I Verdi: quale futuro?

Giovedì 29, ore 11

Incontro con:

Marco Boato

Fiorello Cortiana

Marco Parini

Pier Mario Biava

Alberto Frazzei

Robi Ronza

Moderatore:

Giancarlo Cesana

 

Cesana: Questo incontro nasce da una conversazione avvenuta a Milano tra noi del Movimento Popolare e gli esponenti del Gruppo Verde milanese. La cosa ci è sembrata molto interessante, perché sentiamo questo impegno per l’ambiente e per l’ecologia come un fattore di rispetto per una realtà più grande di quello che noi siamo e, quindi, come una specie di fattore di educazione dell’esperienza umana. Noi viviamo dentro qualcosa che non abbiamo fatto noi e che ci garantisce le condizioni di vita. Ci sembra che il riconoscere questo sia in un certo qual modo riconoscere che l’uomo sta di fronte ad una autorità, cioè ad un qualcosa che è inevitabilmente più grande di lui. Siccome in questo incontro abbiamo visto che, da parte di questi esponenti del gruppo verde, c’è la volontà di un dialogo e l’interesse ad un cammino comune ed a una ipotesi più vera di sviluppo umano gli abbiamo chiesto di partecipare al Meeting e di presentare quello che sono, le prospettive che hanno, i programmi. Che cos’è questo arcipelago verde?

Marco Boato, senatore.

Boato: Io credo che per parlare oggi, dell’esperienza verde, sia in Italia che sul piano internazionale, occorra tenere conto del processo di cambiamento culturale che si è verificato, grosso modo, negli ultimi venti anni in tutto il mondo ed in particolare in Europa, un processo che ha messo in discussione le ideologie politiche e gli approcci scientifici tradizionali e che ha cominciato ad affermare una nuova consapevolezza ecologica, il rapporto fra uomo-natura e fra uomo-ambiente, l’esistenza di un unico ecosistema e la complessità di questo ecosistema, come dei parametri di riferimento scientifico, culturale e per certi aspetti anche di carattere etico fondamentali.

Voglio darvi dei punti di riferimento significativi sul piano internazionale. Nel ‘69 viene fondato il Club di Roma. Nel ‘72 c’è il primo rapporto sui limiti dello sviluppo, che mette in discussione l’ideologia di un progresso indeterminato, di uno sviluppo privo di limiti, di una possibilità di un uso delle risorse e delle energie inesauribile. L’impatto è notevole sulla comunità scientifica, limitato, invece, sul piano politico e sociale. Con la guerra del Kippur (1973) e la crisi energetica, tutto il mondo sviluppato deve cominciare a fare i conti con la questione energetica e con la questione dei limiti delle risorse. Nel ‘72 abbiamo anche la prima conferenza mondiale promossa dall’ONU sull’ecologia, la Conferenza di Stoccolma. L’anno prossimo, nel 1992, avremo a Rio de Janeiro, in Brasile, nel ventennale della Conferenza di Stoccolma, la Conferenza mondiale promossa dall’ONU su ambiente e sviluppo.

Il decennio degli anni ‘70, per quanto riguarda il nostro Paese, vede crescere con grande difficoltà e con dimensione ancora molto minoritaria, la consapevolezza ecologica, la nuova dimensione dell’impegno ambientale soprattutto sul piano sociale e culturale. È il periodo dei movimenti protezionisti, anti-nucleari, della nascita delle grandi associazioni che poi esplodono anche come dimensione di partecipazione fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, anche se molte di queste sono precedenti: vecchie associazioni che si rilanciano come Italia Nostra o associazioni di carattere internazionale che assumono una forte dimensione in Italia come il WWF, gli Amici della Terra o nuove associazioni ambientaliste più caratterizzate politicamente; l’esempio più conosciuto è la Lega Ambiente.

Il decennio degli anni ‘80 rappresenta il passaggio da una dimensione sociale e culturale ad una politico-istituzionale. È questo un impatto che si manifesta in modo molto differenziato; per questo parliamo di "arcipelago verde", sia perché si tratta di isolette che si collegano in qualche modo tra di loro, sia perché si tratta di una realtà molto differenziata sul territorio, una realtà che non parte da decisioni di carattere centrale. Se gli anni ‘70 sono stati dunque gli anni della dimensione culturale e sociale, dell’ambientalismo, della nuova coscienza ecologica, gli anni ‘80 sono gli anni del rapporto tra il problema ambientale e il sistema politico-istituzionale, a partire dalla dimensione locale fino ad arrivare, ad una dimensione nazionale, il Parlamento Italiano, ed europea, il Parlamento Europeo.

