SCENA 1 - Il vecchio immigrato al funzionario: "Mio padre mi diceva..." "Che c’entra chi diceva...?" "Mio padre c’entra sempre".

Martedì 27, ore 11

Relatori:

Gerardo De Mello Mourao

Eugenio Corti

Moderatore:

Maurizio Vitali

Vitali: L’appartenenza è veramente la possibilità della libertà. Sono con noi per introdurci in questo percorso due grandi scrittori: Gerardo De Mello Mourao, la cui riflessione, partendo da Antigone e seguendo il percorso simboleggiato dalla Divina Commedia, ci fa vedere un cammino della possibilità di libertà della persona e una immagine concreta di cosa sia un’appartenenza vissuta e che riscatta, che libera; Eugenio Corti, che è non solo un osservatore molto attento del travaglio dell’identità e dell’appartenenza di popolo in Italia, che è originariamente un’identità ed una appartenenza cristiana, ma anche un testimone. I suoi racconti e i suoi romanzi sono una osservazione, ma partecipe, dal di dentro, di questo travaglio, di questa storia, che ci precede, ci accompagna e ci condiziona e pone i termini dei problemi che dobbiamo affrontare oggi. Il suo intervento sarà soprattutto una testimonianza, un’analisi della crisi storico-culturale verificatasi nel nostro Paese circa l’appartenenza e l’identità cristiana, e quindi la possibilità della libertà.

Nato in Brasile nel 1917, Gerardo De Mello Mourao è noto poeta e scrittore. Le sue opere principali sono state tradotte in varie lingue. È stato candidato al Nobel per la letteratura.

Mourao: Non c’è dubbio che altre persone oltre ad Antigone erano presenti al momento dello scarno e folgorante dialogo del vecchio immigrato con l’impiegato. Tra loro, una vecchia conoscenza di Antigone, chiamata Dante, il poeta, che se situa nell’Inferno gli amanti di questa città, Francesca e Paolo, concede tuttavia la speranza del Paradiso ad Antigone, ospitandola nel terzo girone del Purgatorio. È possibile che ci siano state delle altre persone al fianco di Antigone e del vecchio immigrato, nell’incontro di cui stiamo trattando, persone dotte in libertà, in amore e morte, alcuni vaghi poeti, filosofi, teologhi, abituati ad incontrarsi, in vita, con angeli e demoni. Forse Leopardi, Hölderlin, don Chisciotte, Rimbaud, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, quella famosa donna di Siena, Caterina, Rainer Maria Rilke, e chissà... Martin Heidegger, Cechov, Dostoevskij, Solov’ev... Non so, ma so che Dante Alighieri doveva esserci, e al suo fianco naturalmente Beatrice. Naviganti di mari assoluti, possono servirci da guida nella peripezia di Antigone e del vecchio immigrato che si svolge nella frontiera tra il tempo e l’eternità. Territorio dell’amore e della morte, dal quale e per il quale stiamo sempre partendo alla ricerca della libertà, alla ricerca di noi stessi, ed infine alla ricerca di Dio, di questo Dio che, come sapeva Platone, è più me di me stesso che sono appena una immagine di una somiglianza. Lui è nella pienezza della sua presenza, la prima e l’ultima lezione, il primo dono e l’ultima eredità. Tanto Antigone come il vecchio immigrato, invocando la vigenza di una legge permanente: "Mio Padre c’entra sempre", più che una legge, castigano e premiano tutti e ciascuno di noi con il più irresponsabile e temerario degli inviti, l’invito alla morte, alla fine della schiavitù dei desideri, invito alla libertà, all’amore, insomma un invito al delirio. Infatti, lo stesso Hölderlin, esperto in materia, mostra come l’approdo supremo dell’avventura di Antigone sia la più alta manifestazione dell’essere umano, il delirio. E qui vale la pena ricordare il vero significato della parola delirio, derivata dal latino "lira", nome dato al solco, al cammino retto, aperto dall’aratro nel suolo; delirare è quindi allontanarsi dal cammino, dal solco fatto dagli uomini, e percorrere il cammino di Dio. Non il cammino di un Dio morto, il dio dei filosofi e degli esegeti, ma del Dio vivo, quello di Leon Bloy e di Pascal, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio assoluto che tutto esige, che esige la vita del figlio del Patriarca, la vita di Antigone e la nostra stessa vita. Per questo San Paolo ci avverte della terribile cosa che è a cadere nelle mani del Dio vivo. È lui che ti toglie la vita, questa vita, ma in fine, cos’è questa vita, cos’è la vita? Sofocle ci risponde a questa domanda, materia di dubbio dalla notte dei tempi, come nella bocca di un altro tragico greco che indagava: "Chissà se la vita è la morte o la morte è la vita?". Sembra che niente sia più didattico che la risposta di questo viandante che supponiamo presente all’incontro di Antigone, del vecchio immigrato e del funzionario che lo interpella: Dante Alighieri. È lui che ci informa come vedremo innanzi sulla vita e la morte, e sulla vita nel regno della morte.

