartenenza alla Fraternità di CL".

Silvano: Quando, come nel mio caso, si è da 36 anni nel mondo del lavoro è difficile leggere il contenuto di un’esperienza filtrata in un arco di tempo che ha visto mutare molte condizioni e molti presupposti, dalle tensioni di un tempo a ricostruire un sistema economico, alle sopraffazioni di una delle componenti sociali, dal fideismo tecnologico che ha prevalso in un certo periodo, sino alla ricerca di una legge di mercato giusta e finalizzata alla dignità dell’uomo. Come voi, io sono passato attraverso gli eventi cercando di capire il significato del lavoro alla luce della dottrina sociale della Chiesa ed ho trovato ancoraggi e conforti, chiavi di lettura e di speranza in un mondo migliore soprattutto nelle encicliche del Pontefice, documenti da meditare senza farci fuorviare dalle interpretazioni sociali che non rispondono alla chiamata di contribuire a sviluppare l’opera della redenzione.

A ciascuno di noi viene chiesto attraverso la grazia l’audacia di essere liberi, di non essere preda della tentazione che esclude la nostra capacità di cambiare le cose, perché il peccato è, a mio avviso, l’arrendersi di fronte all’evidenza dell’incapacità di incidere in modo determinante, e rinunciare così a fare quanto le nostre forze ci consentono di fare. Non si può arretrare di fronte all’obiezione circa l’inutilità del nostro agire, occorre rispondere alla chiamata senza riserve e senza pretese di esiti. E ho così capito che il Signore ci chiede di mettere a frutto i talenti per lui e per gli altri e ciò significa lottare contro la tentazione del potere e contro l’omologazione al sistema, impegnare cuore e intelligenza in una dimensione di tensione continua per essere creativi e non passivi, per decidere cosa sia realmente il bene comune, come si debba costruire sulla roccia e non sull’effimero, non avendo mai paura della fatica, dell’insuccesso, della derisione, dell’incomprensione e dei rifiuti: il traguardo vero, come ha detto chi mi ha preceduto, è di vivere nel mondo senza essere del mondo, di essere distaccati dalle cose e dalle situazioni, perciò veri e liberi, sapendo servire in umiltà e pazienza, in testimonianza di un cammino che ci garantisce la libertà dei liberi figli di Dio, un cammino che per noi è facile perché è un cammino che si sviluppa nella compagnia e nella disponibilità a seguire Cristo senza chiedere nulla.

Quando ho visto i primi timidi avvii e poi l’esplosione della realtà operativa della Compagnia delle Opere, esperienza che ho seguito dapprima con interesse e poi con infinita ammirazione, anche con commozione, ho imparato che la creatività intelligente unita alla tensione del cuore produce frutti di certezza e di speranza. I semi gettati che hanno già dato i frutti che oggi ci sono stati ricordati fanno germogliare nuove realtà in un crescendo di presenze che sono fondate sulla certezza di realizzare un disegno di salvezza all’interno di una compagnia che ci costituisce e ci definisce dando significato alla sofferenza e agli insuccessi. Ci aiuta a capire, lasciatelo dire a me ormai vecchio, la forza definitiva delle parole di Cristo. Dissero gli apostoli al Signore: "Accresci la nostra fede" (Lc 17). "Ora, dice Cristo, chi di voi che abbia un servo ad arare o pascolare, a lui tornando dalla campagna dirà subito: ‘Va’, adagiati a mensa’ e non gli dirà: ‘Apparecchiami da cena e cingiti e servimi sinché io mangi e beva e dopo ciò mangerai e berrai tu’? Sarà egli forse grato a quel servo che fece le cose ordinategli? Non penso, e così voi quando farete tutte le cose ordinatevi dite: servi inutili siamo e quanto dovevamo fare abbiamo fatto" cit.. Io ho grande timore nel dire che quanto mi è stato ordinato ho fatto, ma questa compagnia mi conforta nel pensare che questa è la vera sintesi della nostra fatica e del gestire successo e potere: poter dire con umiltà e intelligenza che siamo solo dei servi inutili.

Antonino Albanese, amministratore delegato e direttore dell’ANCIFAP, del gruppo IRI.