La cosiddetta "Questione Verde", rappresenta dunque l’intreccio di due dimensioni: da una parte la questione ecologica intesa non puramente come fatto protezionistico e ambientale, ma scientifico e culturale, come rapporto fra uomo-ambiente e uomo-natura, dall’altra, particolarmente nel nostro Paese, la crisi del sistema politico e la necessità di una partecipazione alla politica anche attraverso canali alternativi rispetto a quelli del sistema politico tradizionale. Io credo che questi siano i due problemi a cui la Questione Verde ha cominciato a dare risposte, nel corso degli anni ‘80.

Un’ultima osservazione: quando si parla di Verdi, bisogna distinguere fra la presenza dei Verdi all’interno delle istituzioni e la presenza dei Verdi sul terreno sociale e culturale; le due cose si intersecano ma non coincidono meccanicamente. Né la rappresentanza istituzionale dei Verdi esaurisce al suo interno la complessità della presenza ecologica e ambientale sul piano sociale e culturale, né il problema dell’impatto di una svolta ecologica sul piano anche politico-istituzionale può essere semplicemente assorbito ed esaurito con il puro impegno da parte delle varie associazioni ambientali già citate. In questo senso c’è un’intersezione, una interdipendenza, ma anche un’autonomia reciproca ed un inesaurimento reciproco. Alla fine degli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘90, si è verificata una seconda svolta profonda; negli anni ‘90 si pone infatti un problema drammatico e radicale ma anche entusiasmante: i Verdi hanno oggi una funzione analoga di pura e semplice prosecuzione dell’impegno precedente o, piuttosto, debbono porsi interrogativi molto profondi su quello che sarà il loro futuro in un contesto che è completamente cambiato? Non sono più solo i Verdi i portatori della questione ecologica; grazie ad essi questa ha attraversato anche gli altri ambiti sociali, politici e culturali. Oggi, a mio parere più che una questione di affermazione e di denuncia, di impegno e di testimonianza sulla risoluzione dei problemi ecologici nel senso ampio della parola, si pone un problema di cultura di governo e di pratica di governo nel saper risolvere le questioni ambientali in stretto rapporto con le questioni sociali, economiche e politico-istituzionali. Questa a me pare la grande sfida che oggi si pone di fronte ai Verdi, anche nel quadro interno della crisi del sistema politico e del problema del sistema politico italiano; e nel quadro internazionale del crollo dei sistemi delle ideologie totalitarie. In questo senso, credo che un movimento o un insieme di movimenti che fanno riferimento non ad ideologie totalizzanti e sistemi precostituiti, ma a valori etici, a strumenti culturali e ad un impegno concreto di realizzazione dei problemi nella società civile, sia in qualche modo l’anticipazione dell’era post-ideologica, di una fase storica, cioè, in cui non si ragiona più in termini tradizionali di destra o di sinistra, di sistemi politico-ideologici totalizzanti e contrapposti, ma in cui si ragiona a partire dai problemi dell’uomo e dei rapporti fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e l’ambiente.

Cesana: Vorrei chiedere a Fiorello Cortiana, consigliere della regione Lombardia, che cosa vuol dire per loro Movimento. Da questo punto di vista, infatti, esiste un’analogia con la nostra esperienza: noi stessi ci riteniamo Movimento.

Cortiana: Credo che noi impieghiamo questo termine proprio in modo analogico al vostro. Noi normalmente siamo abituati a ragionare pensando che i movimenti siano qualcosa che si esprime, che emerge sulla scena sociale, e che in qualche modo restino stabili, con rappresentanti, linguaggi, simboli ed esponenti propri. In tutto questo c’è un rischio grave: la presunzione di rappresentare altro da sé. È un grande rischio che gli ecologisti e i Verdi hanno corso. Bisogna stare attenti a non avere la presunzione di rappresentare quella sensibilità profonda di cui parlava il Boato prima, quella consapevolezza che è diventata poi coscienza diffusa anche nel nostro Paese e nelle società avanzate. Spesso infatti si verificano cambiamenti che riguardano i costumi e i consumi individuali; sono scelte di responsabiltà che producono grandissimi cambiamenti sociali. Quindi bisogna stare attenti a non utilizzare il termine movimento pensando di essere le vestali di qualcosa che è emerso magari in modo travolgente ed emozionante, restandone i testimoni storici. Per noi Movimento è un’esperienza di ricerca, è un processo all’interno del quale ci sono percorsi molto differenziati tra loro. Non crediamo, ad esempio, che la questione del cambiamento di un modello di sviluppo che richiede scelte di valore, possa risolversi e trovare la risposta definitiva appena sul piano istituzionale, un piano che, pure, in modo magari ambizioso abbiamo provato a calcare da qualche anno. Crediamo, infatti che occorra intervenire anche ad altri livelli, ad esempio dei consumi, come dicevo prima. Occorrono quindi percorsi differenziati, linguaggi diversi: in questo senso noi possiamo parlare di movimento e di affinità con un’esperienza come la vostra, perché è un movimento che cerca di fondarsi su processi istituzionali e sociali, di creare e di vivere positivamente le inerzie che si vengono a creare in tali processi.

