SCENA 2 - Ad un fast-food sotto il palazzo, il vecchio immigrato incontra Antigone: "Tutto bisogna mischiare, fa bene allo stomaco e alla società".

 

Venerdì 30, ore 17

Relatore:

Giulio Andreotti

Moderatore:

Roberto Formigoni

Formigoni: Sono lieto di salutare l’amico presidente Giulio Andreotti che onora il Meeting della sua presenza per la dodicesima volta consecutiva. Siamo naturalmente contenti di questo fatto, anche perché, più di tante parole, è la testimonianza chiara di un’amicizia, un’amicizia tanto più importante perché è un’amicizia vera che non ha mai fatto velo all’emergere anche di posizioni diverse, come quelle manifestate in questi tempi, anche se con contorni molto diversi dai toni che certa stampa ha voluto presentare.

Amicizia è proprio il fatto di poter lavorare e concorrere con differenza di ruoli, di responsabilità e anche, a volte, di posizioni per il raggiungimento di obiettivi comuni. Quello che mi interessa sottolineare anche personalmente, oltre che a nome del Meeting, è che per noi la prospettiva e il progetto politico sono interessanti quando si innestano su un incontro umano: è questo che noi abbiamo sempre ricercato prima di ogni ragione di schieramento o di altro tipo. È questo che al Meeting e al Movimento interessa fare: incontrare uomini, dialogare, confrontarsi. L’incontro col presidente Giulio Andreotti oggi avverrà attorno a tre tematiche fondamentali.

Il primo tema, soprattutto alla luce dell’attualità di questi giorni e di questi mesi, non può che riguardare la politica internazionale. Noi vorremmo uno sguardo d’assieme sui decenni che stanno alle nostre spalle per capire che cosa è successo, perché è successo e cosa potrà succedere. La data che ti propongo come punto di partenza è il 1945, la data di Yalta, la divisione del mondo in due, l’avvenimento che poi ha segnato, lungo i decenni, le vicende del mondo stesso. Quarantaquattro anni: Yalta 1945, caduta del muro di Berlino 1989. Viviamo sotto l’influsso di questo secondo avvenimento. Tra l’altro, il 1945 è l’anno immediatamente precedente alla tua entrata in politica con la prima elezione. Tu quindi hai lavorato in politica internazionale sotto il segno di Yalta. Che cosa ci puoi dire di quello che è successo e di quello che può succedere da oggi in poi?

Giulio Andreotti è nato a Roma nel 1919. A 23 anni diventa presidente nazionale degli Universitari di Azione Cattolica. Agli inizi del ‘40 inizia il suo impegno nella Democrazia Cristiana. Stretto collaboratore di De Gasperi all’epoca della Costituente, ha calcato da protagonista la scena politica italiana fino ad oggi. Titolare di vari ministeri, è stato più volte Presidente del Consiglio.

Sul piano internazionale si è fatto promotore di delicate e importanti iniziative diplomatiche per costruire un dialogo ed una collaborazione fra i popoli e gli Stati.

Al suo attivo anche numerosi libri di successo. Il 2 giugno 1991 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo ha nominato senatore a vita.

Andreotti: Sono grato a Roberto Formigoni per il suo saluto e ringrazio Iddio per farmi recidivo specifico nella partecipazione al Meeting, che spero di continuare. Qualcuno, forse per non esser venuto o per esser venuto distrattamente, non ha capito bene né lo spirito del Meeting né quello di Comunione e Liberazione. Chi ha creduto che fosse un qualche cosa o di subdolo o di machiavellico il far venire qui e accogliere bene Claudio Martelli ed applaudirlo quando dice bene della scuola privata, non ha capito niente. E chi non crede che sia normale per un movimento aperto, tendente veramente all’evangelizzazione, invitare anche il "peccatore" Massimo D’Alema perché "si converta e viva", non ha capito niente del Meeting. Non dovrei dirlo io che certamente non sono disattento alla politica: ma la politica non esaurisce per nessuno e tanto meno per un cristiano l’insieme dei suoi diritti e dei suoi doveri. Non c’è niente di direttamente politico in questo, non ci sono alleanze o controalleanze: ci sono tanti altri posti dove si discute di queste cose, si confrontano, si preparano. Io sono molto più contento del fatto di vedere Massimo D’Alema qui che non ricordare quando eravate messi quasi alla gogna come degli integristi, come delle persone culturalmente di serie B. E spero che questo non crei confusione in nessuno; alla mia età non si fanno più le serenate...