Albanese: Ringrazio, e non è una frase di circostanza, per essere stato invitato al Meeting. Come ci sono arrivato? Io penso che siano storie di ordinaria provvidenza. Tre anni fa mi trovai a lavorare assieme agli amici della Prosvi. Erano gli anni in cui si cercava di avviare i progetti nel Mezzogiorno, legati alla legge 64 degli interventi straordinari. Ricordo una conversazione al ristorante, in cui parlammo del senso cristiano del lavoro che facevamo ogni giorno, della differenza che ci può essere tra il lavoro fatto da una persona perbene e il lavoro fatto da un santo o da uno che cerca il cielo fin da quaggiù, dalla terra. Questo "valore aggiunto" – dicevamo – non va sprecato e trasferimmo questa similitudine anche a situazioni non individuali ma collettive come potevano essere le nostre aziende e le realtà in cui ciascuno di noi lavora. E quindi parlammo della Compagnia delle Opere, del modo con cui potevamo migliorare le cose sia dal punto di vista umano sia cristiano attraverso il nostro operare di ogni giorno. Considero tutto quel colloquio una colazione di lavoro perché se avessimo ragionato o parlato con un esperto di management ci avrebbe detto che avevamo fatto una seduta di pianificazione strategica perché avevamo ragionato di finalità dell’impresa, di missione dell’impresa, di relative strategie, liquidando in un’ora un processo che nelle imprese è abbastanza lungo e impegnativo. Per noi è stato semplice perché finalità e missione, e con queste le strategie, sono chiare. In qualche modo sono esterne a noi stessi, cioè come cristiani sappiamo cosa vogliamo, dove vogliamo andare, chi ce lo fa fare. Il problema che rimane è quello di operare con coerenza, quindi aziendalmente parlando di gestire in maniera corretta le politiche, cioè il modo di raggiungere gli obiettivi e i risultati, però molta strada nel processo imprenditoriale aziendale è fatta. Ciò significa che la compagnia ha tra gli altri un vantaggio competitivo tra i più importanti. Le imprese, compresi i Giapponesi, spendono fior di miliardi per creare questa cultura dell’organizzazione, dell’impresa, per fondare il senso dell’appartenenza. Al mattino si mettono a cantare e a far ginnastica prima di cominciare a lavorare, poi mettono in piedi dei sistemi premianti, impressionanti e dispendiosi, per mobilitare, perché un contesto in rapido cambiamento come quello in cui si vanno a collocare le nostre imprese richiede questa capacità pronta di reazione. Nel caso nostro questa cultura dell’organizzazione, il legante, il fondamento dell’appartenenza c’è già, e non è poco. L’appartenenza poi consente partecipazione, consenso e mobilitazione. E questo sviluppo competitivo può essere vincente, però non basta perché nella grande corsa della competizione delle imprese, e noi mettiamo su imprese, vince chi lavora bene, l’impresa che guadagna, che ogni anno a fine esercizio fa i conti con i risultati. Allora il primato spetta alla professionalità individuale e collettiva che non lascia spazio a dilettantismi, a improvvisazioni anche se fossero accompagnati, ed è bene che siano accompagnati, da buona volontà ed entusiasmo, quindi capacità di lavoro ed altre qualità professionali.

Pensando alla qualità totale, un tema oggi dominante, e ad uno dei lemmi fondamentali che la cultura giapponese ha messo in circolazione, cioè che il cliente di ciascun operatore all’interno dell’impresa è il suo collega, noi cristiani possiamo pensare che il nostro cliente, anche quello del nostro lavoro quotidiano nascosto che nessuno vede né valuta, è il nostro Padre nel cielo. Questa è la più alta espressione di qualità totale che riverbera inevitabilmente a vantaggio di chi ci sta accanto. Oggi qualunque persona, se esprime capacità lavorative e professionali valide, garantisce per sé stabilità, ricompense adeguate, economiche, di realizzazione umana, di affermazione sociale ecc. Ciò comporta il bisogno di molta formazione: c’è un’emergenza in questo campo, l’emergenza delle intelligenze che hanno bisogno di essere mobilitate e hanno bisogno soprattutto di quell’elemento che sblocca la mobilitazione, cioè dei valori di riferimento. Si sta affermando in questo tempo un modello di formazione che i tenici chiamano action learning, cioè l’imparare facendo. Si tratta di una tecnica che ha tutta la sua strumentazione per poter essere gestita, però richiede un contesto operativo educante, un ambiente di lavoro che consenta di imparare, e questo dipende da ciascuno di noi. Noi abbiamo l’obbligo, come persone e come cristiani, di far crescere professionalmente le persone che ci lavorano accanto. Tutto ciò va costruito con pazienza essendo ciascuno di noi per primo un professionista capace, carico di motivazione e che sa creare attorno a sé il clima aziendale favorevole perché ciascuno abbia voglia di fare.