Voglio portare soltanto due piccoli esempi: uno riguarda la legge sui parchi. Crediamo di avere il merito di aver saputo, attraverso la presenza istituzionale e l’intervento nelle commissioni istituzionali del Parlamento, portare a termine un lavoro iniziato da vari naturalisti e ambientalisti nei decenni scorsi. È un segno abbastanza positivo di quello che intendevo come processo d’inerzia istituzionale; tutto questo produrrà probabilmente modificazioni, necessita di nuove professionalità, di nuovi investimenti.

Su un piano prettamente sociale, però, all’apparente sconfitta del referendum sui pesticidi, cioè sulla produzione, distribuzione e trattamento degli alimenti, corrisponde un processo che si lega alle esperienze della produzione biologica, di un consumo consapevole e quindi di una critica anche al consumismo ed alle logiche che stanno dietro. Io credo che sia la nostra che la vostra vicenda si fondino su esperienze definibili come movimento, in quanto non partono dal presupposto di avere già una verità in tasca sul piano politico-culturale. Siamo realtà che si fondano su esperienze concrete, sia nell’aspetto teorico sia pratico, e che le avviano in modo processuale. In questo senso il termine movimento mi piace e mi interessa, anche in alternativa all’idea della forma partito, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, forma di grande riduzione della ricchezza di esperienze a poteri centrali, fino alle degenerazioni del centralismo democratico. Credo che siamo ancora dei cercatori: noi non ci sentiamo una risposta alle questioni, che prima richiamava Marco Boato, della crisi di forma e di contenuti della partecipazione politica nel nostro Paese. Siamo persone che cercano e che, attraverso approssimazioni successive, contribuiscono a ridefinire famiglie di valori, famiglie culturali, ma anche esperienze pratiche.

Cesana: Questa realtà di ricerca, quindi di movimento, come va d’accordo con la realtà istituzionale? Dovrebbe infatti avere, inevitabilmente, una componente di critica istituzionale; d’altra parte, però, i Verdi, come sappiamo, sono presenti in molte realtà istituzionali, governi cittadini, regionali ecc. Vorrei chiedere a Marco Parini, assessore alla cultura di Milano, come giudica questa esperienza.

Parini: Come ricordava prima Boato, sin dagli anni ‘50, le associazioni ambientaliste hanno fatto, della denuncia e della conseguente proposta, una linea politica. Ma negli anni successivi con la nascita del Movimento Verde, del Movimento internazionale, la proposta l’intervento l’impegno si spostano anche sul piano istituzionale, sulla rappresentatività politica all’interno del Palazzo.

Una prima considerazione che si è fatta, per esempio, nelle scelte amministrative, quando si è trattato di prendere responsabilità di governo dopo le ultime elezioni, è stata quella di non schiacciare il Movimento Verde su dei monotematismi, facile meccanismo per cui l’assessore verde va all’ecologia. Sarebbe un errore fondamentale; certamente l’ecologia, come competenza tecnico-amministrativa, è un punto qualificante di un programma che, però, è più generale. Se la rivalutazione dell’ambiente (e l’ambiente comprende le cose, le persone, il livello sociale, la qualità della vita, gli aspetti culturali), costituisce un elemento, tutti gli altri sono egualmente parti di questo. Forse che non influiscono sull’ambiente l’assistenza agli anziani, che vivono in una situazione spesso degradante, soprattutto in una grande città, o l’urbanistica o i problemi dei trasporti, o dei limiti delle competenze industriali, di quello che le industrie possono recare o non recare? Allora un primo messaggio, dopo la scelta di partecipazione, è anche la scelta di allargamento della tematica ambientale a tutte le rispettive competenze. Certo, è un incarico a volte ricoperto in modo scomodo, perché in modo scomodo ci si pone contro le logiche di schieramento. Si è infatti all’interno di una compagine, che può essere una giunta di sinistra o di centro, dove la tematica ambientale, esulando dagli schematismi partitici tradizionali, essendo generale e trasversale, porta sicuramente a situazioni difficili, conflittuali e scomode.