Si usa dire che l’uomo non ha nessuna informazione, nessuna testimonianza personale sui due lati della vita, sui due lati del mondo. Coloro che partirono per l’altro mondo non sono mai ritornati, non sono ancora ritornati. Colui che più tempo è rimasto dall’altro lato, ritornando dopo tre giorni, Lazzaro, non ci ha raccontato niente. Ma qui abbiamo un poeta che fu, e ritornò e ci raccontò tutto. Comincia col raccontare la vera ragione della sua arrischiata e patetica traversata agli inferi, alla città dei morti, la ricerca della libertà, e ancora il prezzo che l’uomo deve pagare per la libertà come vediamo nella risposta di Virgilio che Dante ascolta in ginocchio, e nella quale, ancor prima di identificarlo con il nome, il poeta-guida lo identifica con il suo destino. "Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta" (Purg. I, 71-72). L’altro mondo è così il paese dove si cerca la libertà, il paese della libertà, e che cos’è la libertà? Questo bene prezioso per il quale vale la pena immolare la propria vita, la libertà, è il superare e il liberarsi di tutti i desideri terreni. Lì per esempio vediamo Beatrice al fianco di Antigone e del vecchio immigrato; infatti iniziando la giornata nell’Inferno la vediamo apparire ed incoraggiare il poeta; è la sua guida nella temeraria avventura, e così si presenta: "Vegno del loco ove tornar disio" (Inf. II, 71). Disio è il suo primo sentimento, il suo stato di coscienza uscendo del Paradiso; è il desiderio la circostanza del mondo, di quelli che vivono al di qua della dimora dei morti. Il desiderio, ossia l’assenza di libertà, definisce e caratterizza questo mondo nostro. Al primo contatto con gli abitanti di questo mondo, la prima cosa che Beatrice sente è un desiderio, la prigione al desiderio, il desiderio di ritornare verso quella patria dove tutto i desideri già sono saziati, e quindi dove l’essere umano incontra la libertà e la respira. Dante lo sapeva, e lo confermò pienamente al termine del suo turismo escatologico; così anche lui fu condotto in Paradiso, e lì, nell’ultimo canto, tra i santi ed i beati, davanti a Beatrice ed alla lirica serenata di San Bernardo alla Vergine Madre, quando si prepara alle intuizioni finali sulla Trinità e sull’Incarnazione, come se gli venisse un orgasmo assoluto di sapienza e amore, con gli occhi persi nel chiarore della luce divina, lumen de lumine, esclama: "L’ardor del desiderio in me finii". Già alzando gli occhi verso il lumen de lumine il poeta si accorge della prossimità del fine di tutti i desideri: "E io ch’al fine di tutt’i desii appropinquava" (Par. XXXIII, 46-48). Così la legge suprema, la legge che revoca tutte le leggi degli uomini, la legge della morte, è il pegno della libertà. E la morte, la libertà e l’amore sono così la somma antropologica e per tanto la somma teologica di quei novissimi dell’uomo che abbiamo imparato nel catechismo cattolico all’epoca in cui si andava al catechismo: morte, giudizio, inferno e paradiso. Infatti tutte queste istanze, compreso il giudizio e l’inferno, si iscrivono nel territorio dell’amore, territorio allo stesso tempo dolce e crudele, ameno e infiammato, "fratelli e al tempo stesso nemici amore e morte", come cantava Leopardi, anche lui uno dei possibili presenti all’incontro con Antigone ed il vecchio immigrato.

La ricerca della libertà, nel poema di Dante, ha nell’amore l’inizio e la fine del suo cammino, con l’amore si apre e si chiude il pellegrinaggio dantesco. Nei primi passi dell’Inferno è con la parola amore che Beatrice giustifica la ragione del suo salvacondotto ai viaggiatori perduti: "Amor mi mosse, che mi fa parlare". Il viaggio, iniziato così sotto le leggi dell’amore, finisce con la gloria di Colui che è l’Amore stesso, il Signore dei pianeti, delle cose, dei luoghi e delle persone, di cui dice il poeta nell’ultimo verso, dopo l’ultima terzina dell’ultimo canto, che chiude con questa chiave l’ultima cantica della Divina Commedia, verso che tutti sappiamo a memoria: "L’amor che move il sole e l’altre stelle".