Qual è stato l’itinerario in cui si è mossa la politica internazionale? Era nata con una serie di equivoci. Il primo equivoco: per cercare di difendersi dalle democrazie, due dittature si erano unite, i nazisti e i comunisti sovietici. Poi le democrazie si sono messe insieme all’Unione Sovietica per sconfiggere il nazismo. Questo equilibrio è durato piuttosto poco. Infatti, da un lato la moralità intrinseca delle democrazie occidentali e degli Stati Uniti d’America non consentiva certamente di profittare del possesso dell’arma atomica (che solo da una parte c’era) per cercare di riprendere le ostilità e di sconfiggere la dittatura di Stalin; d’altra parte, però, Stalin, con grande disinvoltura, cercava, agitando non la bomba atomica che non aveva ma le masse popolari comuniste dei diversi paesi, di fare la sovietizzazione del continente europeo e forse ulteriori passi. Noi superammo questo con un’alleanza occidentale. Non fu facile resistere alla campagna di opposizione contro il Patto Atlantico che era modulata su un ritornello: "il Patto Atlantico vuol dire la terza guerra mondiale, vuol dire il precipitare verso un nuovo scontro". Ricordo che nell’estate 1950 vi fu un raduno importante di Gioventù Cattolica Nazionale a Roma e il Ministro dell’Interno, invitato, andò in quella sede e parlò quasi prevalentemente di problemi di difesa militare; De Gasperi, da Sella di Valsugana, gli mandò un telex per dire che, mentre dovevamo essere fermissimi nella difesa politica di certe operazioni e nella consequenzialità di difendersi militarmente, adeguando la nostra attrezzatura militare, dovevamo però stare attenti a non impedire la coltivazione della pace e della non violenza da parte delle masse giovanili ad opera delle organizzazioni cattoliche. Quindi, se qualche volta vi è una differenziazione tra alcune posizioni, giuridicamente ineccepibili e legittimamente morali, che devono essere prese a livello dei governi e a livello della comunità internazionale, ciò non vuol dire affatto che non sia necessario, o comunque consentito, sul piano extrapolitico non recidere i contatti umani e cercare sempre di alimentare uno spirito di solidarietà e di comprensione, specialmente tra coloro che sono costretti a fronteggiarsi per motivi di carattere internazionale e per motivi di schieramento.

Nel 1972 cominciò la preparazione di quella che poi sarà definita nel 1975 la Conferenza per la cooperazione e la sicurezza europea, cioè la piattaforma di Helsinki. Che voleva dire Helsinki? Voleva dire: signori miei, noi abbiamo tante cose che ci dividono, tante diversità nei nostri regimi, dalla dittatura alla consolidatissima plurisecolare libertà; però vi sono delle cose che ci uniscono, quelle di evitare che l’umanità di oggi debba affrontare delle pene, delle traversie che sarebbero molto più gravi proprio per la perfezione tecnologica dei mezzi militari. Gli scettici dicevano: ma che significato ha che Breznev vada a Helsinki a sottoscrivere un patto nel quale si parla di sicurezza e di cooperazione, se nello stesso tempo continua a dire che il socialismo deve essere difeso in alcuni stati al di sopra di qualunque trattato internazionale? Io feci il primo viaggio in Unione Sovietica nell’ottobre-novembre del ‘72; Moro e un piccolo gruppo di noi cominciavamo ad entusiasmarci per questo disegno fragile e dicevamo: "Lasciamo pure che firmi; Breznev un giorno passerà e quello che intanto è stato dato come orientamento di pace all’intera popolazione europea rimarrà". Dalla Conferenza di Helsinki sono nate tutte le tappe successive che hanno portato, intanto, a bloccare la corsa agli armamenti, dissanguamento di tante popolazioni, e hanno poi cominciato a riavvicinare le posizioni. Questo colloquio che si riapriva tra Occidente ed Oriente, tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, aveva una ripercussione benefica, sia pure lenta, nel resto del mondo, dove i problemi non si aggiustavano mai perché erano come dei pianoforti prestati per un concerto ora all’uno ora all’altro dei musicanti. Vedemmo, allora, che questa linea era giusta, non solo perché si poteva arrivare a dei risultati, come poi accadde, ma anche perché mentre si parlava di riduzione di armamenti, si parlava ancora di più dei diritti umani e si faceva sempre più avanti una rivincita della persona. Credetti quasi di aver capito male le traduzioni quando sentii che gli Stati Uniti chiedevano all’Unione Sovietica di modificare il codice penale, perché c’erano delle norme che rendevano addirittura legittimo l’esercizio della dittatura, cioè il poter mandare uno in manicomio non su parere dei medici, ma del prefetto.