Ciò porta ad una valutazione: una partecipazione all’attività di governo è una partecipazione trasversale per quanto riguarda il nostro Movimento, proprio perché non si pone su logiche preconcette, bensì su una logica che vede in un’etica complessiva, volta ad un fine, il nostro impegno. Da qui per esempio la necessità di recuperare il dialogo con il mondo cattolico e cristiano; soprattutto con quei movimenti che fanno dell’etica e dell’impegno un discorso primario, il valore assoluto rispetto a logiche di schieramento. Proprio su questa linea complessiva, di un’etica d’impegno, si possono trovare energie e momenti di collegamento al di là di monotematismi, come quello puramente ecologista, che ormai permea i programmi di quasi tutti i partiti. Peccato che esso emerga non in un discorso complessivo, ma come corollario aggiunto per necessità elettorali dei vari partiti in ogni consultazione.

Cesana: Mi rivolgo a Pier Mario Biava, medico del lavoro e presidente dei servizi comunali per la nettezza urbana a Milano. C’è un modo di pensare al Movimento Verde come ad una specie di fattore ideologico sostitutivo del marxismo quando cominciava ad apparire di esso la crisi. Una famosa battuta diceva: "Son verdi fuori ma rossi dentro". Dopo lo schianto che si è osservato in questi giorni, come si avverte il problema ideologico di una strategia, di una valutazione della realtà?

Biava: Io vorrei anzitutto dire che, dopo gli ultimi avvenimenti di Mosca, non è crollato solo il comunismo, ma un’idea di fondo che ha pervaso di sé la cultura, la politica, la vita stessa degli uomini degli ultimi due secoli: l’idea, cioè, che la violenza possa dirigere la storia, che possano esistere avanguardie in grado di interpretare i bisogni, i desideri, le speranze degli uomini e di condurli verso la salvezza. Questa idea, prima giacobina e poi leninista, è crollata qualche giorno fa a Mosca e, io credo, non solo a Mosca, ma anche in tutti i Paesi dove esistono simili avanguardie. È caduto il comunismo, ma certamente non sono crollate le speranze degli uomini, anzi credo che mai come in questo momento vi sia una diffusa speranza in un mondo migliore. Dobbiamo però subito precisare che nei Paesi dell’Est, ma anche in quelli occidentali, esiste adesso una crisi che mette in dubbio questo modello di sviluppo. Pensate ad alcune questioni che caratterizzano, per esempio, i Paesi capitalisti: trentamila omicidi all’anno negli Stati Uniti in questo ultimo anno, un esercito di tossicodipendenti, di emarginati esclusi dal benessere economico, una grande criminalità che diventa sempre più forte e prepotente e cerca di impadronirsi dei gangli vitali dell’economia legale, cercando di autolegittimarsi; una microcriminalità diffusa che invade tutte le metropoli e non solo quelle dei paesi industrializzati, un inurbamento sempre più caotico che rende le metropoli delle megalopoli, ma rischia di farle diventare necropoli; l’inquinamento ambientale, con l’effetto-serra e i buchi dell’ozono. Queste sono le dimensioni della crisi che stiamo vivendo e che può rappresentare una crisi di sistema. Ma che cosa c’è al fondo di essa? C’è una crisi essenzialmente di valori, una crisi in cui è stato perso di vista il bene comune e che impedisce l’ordinato vivere civile.

Io credo che, se questo è deleterio per tutti, lo è soprattutto per i giovani, i quali, per crescere, hanno bisogno di punti di riferimento precisi e di valori. In assenza di valori, per chi non ha come voi il dono della fede, rimane solo l’angoscia esistenziale di una vita comunque troppo breve, sommersa dalla solitudine e solo squarciata, per pochi attimi, da qualche lampo di felicità.

Io credo che il significato di questo incontro con voi sia, soprattutto, vedere quali possano essere i valori che ci accomunano per uno sviluppo possibile. Credo che questi siano essenzialmente il rispetto dell’uomo, il rispetto dell’ambiente e della natura, la solidarietà umana, l’etica della responsabilità, la non violenza, la tolleranza, la pace. Condivido le preoccupazioni del Cardinal Biffi, il cui intervento, ieri, si scagliava contro il pacifismo inteso a senso unico. Noi siamo d’accordo perché, se il mondo si divide tra carnefice e vittime, ebbene, noi saremo sempre dalla parte delle vittime, contro i carnefici e lotteremo sempre per far prevalere la giustizia nei confronti del sopruso e della prepotenza, riaffermando, allo stesso tempo, il valore della pace come valore universale per risolvere i conflitti d’interesse. Non crediamo che gli ecologisti possano rappresentare l’Anticristo.