Ogni tanto, in diverse epoche, un vento di ribellione tenta di sovvertire quell’ordine saeculorum, celebrato da Sant’Agostino e secondo lui collocato nel cosmo, creatura superlativa e del Creatore, l’unica fatta a sua immagine e somiglianza. Antigone lo sapeva, ed eccola là nella maestosa bellezza del coro antigoniano: "molte cose sono mirabili, ma niente è più mirabile dell’uomo". Ogni qualvolta si tenta di spostare l’uomo dal suo posto nel cosmo, posto di centro e signore della creazione, le strutture della storia e dello spirito sono violentemente scosse. Tuttora l’inasprimento del movimento ecologico, creando una specie di morbillo ideologico, una ricaduta delle eresie di Pelagio, tenta di spostare l’uomo dalla sua posizione originaria, da che mondo è mondo, per mettere al suo posto, al centro dell’universo, come un’entità di ragione subitamente deificata, la natura e i suoi valori reali o presunti come equilibrio della fauna, della flora, delle acque, delle montagne.

Il nuovo naturalismo tenta di sostituire la nostra civiltà, la nostra cultura antropocentrica con una cultura dendrocentrica, zoocentrica, oceanocentrica, in cui alligatori, elefanti, rami della foresta e le rocce, sono più importanti dell’essere umano. Sembra che, affaticati e disillusi di imporre all’uomo le leggi effimere dell’istituzione sociale, vogliano adesso sottometterlo a quella che giudicano sia la legge della natura. Dimenticano che attraverso questa depravazione dello spirito si suppone che la natura sia più dotta e potente che l’uomo. Pretendendo costruire un mondo inumano, si sta costruendo anche un mondo innaturale. L’unico depositario del tesaurus delle leggi perenni, irrevocabili, eterne, che raggiungono il destino teleoclinico e teleologico dell’essere umano, è l’uomo stesso, e di conseguenza la famiglia; infatti la società famigliare, nella sua fattispecie di forma transitoria di sviluppo dell’umanità, contiene un certo elemento morale assoluto, la cui sacralità è inviolabile da parte dello stato. Lo stato è posteriore alla famiglia, è nato dopo di lei, le sue massime costitutive sono il risultato di un patto, soggette quindi a revisioni come tutti i patti, e sono poi, come tutti i patti, massime effimere. Le massime famigliari al contrario derivano dal sangue, e sono piantate nel cuore dell’uomo. Le loro leggi sono l’espressione della sua ragione di essere, valide attraverso i tempi, e incarnano in ogni uomo, in ognuno di noi, la radice dell’eternità. La famiglia è una specie di guardiano dei valori assoluti che sono l’eredità dell’uomo sulla faccia della terra. In questo modo, il conflitto tra Antigone e Creonte non arriva ad essere un confronto tra due forze morali, quella dell’individuo e quella dello stato, bensì un conflitto tra una forza morale ed una forza contraria alla morale.