Le cose camminavano in un certo senso, come benefiche talpe, scavando sotto il terreno delle dittature e facendole crollare in tempi molto più rapidi di quelli che anche i più ottimisti potevano immaginare. Qualche giorno prima della caduta del muro di Berlino, Khol si augurava di poter non solo governare, ma vivere abbastanza a lungo per vedere realizzata la sua prospettiva di riunificazione tedesca, che fino a quel momento era stata pericolosissima; una riunificazione tedesca, infatti, in una condizione diversa dell’Unione Sovietica, sarebbe stata veramente la causa dirompente, la quasi certa rottura di un minimo di equilibrio e la apertura di un terzo conflitto internazionale. Per questo noi siamo profondamente riconoscenti a Gorbaciov. Gliel’ho detto quando è venuto a Roma e ripetuto a Londra: noi gli siamo riconoscenti non perché ha vinto, non perché ha successo (e spero che abbia successo), ma perché veramente non soltanto sul piano di una concezione materialistica di rapporti di forza, ha rotto quello che era il muro dell’ateismo; questo dobbiamo veramente riconoscere! Forse fa meno chiasso, ma è stato un atto molto più importante della riduzione degli armamenti nucleari o della riduzione degli armamenti convenzionali: si è trattato di riconoscere che non soltanto era falso il concetto della religione come oppio dei popoli, ma che (e sono le parole di Gorbaciov a Roma nel novembre dell’89) "la religione non solo è un aspetto dei diritti individuali della persona, ma può contribuire e di fatto contribuisce allo sviluppo globale del mio popolo". Qui non si tratta di essere clericali o anticlericali, ma solo di avere o non avere un cuore per non commuoversi dinanzi a queste manifestazioni!

Giovani di Comunione e Liberazione, voi in tempi in cui era duro, avete resistito e avete lottato, non avendo paura, non avendo rispetto umano contro coloro che per fortuna poi hanno capito, ma hanno capito perché chi ha resistito ha dato loro il tempo di potere considerare qual era la strada giusta. Non si tratta di mescolare sacro e profano, non c’è più questa divisione: chi fa politica e crede in Dio sa che il suo biglietto d’ingresso in Paradiso costerà molto di più di quello dei suoi amministrati.

Allora, qual è oggi la situazione? Si è riconquistato il diritto a essere religiosi o a non esserlo, ad esprimersi, il diritto dei popoli a stabilire essi stessi la propria strada. Occorre considerare che le dimensioni dei problemi sono molto diverse da quelle di un tempo. Oggi non esiste un Paese che da solo può essere in condizione di prescindere dalla solidarietà con altri e di fronteggiarne la concorrenza. Uno dei motivi che creò la Comunità Europea fu proprio questa giusta sensazione. Questo senso di solidarietà deve portare a creare degli equilibri nuovi. L’umanità ha sempre avuto la grande speranza di creare un ordine nuovo. Certamente esso richiede grandi sacrifici a coloro che stanno bene, se si vuole far sì che coloro che stanno male possano avere la legittima speranza e, di fatto, pervenire ad una condizione tollerabile. Dove questo desiderio può esplicarsi? Da un lato entro l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Queste, per molto tempo, sono state paralizzate proprio dal contrasto Est-Ovest; siccome uno dei cinque Paesi permanenti può mettere il veto, anche le cose più belle venivano bloccate. Oggi che è rotta questa forma di incomunicabilità si può veramente lavorare. Certo non si passa da un giorno all’altro a creare un ordine internazionale; esso deve essere mutuato su un concetto di giustizia. In alcuni documenti pontifici degli ultimi decenni ci si fermava a lungo non solo a parlare in genere dello sviluppo, ma anche del modo di concretare lo sviluppo e perfino si arrivava a parlare dei prezzi minimi delle materie prime, delle regole del commercio internazionale; c’era chi non capiva e diceva: "Ma che c’entra il Papa in tutto questo?". È la concezione unitaria della vita umana individuale e dei popoli.

Un’ultima osservazione vorrei fare. Se non si sanno individuare per tempo le motivazioni di una grande crisi, quando questa crisi esplode, raramente si è in condizione di fronteggiarla senza spargimento di lacrime e di sangue. Uno dei motivi che creerebbero una crisi non tollerabile sarebbe il permanere in condizioni di redditi minimi, assolutamente da fame, di centinaia di milioni di uomini in terre nelle quali, oltretutto, il tasso demografico è alto e la popolazione cresce di continuo. Non è soltanto un problema lontano, (ma anche se fosse lontano noi dovremmo egualmente farcene carico), è anche un problema vicino. Abbiamo visto che cosa è accaduto con l’Albania. È stato duro, per noi, il faticare al primo arrivo dei ventitremila albanesi per dare un minimo di sistemazione e un lavoro, ma non eravamo in condizione di recepire il secondo flusso. Con molto dolore ho visto poi nella stampa internazionale, ma anche in parte nella nostra, molte critiche verso il ritorno obbligato. Mobilitandoci un po’ di più non solo come stato, ma come famiglie, si poteva dare una mano a questo tipo di problemi.