Che cosa abbiamo in comune noi e voi, per far prevalere questi valori? Credo che noi dobbiamo precisare anzitutto quali debbano essere i ruoli del mercato e dello Stato. Il mercato credo che sia, in questa fase storica, il sistema più efficiente per produrre ed in questo senso lo Stato rivela tutta la sua inefficienza quando si interessa di settori economici che non fanno propriamente il proprio ruolo. Oggi abbiamo visto che l’occupazione dello Stato da parte dei partiti ha portato alla degenerazione, causa di un malessere diffuso, della protesta qualunquistica, del fenomeno delle leghe. Noi diciamo che, accanto al ruolo del mercato, vi dev’essere un preciso ruolo dello Stato che dev’essere solo di indirizzo generale, abbandonando settori economici che non gli competono, abbandonando la politica del malaffare che sta caratterizzando in questo periodo l’Italia. In questo senso noi apriamo anche un ponte di collaborazione verso il mondo imprenditoriale, dicendo che non vogliamo esorcizzare lo sviluppo: noi vogliamo uno sviluppo ordinato, vogliamo passare dalla fase della protesta a proposte concrete e quindi dialogare per uno sviluppo possibile. Gli industriali devono capire che, per risolvere problemi complessi, occorre la collaborazione di tutti e noi siamo qui per collaborare. Io credo che, su queste basi, con CL e probabilmente con MP, avremo una lunga strada insieme da percorrere.

Cesana: Vorrei fare, ora, ad Alberto Frazzei del WWF, una domanda un po’ curiosa. I movimenti ecologisti corrispondono anche ad un certo stile di vita, sono un diverso modo di comportarsi e di agire: questa è una reale prospettiva?

Frazzei: Prima di rispondere volevo dire una cosa personale. Io credo in Dio, sono un pacifista, sono un ambientalista, sono, credo, uno che pensa e lavora per la solidarietà, non mi sento un anticristo. Io credo ci sia stata una errata interpretazione da parte dei giornali delle dichiarazioni del Cardinal Biffi.

Cesana: Consentitemi qualche precisazione su questo problema dell’Anticristo.

Cristo è il nome della verità e l’Anticristo è l’antiverità. Il discorso del Cardinal Biffi voleva evidenziare qual è l’antiverità, cioè la menzogna più efficace, e ha detto che dalla verità discendono alcuni valori, la pace, il rispetto per l’ambiente, l’amore per il prossimo. La menzogna più grande deriva dall’assolutizzare questi valori che non sono tutta la verità, ma un aspetto di essa. Se la verità è 7 la menzogna più grande, più efficace è 6,9 periodo. Esiste una sottolineatura insistente di valori buoni, positivi, che lo stesso Solov’ev sosteneva nella discussione contro Tolstoj. La pace è un valore rispetto alla verità, ma per difendere la verità qualche volta bisogna far la guerra.

Il problema dell’ambientalismo e dell’ecologia: certe tribù dell’Amazzonia vengono trattate come un aspetto dell’ambiente. Mi diceva Don Cenci (uno dei nostri che ha importato in Amazzonia un sistema di coltivazione delle terre, secondo la natura locale, che funziona) che gli indigeni hanno imparato l’agricoltura, mentre in Amazzonia non c’è l’agricoltura. Allora, rispettare l’ambiente vuol forse dire non insegnare l’agricoltura in modo che questi, se c’è una carestia, muoiano di fame? Quando le ragazzine arrivano alla pubertà le stuprano in venti o trenta, le distruggono; glielo facciamo fare perché rispettiamo l’ambiente? Tutto è in funzione di una verità più grande! Il Cardinale Biffi voleva dire semplicemente questo, la sua polemica era su questo, non era contro l’ambiente o contro la pace.