Carlo Borgomeo, presidente del Comitato per lo sviluppo della nuova imprenditoria giovanile nel Sud.

Borgomeo: Il lavoro che ho la fortuna di fare, aiutare a crescere nel Mezzogiorno d’Italia società o cooperative la cui maggioranza sia costituita da giovani meridionali, all’inizio era considerato da tutti un’impresa disperata, almeno quando questa legge è stata fatta, invece sta dando risultati abbastanza soddisfacenti.

Il Mezzogiorno ha moltissimi disoccupati; questi giovani in gran parte sono in una condizione psicologica di attesa o di rivendicazione che molte volte è l’anticamera della clientela, della raccomandazione, dell’assistenzialismo. Il nostro tipo di intervento conteneva una scommessa: dimostrare che è possibile incitare giovani meridionali a creare un’impresa da soli, naturalmente aiutati dallo Stato con incentivi e con l’assistenza di chi è già imprenditore e sa insegnare come si conduce un’azienda nei suoi primi passi. Questi tipi di interventi dimostrano che è possibile, al di là dei comizi e delle battute, assumere la risorsa dell’intelligenza umana come una risorsa dello sviluppo. Queste imprese nascono su un’idea dei giovani e quindi c’è un capovolgimento logico degli interventi che non piovono più come una specie di favore, parola terribile per il Mezzogiorno, ma sono dati come aiuto a qualcuno che ha l’idea di mettersi in proprio e vuole rischiare in proprio.

Quando è partita questa legge, che ha avuto una dotazione di 2.200 miliardi, avevo una paura maledetta. C’erano tutti gli ingredienti peggiori: disoccupazione, Sud, tanti soldi... però ho percepito, e questo l’ho attribuito alla mia formazione cristiana, che bisogna avere la cocciutaggine necessaria quando si parte per una cosa innovativa. Per esser più brutali: non ci credeva nessuno, ed è stata un po’ dura la solitudine, il fatto che i giornali non ne parlavano, che nei convegni si ironizzava su questa cosa. Qual è il valore aggiunto? È credere nel segno. Questo appartiene molto alla nostra cultura: una cosa, due cose, tre cose e oggi 750 imprese, 14.000 addetti, di cui 4.000 giovani tra i 18 e i 29 anni. Per fare un po’ di pubblicità alla legge, voglio dire che sono stati approvati 700 progetti ma ne sono stati respinti 1.600, nel senso che c’è uno sforzo di selezionare, di aiutare ma anche di correggere idee bislacche che sarebbero destinate all’insuccesso.

La questione vera oggi nel Mezzogiorno è dare segnali di speranza collettiva. Io non ho mai visto un impegno civile forte privo di speranza collettiva. E la speranza collettiva non si costruisce con le chiacchiere, ma con i segni, con la Compagnia delle Opere che fa le sue iniziative, con il fatto che alcuni vedono che una cooperativa è partita senza raccomandazioni e senza favori, che lavora tra mille sacrifici e difficoltà, ma esiste. È difficile ma è possibile. Bisogna ricercare con cocciutaggine, con lealtà e con umiltà tutti i segnali di speranza, metterli uno dietro l’altro e indicarli come percorso di speranza collettiva, senza la quale l’impegno civile non c’è. Un politico meridionale di solito cerca consenso promettendo cose che diventano sempre più difficili: grandi fabbriche, grandi interventi... La questione è spostare il consenso sulle piccole cose, legittimare la classe dirigente, quelli che fanno politica, cultura, sulle piccole cose, rivalutare la cultura del risultato rispetto alla cultura del grande evento promesso e mai realizzato. Lo sviluppo c’è se si aiutano a crescere le radici che ci sono su un territorio, alcune delle quali vanno potate, ma altre vanno accompagnate e favorite.

Il mio sogno è quello di potermi impegnare professionalmente sui Paesi esteri, che considero la questione più grande dei prossimi anni. Com’è facile prevedere, non potremo continuare solo a respingere la gente o ad accoglierne qualcuno, dovremo fare in modo di portare la nostra esperienza di accompagnamento e di educazione allo sviluppo anche nei paesi terzi. Il mio è un lavoro straordinario perché con tutti i limiti e le difficoltà e soprattutto le incompetenze e i difetti personali, tuttavia si percepisce, si dà corpo, si verifica la grande affermazione di un’enciclica, che lo sviluppo è vocazione.