Vladimir Solov’ev ci richiama all’attenzione sull’errore dell’interpretazione corrente secondo la quale Antigone rappresenterebbe il sentimento individuale in lotta contro le leggi sociali incarnata dal rappresentante della patria, Creonte. Il vero significato della tragedia di Sofocle è un altro, il giudizio di Antigone non può essere confuso con altri giudizi famosi della Grecia antica, come il giudizio di Socrate o di Anassagora. Gli atti del processo della figlia di Edipo sono chiari e limpidi: da un lato sta la legge dello stato che proibisce che sia sepolto il cadavere di Polinice, suo fratello, perché serva di scherno al popolo putrefacendosi al sole ed alle intemperie, divorato dai cani e dai corvi. Dall’altro lato c’è la sorella del morto, che conosce la sua propria legge, la legge dei suoi dei, del suo spirito, l’antica legge del suo cuore. Secondo questa legge la pietà verso i morti è un obbligo morale, che serve di fondamento a tutte le società. Il gesto pietoso di Antigone non si limita ai sentimenti individuali; anche senza il sentimento, se fosse stato il caso, le restava l’obbligo di sotterrare il suo morto. E questo obbligo è stato adempito da lei con ogni bravura e con ogni eleganza, e qui vale la pena ricordare l’avvertimento di San Bonaventura, secondo il quale una delle condizioni per entrare nel regno dei cieli è dirigersi verso di esso elegantemente. Nella tranquilla compostezza in cui affronta il tiranno e aspetta la propria morte sfidando la legge che proibisce di seppellire il fratello, ella compie serenamente i riti con la più perfetta socievolezza; infatti mette in pratica la legge della sua famiglia, la legge della sua società originale, e non manca alla sua eleganza una amabile cortesia quando spiega ad Ismene: "Ho più tempo per la dolce convivenza con i morti che con i vivi". Quando Creonte la interpella, domandandole come osò trasgredire le leggi costituite, lei invoca non i suoi sentimenti personali, ma i diritti assoluti dell’ordine originale ed eterno che le leggi civili non possono cambiare. Vale la pena ripetere alcuni passaggi del fulgente dialogo tra Creonte e Antigone. Creonte: "Come hai osato violare le leggi?" Antigone: "Non fu Zeus che le fece, né la giustizia seduta al fianco degli dei sotteranei, e io non voglio credere che i tuoi decreti possano prevalere sulle leggi non scritte e immutabili degli dei, considerando che tu non sei altro che un semplice mortale. Non è da oggi né da ieri che esse sono immutabili, sono eternamente potenti e nessuno sa quanto tempo fa sono nate". A questo punto né Creonte né nessuno dei mortali può continuare il dialogo con lei. Antigone, sapendo di essere nata per morire, prende in giro il re, che a sua volta la suppone pazza, per marciare volontariamente incontro alla morte. "Se ti sembra che io abbia agito in preda alla pazzia chissà se non è il caso di dire che sono accusata di pazzia da un insensato". Ed è ai morti che si rivolge dicendo: "Io non sono nata per l’odio reciproco, ma per il mutuo amore". Quando la sorella disperata, incapace di accompagnarla al passo supremo, piange la propria disgrazia, risponde: "Desiderasti vivere, io ho desiderato morire". E ancora ad Ismene, che ricorda i prudenti consigli che le ha dato, risponde, già ai limiti dell’ultimo passo: "Tu parli con prudenza a quelli che ti ascoltano, io invece userò la mia prudenza con i morti". E può sentire, prima di morire, gli inni del coro che la salutano, dicendole che lei muore come solo gli dei sanno morire. Può vantarsi di burlare le leggi degli uomini; non è dunque per queste leggi che abbraccia la morte; abbraccia e accarezza la morte, salutandone il sepolcro, in nome della sua propria legge, la legge divina.

Sembra che nel nostro mondo, tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli, saremo chiamati alla stessa sfida di Antigone, che non è una sfida sociologica tra lo stato e l’individuo, o tra lo stato e la famiglia, ma un conflitto tra la buona e la cattiva legge, quindi un conflitto tra il bene e il male. Vale così come avvertenza la breve introduzione del drammatico Aristofane, generalmente riprodotta prima del testo di Sofocle: "Antigone che seppellì Polinice nonostante le regole della città".

Chiediamo di nuovo a Dante, la chiave della erlebnis di Antigone. "A maggior forza e a miglior natura, liberi soggiacete", dice il poeta nel canto sedicesimo del Purgatorio, quando incontra gli iracondi. "A maggior forza e a miglior natura", cioè a Dio, la più grande delle forze che ogni essere umano conserva in sé. Questo bene, questa forza maggiore è l’anima libera e ragionevole di cui parla Sant’Agostino, superiore a qualsiasi natura materiale. In nome di questa maggior forza e miglior natura, l’uomo è un essere condannato alla libertà; siamo tutti condannati alla libertà, come Antigone, e questa libertà consiste nell’insorgere contro le potenze inferiori, e nella fedeltà alle potenze più eccelse di cui parla ancora e sempre Dante. Nel Medioevo, l’età ammirevole in cui l’uomo aveva la coscienza escatologica, teleologica e teleoclinica del suo destino, l’uomo, come osserva Heidegger, era cosciente di essere una creatura situata tra la vita e la morte, un essere angosciato e colpevole che la morte mobilita per rinnovare la capacità del suo stesso essere. Per questo, l’uomo è sempre chiamato a toccare l’insuccesso del suo proprio limite, che riesce a oltrepassare solo quando si supera nella trascendenza. Superare il limite è l’invito, la sfida e il pericolo dell’uomo in questo mondo, il pericolo di Antigone a cui siamo tutti esposti.