Frazzei: Noi poniamo l’uomo dentro la natura; per noi la natura e il creato fanno parte dello stesso meccanismo. Per voi, invece, l’uomo è al di fuori della natura e può condizionarla. Se noi mettiamo l’uomo all’interno della natura forse abbiamo la possibilità di capire cosa intendiamo per stili di vita, perché questa è la base della nostra associazione, il WWF, questa è la nostra proposta per poter avere uno sviluppo sostenibile e un uso consapevole e razionale delle risorse. Dobbiamo capire che l’uomo dentro la natura subisce danni che lui causa ad altri membri di essa e che modificandola non può salvarsi da una possibile catastrofe. Questa è la base fondamentale per avere un futuro civile. Provate ad immaginare se un domani le nostre risorse fossero sperperate in modo irrazionale: cosa potrebbe essere la città del futuro? Ricordo una dichiarazione di un dirigente della Fiat; alla domanda di un giornalista che gli chiedeva quale sarebbe stata l’auto del domani, ha risposto: "Studiando e considerando gli scenari futuri energetici, l’auto del futuro sarà una Cinquecento e non di più". Quindi, sono perfettamente consapevoli che le risorse stanno esaurendosi. A questo punto diventa inevitabile immaginarci di programmare un nuovo stile di vita, ma anche un nuovo stile di produzione e un nuovo stile di governare. Crediamo che lo Stato debba esserci, ma non deve essere uno Stato forte e autoritario, deve essere uno Stato autorevole, credibile. Non è concepibile, ad esempio, che scoppino ogni anno centomila incendi sul nostro territorio e non avere nulla per contrastare questi incendi; è inconcepibile che noi abbiamo tutte le acque di superficie inquinate, che nelle grandi città, e non solo, ci sia un’aria pestilenziale e che non si faccia nulla perché questo non avvenga. È incredibile che in tre regioni dell’Italia lo Stato non abbia potere, cosicché regna incontrastato l’abusivismo. Evidentemente bisogna cambiare qualche cosa, crearci la possibilità di un futuro credibile, civile e vivibile.

I nuovi stili di vita si dovranno imporre con l’aiuto, il contributo, la spinta di tutti i movimenti, compreso il vostro, perché sarà attraverso questo tipo di aiuto e di contributo che potremo riuscire a fare qualcosa di positivo.

Ronza: Intervengo a nome dell’associazione "UMANA DIMORA".

I cattolici sul tema ambientale sono arrivati dopo, sarebbe stato meglio fossero arrivati prima, ma è inutile nascondersi: siamo arrivati dopo. Questo fatto ci crea delle gravi responsabilità, perché eravamo arrivati prima: il cristianesimo è la visione del mondo che ha introdotto nella storia un rapporto equilibrato fra uomo e natura, liberando l’uomo dalla soggezione della magia. Se andate in Africa, trovate ancora il segno devastante della soggezione magica dell’uomo alla natura. Noi abbiamo operato nella storia per liberare l’uomo da questo, liberando il rapporto uomo-natura, creando un rapporto amichevole e fecondo. È stato citato il nome di S. Francesco, l’uomo che anche paradigmaticamente rappresenta il momento di compimento di tale liberazione. Si era arrivati a un rapporto equilibrato, un rapporto di cui trovate una memoria importantissima negli Statuti dei comuni rurali, spazzati via dalle riforme napoleoniche, e una persistenza rilevante in tutte quelle zone d’Europa dove le riforme napoleoniche furono rimediate, dove cioè le comunanze, i patriziati, le proprietà collettive delle terre permangono, come per esempio in Svizzera, in molti cantoni, compreso il Ticino, il Vallese, i Grigioni ed anche altri. Voi trovate l’ecologia negli Statuti. Ho presenti gli Statuti valtellinesi, perché, essendo lombardo, mi occupo soprattutto delle mie zone; ma in tutta Italia si trova questo. Statuti che prescrivono, per esempio, che entro un certo giorno bisogna trasportare il bestiame all’alpeggio e che non si deve consumare l’erba di bassa quota, perché si argomentava che, altrimenti, i ricchi avrebbero tenuto il bestiame in bassa quota d’estate, per poi comprare il fieno d’inverno e sottrarlo ai poveri. Statuti che stabilivano, però si faceva l’eccezione se c’era una madre senza latte: allora consentivano che la famiglia tenesse una mucca in bassa quota per il bambino che non aveva latte. Statuti che stabilivano che in una cava si estraesse calce solo quando due si sposavano; era vietato portare la calce fuori dal comune, poi ogni 10 anni la famiglia poteva prelevare calce per i lavori di rinnovo della casa. Questo dice rapidamente ciò che gli Statuti rurali hanno portato fino al 1804-1805, la memoria di questo modo di vivere. Noi ne siamo eredi, ma cattivi eredi, perché, poi, siamo stati travolti da una visione del mondo che è riuscita ad avere un’efficacia nella società e nel concreto della storia, maggiore della nostra, per un certo tempo. Però adesso questo sta finendo e ciò è segnato dalla Redemptor hominis, dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II. In questa enciclica fondamentale, per esempio, si dice che l’uomo spesso sembra non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solo quelli che perseguono fini di immediato uso e consumo; invece, è volontà del Creatore che l’uomo comunicasse con la natura, come padrone e custode intelligente e nobile, non come sfruttatore e distruttore. Perciò quel progresso, peraltro tanto meraviglioso, in cui non è difficile cogliere segni di grandezza dell’uomo, non può non generare molteplici inquietudini. Potrei poi citare altri documenti come la Sollicitudo rei socialis. Noi dell’Umana Dimora stiamo cercando di lavorare per aiutarci a ritrovare questa sensibilità, riconoscendo di essere fratelli minori dei movimenti ambientalisti; certi, però, di avere non solo queste verità storiche, ma anche un’altra cosa da dire: riscoprire la sacralità dell’abitare, dello stare nella natura. Julien Ries ha presentato una relazione al Convegno dell’Umana Dimora a Trento sul tema della sacralità dell’ambiente di cui cito questo passaggio: "La vita dell’uomo, l’abitare, il territorio diventano conquista spirituale; stabilirsi in un territorio equivale, in un certo senso, a consacrarlo, implica una decisione vitale che coinvolge tutta la comunità, è una scelta esistenziale". Sottolineo la sacralità di questo gesto e tutte le conseguenze che ne derivano e che noi vediamo sul territorio nei gesti di consacrazione che troviamo, ad esempio, in quota, con i segni sacri dei monti e tutto quello che consegue sul piano proprio della gestione ambientale. Dove avete occasione di trovare dei sistemi di colonizzazione di età cristiana intatti, ad esempio nelle valli alpine, vedete come questa rete di luoghi sacri innerva un’attenzione per il territorio che lo ha condotto sino a noi come è, rivela un uomo che non è inteso come presenza disturbante, ma valorizzante la natura: l’uomo è veramente al centro della natura, ma ciò non vuol dire che deve spazzare via tutto. Se guardiamo nel nostro territorio, le memorie di questo tipo di mentalità sono innumerevoli. Si tratta di non considerarla archeologia, di essere attenti ai segni dei tempi, di imparare da quelli che si sono svegliati prima di noi e lavorare assieme a loro; noi siamo molto interessati a delle forme di collaborazione.