Piero Bassetti è dal 1982 presidente della Camera di Commercio di Milano. Nel 1983 è stato eletto presidente dell’Unioncamere, carica che riveste tuttora.

Bassetti: In Italia ci sono 3.800.000 imprenditori iscritti alle Camere di Commercio, quindi 10 o 12 milioni di persone (considerando la moglie, il figlio, il collaboratore) che credono al senso e al significato di lavorare in proprio. Mi sono chiesto: cosa c’è dietro? Chi fa questo mestiere di solito non fa meno fatica del lavoratore dipendente: perché lo fa? Io sono arrivato ad una conclusione, che in fondo è quella vecchia dell’ora et labora: uno che lavora credendo in quello che fa, deve pur mettere dietro il lavoro un senso. Si diceva: l’ordine è un significato. Perché ci sia un ordine del lavoro bisogna che ci sia un senso. Noi eravamo stati tutti educati al valore del lavoro-sacrificio e quindi dipendente; mi pare che sia arrivato il momento di credere al lavoro come concreazione. Il mestiere dell’imprenditore è un tipico mestiere di creazione e, se siamo cristiani e conciliari, certamente possiamo dire di concreazione, perché si usano le idee e le scoperte degli altri, sia che le abbiano trovate facendo gli scienziati, sia pregando. Si usa il lavoro degli altri per far cosa? Qui è il punto. La risposta capitalistica è: "per far soldi" e ci si misura sul far soldi. Io ho scoperto che gli imprenditori che lavorano solo per far soldi sono una minoranza. Ma per che cos’altro? Ce ne sono proprio tanti che lavorano per mettere in piedi qualcosa. Chi glielo fa fare? In questo senso ho trovato interessante porre il problema: c’è dietro qualcuno? Sì, c’è dietro qualcuno o qualcosa: nessun dubbio. Si tratta però di dare a questa ricerca una dignità che oggi non ha. Per questo io sono d’accordo col lavoro della Compagnia delle Opere. Io voglio dire qui come testimonianza: ci sono 10-12 milioni di persone che condividono se non tutto almeno la metà di questo discorso; non sta crollando una parte del mondo che era stato costruito sul valore del lavoro dipendente? Il lavoro oggi non può più essere privo di significato e di invenzione.

Questo è il senso della presenza politica, forse da gente di palazzo; se crediamo che l’imprenditoria è il nuovo nome del lavoro, dobbiamo anche costruire le condizioni che in altri tempi sono state le abbazie e che oggi, dopo la Centesimus Annus, sembra poter essere il mercato. Dobbiamo saper usare le regole del mercato per consentire all’uomo, concreando, di trovare nell’imprenditoria il nuovo significato del lavoro.

Filippo Maria Pandolfi, Vice-Presidente della Commissione delle Comunità Europee, responsabile in particolare della scienza, ricerca e sviluppo tecnologico, delle telecomunicazioni, industrie dell’informazione e innovazione e del Centro Comune di Ricerca.

Pandolfi: Rappresento qui la generazione che si è formata nella militanza cattolica nella seconda parte degli anni Trenta durante la guerra e che dalle cose stesse oltre che dalle personali qualità interiori è stata spinta dentro l’impegno pubblico.

Ciascuno ha la sua storia personale. Mio padre era un vecchio popolare antifascista, io un ragazzino piuttosto precoce; ho fatto la resistenza e poi subito immediatamente, senza soluzione di continuità, senza dubbi, senza esitazioni, se vogliamo in maniera terribilmente acritica, ma forse, retrospettivamente, lasciatemelo dire, in maniera provvidenzialmente acritica (pensando adesso ad un mondo tutto avviluppato nelle parole e così poco capace della trasgressione necessaria che spezza il vincolo e i lacci delle parole per andare dentro direttamente nelle cose) dentro l’impegno per gli altri. Questa è la mia origine e poi qualche folgorante presenza nel momento più importante della formazione. Vorrei ricordare Giuseppe Dossetti, e da allora un programma che è venuto fuori per me nei primissimi anni del dopoguerra. Io avevo allora e conservo un po’ anche adesso, qualche civetteria che riguarda il greco biblico che mi piace leggere ancora. Una volta, ricordo, era un tardo pomeriggio, tirai fuori una scheggia dal capitolo quinto della lettera agli Efesini: "Riscattando il tempo se i giorni ci sono avversi". Riscattare il tempo significa andare nell’agorà, nella piazza, nel mercato e accettare quel tanto di necessarie compromissioni anche se le regole del mercato non sono esattamente quelle che vorremmo noi. Di qui per tanti altri come me è venuta fuori l’origine, la radice di questo impegno.