Viviamo tempi temerari. Nel mondo moderno non siamo minacciati o attaccati da un’unica legge, da un solitario Creonte, siamo in verità assediati dalla forza truculenta e scaltra di un demonio: il suo nome è Legione. La sua cospirazione intende decretare la fine del mondo in cui viviamo, con il crollo di tutte le strutture morali e spirituali di nostra credenza. Tutti i fondamenti della nostra fede in un destino superiore dell’uomo, della nostra cultura rivolta alla libertà e all’eternità, stanno correndo pericolo. "Nel secolo decimonono e nei primi decenni di questo secolo, gli uomini di fede avevano l’abitudine di predicare contro gli errori moderni – ricorda il filosofo Julian Marias – adesso si uniscono agli errori moderni quelli antichi, in un assedio gigantesco alla fortezza dello spirito". La Chiesa ha cercato di allinearsi a questo assedio del mondo moderno, proponendo il famoso aggiornamento del Concilio; ed è ancora il filosofo spagnolo che avverte: "Aggiornamento sì, ma in che giorno?". I giorni passano molto in fretta, ed è necessario fare attenzione al calendario. Molti sacerdoti sostituiscono gli errori moderni agli antichi; il Sermo de Deo fu violentato e stuprato per essere un sermo dell’amore, un sermo del bello, un sermo di rivoluzione, ossia un discorso del trabaco, un discorso della guerra, un discorso della lotta di classe che corrisponde alla teologia del lavoro, che corrisponde ai diversi giochi di prestigio della cosiddetta "Teologia della liberazione". Con tutte queste imposture, l’uomo moderno sta arrivando alla mediocre condanna di quel vestibolo dell’inferno, che è il cerchio del limbo. I giovani non perdono più la fede; già non hanno crisi di fede, arrivano al limbo senza crisi alcuna, senza angustia, senza tormenti, senza problemi; manca loro la fede perché manca loro la speranza, la speranza nell’immortalità, nella salvezza, nella superiorità del loro stesso destino, e la perdita delle speranze, che era per Peguy la più confortante delle virtù teologali; la perdita delle speranze è il peggior castigo, il peggior degrado riservato agli esseri umani.

Davanti a questa minaccia della fine dei tempi con la fine della fede, della speranza e dell’amore, sembra che siamo tutti colpevoli, colpevoli perché taciamo, a cominciare dai sacerdoti che salgono sui pulpiti, non per parlare religiosamente di religione, cioè dei nostri vincoli col Sacro, ma per rivestire panni che non sono i loro, perché la loro missione non è parlare di politica né di scienza né di filosofia, tanto meno di morale non religiosa. Smettiamo di secolarizzare la religione! Vogliamo ascoltare ciò che riguarda Gesù Cristo; come S. Paolo, che solo sapeva e solo insegnava il Cristo. Dacci il Cristo, e tutto il resto ci sarà dato in soprappiù: la pace, la giustizia sociale, la libertà, come in quel commovente apologo di Solov’ev, in cui l’imperatore depreda la Chiesa, strappa tutto, confisca tutte le immagini, i libri sacri, i paramenti, e grida col dito teso verso il sacerdote e i fedeli: "Adesso non avete più niente". Alzandosi davanti a lui, il piccolo sacerdote gli risponde fieramente: "T’inganni, ancora abbiamo tutto, abbiamo Gesù!". Tra tutti i pericoli che ci circondano, il maggior pericolo è quello che ci ritirino la presenza di Dio, la presenza di Gesù. Ricordiamo qui l’amore, la speranza e la fede con cui l’uomo creò tante divinità nel corso della storia e dei miti che ha generato ed arriva all’inizio e alla fine dei tempi per avvedersi che Cristo Gesù è l’ultimo degli dei, e che dopo di Lui sarà impossibile pensare ad un’altra Epifania. Con la presenza di Cristo, l’uomo ricevette il patrimonio della sua capacità più autentica: "Rimanete irremovibili – dice S. Paolo – nella libertà con cui Cristo ci ha fatto liberi, e non ritornate ad essere prigionieri sotto il giogo della schiavitù".

In questi giorni indigenti la barbara mano di Creonte sembra abbassarsi di nuovo sulle nostre teste come si abbassò sulla testa di Antigone. A volte abbiamo l’impressione che la notte inesorabile scenda su di noi, l’impressione di sentirci impotenti e di non essere nemmeno capaci di trasmettere ai nostri figli l’eredità dei valori che ci sostennero. La nostra città sta per morire, o per lo meno è invecchiata moltissimo; questo dopo essere arrivata al più alto grado del suo sviluppo economico, militare e tecnologico. Gli empi cacceranno gli indulgenti dalla città degli uomini, tutto sembra sull’orlo dell’abisso con la legge di Creonte che prevale sulla legge di Antigone, la legge del bastardo che prevale sulla legge di mio padre e del padre del vecchio immigrato, la legge del Minotauro sulla legge di Gesù Cristo, la legge delle caverne sulla legge delle città, la legge dei demoni sulla legge degli dei, i costumi della disperazione sui costumi della speranza. Stiamo vivendo tempi di spenta e vile tristezza, come nel verso di Camoe~s, poesta della mia lingua portoghese: "Tempi popolati di gente sorda e indurita", tempi di agonia, della nostra stessa agonia e dell’agonia del Cristianesimo.