Da ultimo, parlando come italiano, debbo dire: teniamo conto di questa specificità, che l’Italia non è un paese piano, è stato pensato e governato come un paese piano perché fra le tante stranezze della nostra vicenda storica siamo stati "inventati", come Stato, da una classe dirigente che ha pensato di essere in Francia, in Inghilterra, poi negli Stati Uniti, costantemente attaccata alle Alpi per tirare su la testa e poter andare dall’altra parte. È stato gestito il Paese come un Paese piano, ma il territorio è montagna e collina per il 72% della sua superficie. Questo è un caso praticamente unico tra i grandi paesi industriali, paragonabile solo a quello del Giappone; perciò noi abbiamo un problema di responsabilità ambientale particolarissima, per la delicatezza dei nostri territori. Per noi le pianure sono molto preziose; non possiamo buttarle via per fare gli svincoli delle autostrade, o per fare stabilimenti giganteschi. Per noi poi la quota è preziosa, perché siamo un popolo di montagna; non possiamo usare la montagna come giardino pubblico per far fare il "tuffetto" nella natura a masse che vivono poi malamente in aree metropolitane sbilanciate. Infine, noi siamo anche un paese che, avendo avuto 20 secoli di centralità nell’Occidente, ha un patrimonio monumentale ingentissimo; la maggior parte dei nostri paesaggi sono monumenti, nel senso che sono frutto del lavoro umano (le colline senesi ne sono un esempio). Tutta la colonizzazione alpina è un monumento, nel senso di luogo di memoria e di vita, non di museificazione. Tutta la tematica ambientalista, nel nostro caso italiano, ha delle valenze particolarissime e, per quanto riguarda noi credenti, siccome la stragrande maggioranza di questo patrimonio monumentale l’abbiamo fatto noi e l’hanno fatto i nostri antenati, abbiamo anche la responsabilità di farne capire il significato e di farlo perdurare; e lo si fa perdurare non attraverso lo Stato. È la gente che ha fatto le abbazie, i villaggi, i villaggi fortificati, le pievi, i tratturi, i grandi itinerari a piedi e a cavallo che legano fra di loro le abbazie, che ha tracciato la via francigena, che va dalla Sacra di San Michele dell’Abbazia di Nova Lesa, fino a San Michele Arcangelo nel Gargano; è la gente, allora, che deve rioccuparsene, non pensate che possa essere il Ministero dei Beni Culturali! Quindi per noi, beni culturali e beni ambientali sono intrecciati; ecco un’altra cosa specifica alla quale siamo chiamati.