C’è un’altra metà di verità. A costruire il modo di essere di questo impegno ci hanno pensato le opportunità stesse, nuove, innovative, creative, irripetibili, piene della fantasia della realtà, della storia, di Dio. Conoscervi e lavorare un po’ con voi è un’altra delle opportunità. Opportunità sono anche quelle dell’economia, anche se davanti alle cose di questo mondo, comprese quelle dell’economia, io mi sento sempre portato a ritenere che moltissimo dipende da noi nel bene, nel male, dalla nostra professionalità, dalla nostra capacità di fare, di scegliere, di accettare i rischi. Mi sento personalmente meno inclinato a vederci quotidianamente la mano di Chi ci guida, mi sento molto più stimolato a cavar fuori da me e da quelli che sono con me il massimo delle capacità per vincere le situazioni e questo mi ha permesso il gusto dell’opportunità, di affezionarmi sempre alle cose che facevo in ciascun momento.

Adesso mi occupo di Comunità Europea e anche qui cerco di sentire per quanto è possibile il gusto delle opportunità anche se io temo che la Comunità Europea possa racchiudersi in una sorta di eurocinismo. Nell’89 sono accaduti avvenimenti straordinari, ma siamo pronti alla responsabilità continentale che è capitata sulle nostre spalle, a destinare agli altri una parte del nostro prodotto interno lordo, a fare qualcosa per evitare il rischio della balcanizzazione di metà dell’Europa e per evitare che questo difficilissimo percorso dall’economia di comando all’economia di mercato vada oggettivamente al di là della portata dei nostri amici di quest’altra Europa che è diventata finalmente la sola Europa?

Mi porto dietro sempre in questi giorni la Centesimus Annus; il capitolo 49 dovrebbe essere messo qui all’assemblea della Compagnia delle Opere; ebbene temo che a livello europeo tutto questo non venga sentito ed è per questo che sono felice di lavorare anche con voi, perché vengano costruite teste di ponte, interconnessioni, reti specifiche di solidarietà, così come è scritto in questo meraviglioso testo.

Un pensiero finale: Antigone è l’insegna di questo Meeting. Questa donna è il simbolo insieme dell’amore e della trasgressione. Forse il dono più bello che può capitare ad ognuno di noi, anche quando siamo tra gente di palazzo, è sentirsi sempre dall’altra parte, dalla parte dell’uomo, degli umili, di coloro che hanno tanti conti con la società aperti e non soddisfatti. Vi ringrazio di avere rievocato questa donna smarrita e fiera, simbolo della forza della coscienza, lasciatemi dire della forza di Dio davanti a tutti i palazzi di questo mondo.

Cesana: Nel mio intervento voglio semplicemente rispondere ad una domanda: qual è il fattore dinamico alla base della Compagnia delle Opere, e quindi anche di questo Meeting che, non dimentichiamolo, è un’opera, per quanto grande, tra le opere e quindi fa parte di un dinamismo, di un movimento più grande? Il fattore che sta alla base di tutto questo è la consapevolezza o, se volete, l’intuizione, la percezione assolutamente fragile, però vivissima, che all’origine del lavoro, dell’iniziativa, dell’attività umana sta la gratuità; all’origine del lavoro sta l’amore, non i soldi, e questa gratuità è ciò che anima il Meeting. All’origine del lavoro – lo ricordava Bassetti – sta un desiderio di creatività, la necessità che il lavoro corrisponda al desiderio di un cambiamento di sé e del mondo secondo la verità. Quanta gente è occupata e alienata! All’origine del lavoro c’è questo fattore per cui nessuno ci paga, anzi ci pagano per dimenticare che il lavoro serve a questo. Il lavoro vero della vita è cambiare sé e cambiare il mondo, intervenire in questa giungla equivoca che costituisce sé e il mondo per far venir fuori quello che è fertile e buttar via quello che è ostile. Perché il mondo è una fertilità anche dentro una ostilità: c’è la guerra, non possiamo pensare che non ci sia: l’ha detto bene il Card. Biffi.