Ci resta il conforto di sapere che la sapienza del cristianesimo è una sapienza agonizzante; agonizziamo da duemila anni con l’Agnello. Per questo, quando sembra che perdiamo il nostro stesso alito di vita, noi, quelli che hanno fede, quelli che hanno amore a questa vita e all’altra vita, possiamo volgerci trionfanti verso la più dolce e consolatrice delle presenze, quella della speranza, la fidanzata di tutte le lotte, la più umana delle virtù teologali, come ci ricordava Peguy. Lei ci fa cenno con un altro alito di vita, l’alito dello Spirito Santo capace di rinnovare la faccia del pianeta.

Eugenio Corti, scrittore, è nato in Brianza. Dalla partecipazione alla guerra sul fronte russo è nato il suo primo libro, I più non ritornano. La sua opera più significativa è Il cavallo rosso, un grande affresco del nostro tempo.

Corti: Credo che l’argomento di fondo di questo nostro discorso sia l’identità del cattolico oggi. Non solo il cristiano si trova in crisi di identità, ma anche il prete cristiano può trovarsi in crisi. Un dato concreto. Non molti anni fa, uno dei più grandi ordini religiosi, quello dei Gesuiti, ha perso nel giro di pochi anni diecimila padri su ventiseimila. Cos’è successo?

Io ho vissuto la parte centrale di questo secolo in qualche modo come protagonista; semplicemente perché ero un uomo di questo secolo, sono stato trascinato come tutti gli altri esseri umani nelle vicende di esso. Credo che quelli che, della nostra generazione, hanno vissuto le vicende centrali del ventesimo secolo, abbiamo constatato la giustezza della visione di S. Agostino il quale, un millennio e mezzo fa, asseriva che la storia degli uomini consiste in un sovrapporsi continuo della città terrena sulla città celeste e della città celeste sulla città terrena. Intendeva per città la società degli uomini, intendeva per città celeste coloro che, nel costruire la società, tengono conto degli apporti della Rivelazione, cioè fanno spazio a Dio, prendono da Lui gli elementi basilari per questa costruzione. La città terrena, invece, è costituita da quanti intendono costruire la società dell’uomo senza fare spazio a Dio, senza tener conto della Rivelazione, utilizzando semplicemente i mezzi che l’uomo in quanto tale ha a disposizione (anche quelli nell’ordine naturale sono notevoli!). Dice Agostino che la città terrena inevitabilmente finisce per assumere le caratteristiche della città del principe di questo mondo, cioè del demonio. Nel costruire questa città, anche se sovente quelli che contano e incidono di più sono in buona fede, finiscono con l’essere come il demonio, omicidi, menzogneri e "scimmie di Dio" (gli attributi principali del demonio).

Noi abbiamo visto nel nostro secolo proprio questo. Io mi ci son trovato proiettato dentro nella costruzione della storia, a vent’anni, quando sono partito per il fronte russo come sottotenente, in complemento ad un reggimento che era già là. Ho incontrato il nazismo; poi il comunismo. Erano tentativi di costruire la città terrena. Non posso, e sarebbe importante, procedere nell’esame di questa costruzione; parlo solo delle loro vittime. I nazisti erano indubbiamente più "luciferini" dei comunisti, ma hanno avuto meno tempo, sono stati sulla scena della storia soltanto per dodici anni, e hanno ammazzato alcune decine di milioni di persone oltre quelle che sono morte per la guerra, nel tentativo di costruire l’uomo nuovo che non avrebbe avuto più le tare dell’uomo antico. Nell’ambito russo, secondo alcune statistiche, i morti nel tentativo di costruire la società degli uomini nuovi sono stati sessantasei milioni. Tranne che nella prima fase, quando durante la guerra civile i loro avversari, i bianchi, si difendevano con le armi e sono morti alcuni milioni di persone, il novanta per cento e più era costituito da vittime inermi. In Cina le vittime sono state centocinquanta milioni, secondo i risultati degli esami di oggi. Anche in Cambogia (parlo della Cambogia, anche perché dal ‘75 al ‘78, quando c’è stato l’esperimento cambogiano, voi c’eravate già sulla faccia della terra), un terzo della popolazione è stata sacrificata nel tentativo di costruire la società nuova.