Boato: Volevo riprendere un momento le questioni a cui abbiamo accennato. In primo luogo non cadiamo nell’errore di immaginare che ci sia una sorta di dialogo, di confronto fra i cristiani, i credenti e i verdi; come se fossero due categorie comparabili fra di loro. Molti di noi sono dei cristiani e dei credenti da sempre, altri non lo sono; a pari titolo, laicamente, si impegnano sul terreno sociale e politico e poi ciascuno, chi ce l’ha, ha anche una sua presenza di carattere ecclesiale. In questo senso quello di oggi non è un incontro fra i cristiani e i verdi, ma è un dialogo, un confronto fra due movimenti, due realtà molto diverse fra di loro, che, però, hanno anche molte analogie, molte possibilità di convergenza, molte possibilità di impegno comune pur nella loro sacrosanta diversità; se questa non ci fosse non avrebbe neanche significato un dialogo. Un dialogo avviene proprio perché c’è questa differenza.

L’altra osservazione, un po’ più complessa, è questa: è molto giusto non ridurre la dimensione della questione ecologica alla pura e semplice questione dell’impegno politico istituzionale e della responsabilità di governo. Noi siamo abituati troppo a considerare la politica una cosa corrotta, una cosa sporca; governare i processi di cambiamento sembra una cosa che deve sempre spettare ad altri. Fra le tante cose che mi impressionano della situazione post-sovietica, per esempio, è il fatto che in questo processo gigantesco di transizione tutte le persone coinvolte sono costrette a fare i conti quotidianamente, giorno per giorno, ora per ora, con i grandi probemi di governo di una società che deve, in qualche modo, rifondarsi e cambiare. Noi non siamo in questa situazione, in Italia; noi non stiamo uscendo da cinquant’anni di totalitarismo, per nostra fortuna. Io credo che dovremmo avere la capacità di riportare le grandi domande della politica al centro dell’attenzione e capire che fare politica e impegnarsi politicamente, per esempio nella dimensione verde, ecologista, ambientalista, senza darle una dimensione ideologica totalizzante, vuol dire affrontare le domande più radicali: che aria respiriamo, che cibi mangiamo, che terra abitiamo, che realtà trasmetteremo ai nostri figli. A queste domande radicali si può rispondere da diversi punti di vista e anche in diversi ambiti di riflessione culturale e teorica. C’è, ad esempio, da dieci o quindici anni, una riflessione molto forte, sia nel mondo cattolico sia in altre confessioni del cristianesimo, proprio sulla questione del rimettere al centro il concetto di integrità del creato. Il messaggio del Papa per la giornata della pace del 1990, è tutto dedicato alla riflessione sulla integrità del creato, alla questione ecologica. Poi c’è la dimensione etica, sulla quale, io credo, la riflessione dovrebbe muovere dalla etica della responsabilità, non della testimonianza. L’etica della responsabilità è riassumibile, dal punto di vista ecologico, in questi termini: quale terra, quale pianeta noi consegneremo ai nostri figli? C’è una bella espressione che noi usiamo (come tutte quelle ellittiche va presa senza sottilizzare, ma è molto bella): "la terra ci è stata data dai nostri figli".

La terza dimensione è quella scientifica e culturale. Porrei l’accento sulla cultura del limite, in una situazione in cui, per secoli, siamo stati abituati a tutto, alla ricerca scientifica, allo sfruttamento delle risorse, senza tener conto del limite. Avere invece la consapevolezza, non regressiva, non oscurantista, ma problematica e critica della cultura del limite è un modo di affrontare anche il problema della cultura della vita, dal punto di vista scientifico e dal punto di vista culturale.

La quarta dimensione è quella sociale, politica, istituzionale. La dimensione scientifica, la dimensione culturale hanno una loro autonomia e valgono per se stesse; tutto questo, però, se non vuole rimanere inefficace da un punto di vista della operatività, deve avere anche una capacità di concretizzazione sociale, politica e istituzionale senza, tuttavia, esaurirsi in essa. Questo è il modo per poter affermare, senza integralismi, senza ideologismi, con consapevolezza laica dei problemi anche quando si è di ispirazione religiosa, una cultura di governo ecologista.