Occorre cominciare subito e intensificare quanto si sta già facendo per mettere in condizione i popoli vicini di avere un’agricoltura molto più moderna, condizioni di vita industriale, artigianale, turistica, altrimenti ci saranno milioni e milioni di persone che sfonderanno i confini dell’Europa e allora sarà veramente la marcia dei Tartari, qualche cosa di straordinariamente irrefrenabile.

Morale della favola. Io credo che noi dobbiamo responsabilmente abituarci ad essere cittadini di un’Europa senza frontiere che nelle forme giuridiche possibili senta questa sua grande solidarietà. Ed essere, poi, cittadini del mondo, ognuno avendo una cura particolare delle zone più vicine che la natura mette nell’obbligo di dover curare specificamente. C’è un movimento nel mondo che è contraddittorio: da un lato si cercano e si trovano tanti denominatori comuni, ma dall’altro vi è un odio, e quando l’odio viene dalla fame difficilmente lo si corregge con delle predicazioni o con buone parole. Oggi vi è un discorso ad alto livello, specie tra persone che seguono religioni diverse, per cercare quello che chiamiamo, con una brutta parola, il "trialogo", cioè un modo di capirsi tra ebrei, cristiani ed islamici. Questo ai vertici comincia a funzionare, ma alle basi ancora no. E proprio lavorando sulla miseria vi è un modo di utilizzare il fenomeno religioso che crea delle forme di integrismo, delle forme di violenza per la violenza. Qualche volta parlano di guerra santa; certamente questo è uno dei timori che noi oggi abbiamo: un integrismo che, utilizzando condizioni obiettivamente non vivibili in tanta parte della popolazione, sia nel nostro continente, sia in Asia, sia in Africa, cerca di creare una condizione di riscatto, di ribellione e di rottura dinanzi alla quale quella del marxismo impallidirebbe per la violenza, per la virulenza, per le condizioni di rottura integrale.

Possiamo essere in condizione di vedere senza disperazione il futuro, pure se i dati sono così scuri, così grigi, almeno dinanzi a noi? Io direi di sì. Ci sono stati momenti in cui tutto sembrava rotto, in cui tutto sembrava dover precipitare, eppure vi è stata sempre una controspinta al momento giusto che ha impedito la crisi, il ritorno al conflitto armato. E da questo è nato poi quel senso di ineluttabilità della pace, della convivenza, della vita in comune, della socialità. Qualche volta sembrano delle utopie. Ricordo una bella frase di Paolo VI, in un momento difficile dell’umanità, quando disse che, talvolta, l’unico realismo è l’utopia. Ci sono momenti nei quali sembra impossibile che si possano vincere perfino delle resistenze della natura. Ma se è Gesù che dice: "Venite avanti", si può riuscire a camminare anche su un mare in tempesta.

Formigoni: Un secondo tema vorrei proporre: il cristiano e la politica. E chiederei, se possibile, di trattarne anche in termini personali. Si dice spesso che il cristiano è in politica, ed è tenuto ad andare in politica, per costruire il bene comune, non per un interesse particolare. Ecco, nella tua esperienza, nel tuo lavoro di questi anni, che cosa ha voluto dire, come è possibile, quanto è doveroso questo e quali difficoltà ci sono state?

Andreotti: Io credo che tra le cose di cui la mia generazione e quelle seguenti devono ringraziare Dio, è di essere nati abbastanza tardi per non avere tutti gli intoppi della questione romana, cioè gli impedimenti derivanti dagli strascichi dello Stato Pontificio, gli impedimenti che la lotta tra la Chiesa e lo Stato portava anche nell’esercizio della libertà individuale e della vita politica dei cittadini. Che significa il cristiano in politica? Certamente, vi sono momenti nei quali, quando vi è una persecuzione in atto, si deve far fronte insieme, per evitare che questa travolga tutto e che tocchi anche la comunità religiosa della nostra nazione. Quanta gente deve fare atto di contrizione per quando accusava Pio XII che invitava gli italiani a difendere la propria libertà e, nella propria libertà, la libertà della Chiesa! Si diceva allora che questo era un interferire; addirittura si citava il Concordato, perché il clero non doveva fare politica. Giovanni Paolo II, ricevendoci come Unione interparlamentare (deputati e senatori di cento paesi), ci dette una lezione formidabile, dicendo: "La libertà è un prisma unico, di cui la libertà religiosa non è che una faccia. Se non c’è libertà religiosa, non c’è libertà; ma se non c’è libertà generale, non c’è neppure libertà religiosa". Coloro che credono che il movimento democratico cristiano sia nato solo per difendersi dai comunisti non hanno non solo il senso della storia, ma nemmeno quello del calendario; esso è nato in reazione proprio a una cultura laicista che voleva far sì che il civile non fosse mai contaminato da qualche cosa che avesse odore di incenso, odore di Chiesa.