La costruzione della città terrena, di cui Agostino diceva, l’abbiamo avuta sotto gli occhi, nel nostro tempo, in una maniera così clamorosa e così pronunciata come in pochi altri secoli. Quando tornavo coi pochi scampati del mio reggimento sulla tradotta dal fronte russo, e si parlava delle cose spaventose e terrificanti attraverso cui eravamo passati, quello che io non mi sarei mai aspettato era di vedere anche la costruzione della città celeste. E su questa città celeste, io richiamo in particolare l’attenzione di voi giovani, perché voi l’avete davanti; se è vero come è vero, perché l’abbiamo visto, e con tutto il cuore io devo dare ragione all’antico filosofo che la storia lo sta dimostrando, se è vero che alla città terrena, che adesso è di nuovo in costruzione (secondo la descrizione che ne ha dato De Mello), succederà la città celeste, voi vi troverete in mezzo a questa costruzione, e, spero di non sbagliare, voi sarete tra i costruttori della città celeste.

Dopo la guerra la gente qui in Europa è rimasta talmente terrorizzata dai tentativi di costruzione nazista e comunista che ha affidato di nuovo, dopo secoli, la direzione dei Paesi a uomini politici di ispirazione cristiana. In Italia la Democrazia Cristiana, per un breve tempo, in una Camera ha avuto la maggioranza assoluta e ha determinato per cinque anni la vita della nazione; la Democrazia Cristiana di allora ha svolto un lavoro meraviglioso. Quello che è successo qui, è accaduto anche in Francia, in Belgio, in Olanda, perfino nella scristianizzata Germania, in Austria; insomma, la popolazione d’Europa ha dato l’avvio ad una costruzione, ad una esperienza nuova, ha riaffidato ai cristiani la costruzione della città e della società. In quei cinque anni in Italia, dal ‘48, dopo le famose elezioni del 18 aprile, al ‘53 c’è stato un rovesciamento della situazione, che era di corruzione, di sfacelo spirituale; non solo la guerra aveva innalzato gli egoismi a un livello spaventoso, terrificante, aveva portato le viltà ad un livello terribile, ma anche certi fenomeni minori che investivano la popolazione civile come il mercato nero, per esempio, avevano corrotto l’animo della gente.

Io ho visto per cinque anni la costruzione della città celeste che poi si è interrotta. Perché? Il mondo cristiano era in grandissima avanzata, si aveva la sensazione che, una volta pulito via il marcio, le nostre concezioni entrassero nella civiltà dell’Occidente, nelle costituzioni, nelle leggi degli stati, ecc. È venuto il Concilio Vaticano II e si prevedeva che ci sarebbe stata una nuova Pentecoste, delle conversioni di massa. Già allora ogni anno c’erano centinaia di migliaia di conversioni (per esempio in America, secondo le statistiche, c’erano due-trecentomila conversioni dei protestanti al cattolicesimo ogni anno), invece è ricominciata ad avanzare la città terrena. Qual è stato il meccanismo che ha portato a questa realtà? Io naturalmente posso sbagliarmi, ma mi è parso di vedere con chiarezza quello che è successo.