Se l’origine del lavoro è la gratuità all’origine del lavoro sta la libertà, perché l’amore è un fatto di libertà: non c’è niente di più libero dell’amore né di più indomabile perché noi non possiamo impossessarci di questo: non è nostro!

Questa energia che ci mette al lavoro, questa energia che ci rende desiderosi e capaci di affrontare la realtà, come si è visto (nell’87 erano 50 gli associati della Compagnia delle Opere, oggi sono 4000), nasce da un’amorosità, cioè da un impegno dell’intelligenza e del cuore insieme, perché la libertà è intelligenza e cuore e non c’è libertà senza verità perché è la verità che evoca la libertà: "la verità vi farà liberi".

Questa verità è dentro un incontro, è nella nostra esperienza che ci costringe ad essere liberi, cioè a decidere se amiamo noi stessi e il mondo oppure no. Questa è l’immagine persino commovente della nostra presenza; il Meeting fa vedere questo, un fatto di libertà unico che si evince soprattutto nella constatazione che il particolare viene vissuto da chi lavora con un’apertura alla totalità: chi serve a tavola non è rabbuiato come può essere rabbuiato uno che è stufo del suo lavoro, o non è gentile solo perché mira alla mancia. Uno, lavando i piatti, può interessarsi della Russia, domanda che cosa è successo, che cosa hanno detto ecc.; lavare i piatti ha la stessa dignità del discorso di Eltsin sul carro armato. Il cristianesimo è questo: non c’è nessun gesto compiuto nella banalità quotidiana che sia niente; tutto è per l’eternità, cioè Dio si è fatto uomo.

Nella nostra compagnia siamo messi di fronte alla verità che evoca la libertà e la libertà ci fa amare la quotidianità. Ciò che è accaduto qui è un esempio, un paradigma per domani perché domani, è stato detto, si va a lavorare e la vita è dura: bene abbiamo memoria di quello che è avvenuto qui.

Il Meeting, questo fatto di libertà unico, quest’anno è stato impressionante; sono venuti i maggiori responsabili della politica italiana, anche di tendenze diverse, anche a dissentire; sono venuti qui quelli dei paesi che hanno più bisogno, dall’Albania, dall’Est, dal Medio Oriente. Come sono venuti gli scienziati, gli uomini di cultura: il Meeting è tutto questo, è veramente un fatto di libertà, è veramente un fatto dove si può imparare ad amare se stessi e la realtà.

Di fronte a questa realtà che siamo noi, che è il Meeting, la Compagnia delle Opere, il Movimento Popolare, Comunione e Liberazione, esiste un tentativo scontato e prepotente di riduzione politica, ma per grazia di Dio non riesce più. Si è visto chiaramente in questo Meeting che noi non abbiamo mai avuto padrini, solo amici. La riduzione politica di questo grande evento che noi siamo e che il Meeting rappresenta è impossibile, anche se, ovviamente, l’opzione politica esiste, perché agire e vivere vuole dire anche decidere politicamente. Si fanno sottolineature, ma dentro una stima e un’amicizia grandissime senza nessuna chiusura e meschinità.

C’è una cosa che mi impressiona: tutti i festival di questo genere sono tramontati, ma questo va avanti e noi stiamo andando avanti. Siamo gli ultimi dei Mohicani, come ha detto De Michelis, ma in fase di replicazione. Noi siamo veramente dei vasi di coccio: non siamo tantissimi, non abbiamo tanto potere, non contiamo, come si suol dire, nel palazzo, ma siamo una realtà che avanza irriducibilmente ed è proprio impressionante che questa irriducibilità non è data dalla violenza, ma dalla pazienza, dal fatto che sopporta, nel senso che sostiene, non ha paura della realtà né delle difficoltà, in una parola non ha paura della vita e non ha paura di mettersi a lavorare. E noi stiamo lavorando.

Vittadini: Chi volesse lavorare con la Compagnia delle Opere sappia che quello che ha detto Cesana avviene facendo insieme: c’è una coincidenza tra il contenuto ed il metodo. Noi non impariamo delle dottrine e poi facciamo, noi facciamo insieme. Chiunque di noi è rimasto qui ed ha cominciato a lavorare è partito da un’esperienza particolare o perché si è coinvolto con le nostre imprese al Sud o è andato all’estero a fare del volontariato o si è messo a fare delle opere di carità insieme o perché ha cominciato a leggere Il Sabato, Trenta Giorni, Litterae Communionis.

L’unico invito operativo è: fate insieme con noi qualcosa perché dal particolare nascerà l’universale.