Tra le due guerre e nell’immediato dopoguerra, la nazione di punta della cultura cattolica era quella francese e francese era il filosofo Jacques Maritain, il quale, al di là dei suoi meriti grandissimi, ha scritto un libro in cui prevedeva la cristianità nuova, così lui la chiamava, che si stava avvicinando. Questo grande filosofo, in gioventù rivoluzionario ateo, poi convertito fino al punto di scrivere delle opere di giusto indirizzo come Antimoderno, si è poi focalizzato su ciò che ha causato la rovina del nostro mondo, sul fatto che anche le ideologie contrarie al cristianesimo come il marxismo, l’illuminismo francese (nel nostro ambiente italiano diremmo l’illuminismo radicale) contenevano molte componenti cristiane, verità cristiane impazzite. Di ciò occorreva tenere conto nel progetto di nuova cristianità. In un suo libro famosissimo, Umanesimo integrale, prevedeva che nella nuova cristianità sarebbe stato fatto posto ai comunisti, agli illuministi e agli enciclopedisti di origine francese, diciamo ai laicisti di oggi. Purtroppo queste idee hanno fatto presa, soprattutto sulla giovane cultura cattolica, e io stesso non ne sono stato esente, io che venivo dal fronte russo, che avevo visto cos’era il mondo dei nazisti e dei comunisti, di cui qui in Italia non c’era assolutamente esperienza. Davanti ad un progetto così pacificante (il cristiano, è chiaro, deve aprire le braccia a tutti) mi ero lasciato convincere, e allo stesso modo mio, tutta la giovane cultura cattolica degli anni del dopoguerra. Ad un certo punto che cosa mi ha svegliato? Negli anni del Concilio tutti parlavano bene dei cristiani, anche coloro che in passato avevano sputato livore sul Papa Pio XII che era veramente il difensore della città e del mondo cristiano. Allora mi sono venute in mente le parole del Maestro nel Discorso della montagna, la conclusione, che è uno dei nodi principali di tutto il Vangelo: "Guai a voi quando tutti diranno bene di voi". In pratica i laicisti hanno subito sposate le idee di Maritain, come avevano sposato quelle di Teilhard De Chardin, perché vedevano l’avanzata dei cristiani. Si verificava una possibilità di stasi; chi è in ritirata e ha la possibilità di fermarsi, lo fa ben volentieri per cercare di riorganizzarsi; non solo, però, i laicisti, vedevano volentieri le idee di Maritain, ma esse hanno fatto breccia nel mondo cristiano, scatenando un fenomeno veramente travolgente. Qualcuno ha tentato di fare opposizione. Erano gli ultimi anni di Pio XII, e lui ha tentato di opporsi.

Un articolo molto importante del padre Mecineo su Civiltà cattolica, avvertiva che l’umanesimo integrale di Maritain, che dava il titolo al libro, non era un umanesimo cristiano, era un naturalismo integrale, cioè si sposavano le idee degli avversari del nome cristiano. Ma ormai le cose si erano sviluppate. Prima ho accennato alla crisi dei Gesuiti; i Domenicani si sono dimezzati. Io allora facevo parte dell’Azione Cattolica, assolutamente diversa dall’Azione Cattolica di adesso. Gli iscritti da tre milioni e mezzo a cui eravamo arrivati sono scesi a seicentomila. Guardate che razza di tracollo! Anche i seminaristi sono diminuiti in forte numero. Fino a quando è iniziato il recupero col Papa polacco (veramente un grandissimo dono di Dio alla Chiesa) e poi con realtà nuove come il vostro Movimento che è nato proprio con l’idea di non seguire l’andazzo dei tempi, ma di mettersi di nuovo a costruire la città, analogamente ai Gesuiti, nati nel ‘500 per fare fronte al pericolo grandissimo che minacciava di travolgere tutta la cristianità. E come voi ce ne sono alcuni altri.

Io credo che CL sia nata proprio per ispirazione di Dio, come intervento della Provvidenza nella storia, così come era successo, per esempio, per i Gesuiti a suo tempo. Contro il pericolo di oggi, ecco l’importanza che voi conduciate avanti la vostra battaglia, ma senza errori. Dunque il punto essenziale è questo: che ci si trova di fronte alla possibilità del nuovo recupero. Vorrei sollecitarvi a tenere presente questo: come quando io sono tornato sulla tradotta – parlavamo veramente tra di noi del demonio scatenato che avevamo visto e gli eravamo passati tra gli artigli appena, quattro gatti che eravamo rimasti superstiti – dicevo: "Io ho visto la costruzione della città terrena, non vedrò mai la costruzione della città celeste", invece l’ho vista di lì a pochi anni, così voi adesso avete questa stessa sensazione, molto ben illustrata da De Mello prima, che questi siano in grande avanzata (e oggi non c’è più il nazismo né il comunismo né il materialismo dialettico né il materialismo storico che minaccia la nostra civiltà, ma c’è l’altro materialismo, quello democratico, in soldoni lo chiamiamo il consumismo). Ma con gli uomini opera Dio che continuamente si intromette nella loro storia. Adesso ne avete davanti un episodio colossale, proprio quello che sta succedendo in Russia. Chi avrebbe previsto qualcosa di quel genere? Lì si verifica un intervento della Provvidenza nella storia degli uomini e noi lo abbiamo sotto gli occhi. Così ci sarà qualche altro intervento di questo genere e si farà avanti la città celeste.

Nel mio libro Il cavallo rosso ho posto come simbolo della speranza dei cattolici due giovani aderenti a CL. Si dice nel libro: "Sentitevi investiti di questa funzione, considerate che c’è la possibilità del recupero e lavorate per questo".