Agli inizi di questo secolo, per paura che i socialisti, i quali cominciavano ad essere forti, conquistassero il comune di Milano, il Corriere della Sera legittimò i cattolici, affinché votassero, perché serviva ad impedire il peggio. Però in questo articolo Albertini scriveva: "Guai, però, se qualcuno ritenesse che questo significhi essere favorevoli a che i cattolici entrino nella politica e nel Parlamento nazionale". Era una cultura diversa.

Certamente noi sentiamo tutta la imparità delle nostre forze; qualche volta dovendo fare i conti con le disponibilità, non si ha la possibilità di fronteggiare adeguatamente le esigenze.

Ci sono state delle prove nelle quali non c’entrano le persone: il referendum sull’aborto, il referendum sul divorzio. C’era da dare una risposta e questa risposta non fu certamente brillante: in alcune regioni, per quello che riguarda il divorzio, ci furono 72 voti favorevoli contro soltanto 27 contrari. Il referendum sull’aborto, che io credevo andasse meglio, fu una grande tristezza anche da questo punto di vista. Se dobbiamo fare un discorso, lasciamo perdere l’attualità, le coalizioni, le elezioni prossime e forse anche quelle della legislatura successiva; cerchiamo piuttosto di vedere se su certi valori noi possiamo metterci d’accordo. Valori che riguardino non interessi materiali né della Chiesa, né dei cristiani come tali, ma la sostanza. I valori storici della famiglia, della scuola, della libertà di informazione. Ma c’è di più. Oggi il grande confronto si trasferisce in alcuni domini nuovi della bioetica. Si cerca di distruggere il senso della creazione: i figli del farmacista, i figli della chimica, la morte accelerata; si dà il senso della modernità a tutto quello che, invece, è rottura di un ordine naturale delle cose. Qui dobbiamo cercare le convergenze e le divergenze. Noi oggi non abbiamo la tensione del rischio del sorpasso, anche per merito vostro, oltre che per l’aiuto di Dio; noi sappiamo bene che ci sono condizioni che possono rendere più aperto questo dibattito. Senza preclusioni o secondi fini, vogliamo cercare di affermare una linea di bioetica che sia veramente di etica e che non dia all’uomo il senso di un prodotto chimico, il senso di una manipolazione genetica. Forse ancora sembrano temi lontani, ma se non si arginano sufficientemente poi si arriva ad un punto nel quale la razionalità viene superata dalla passionalità, dalla disinformazione, dal timore di non sembrare sufficientemente moderni.

Abbiamo giustamente festeggiato il centenario della Rerum Novarum; dell’enciclica, però, si citano solo le prime due parole, perché se uno prosegue nella lettura e nella citazione forse capisce un po’ meglio che cosa voleva dire Leone XIII: "Rerum novarum semel eccitata cupidine". C’è un senso globale di socialità, la quale, però, non è solo ripartire giustamente le ricchezze e le disponibilità che sono al servizio degli uomini, bensì dare anche questa connessione tra la scienza e la religione. Un’altra grande conquista. Una volta vi era quasi la paura di affrontare questi problemi. Oggi, nella Commissione nazionale per la bioetica, nella quale tutte le voci sono state chiamate a dare il loro contributo scientifico e umano, io vedo con grande gioia il rispetto che il senatore Bompiani, che presiede, riscuote da parte di tutti. È un’altra marcia in avanti della condizione umana.

La presenza politica dei cattolici assume forme contingenti. Guai, però, a fare qualcosa che rompa, senza sapere con che cosa si sostituisce! Proprio mentre si discuteva del referendum sul divorzio che avvelenò la vita pubblica italiana per anni e anni, prima durante e dopo, un giornalista inglese, venuto in Italia qualche anno prima, ammiratissimo delle grandi riunioni dell’Azione Cattolica, scrisse: "È un po’ curiosa la Chiesa italiana; prima ha smobilitato e poi fa la guerra". Era la battaglia per il divorzio e la guerra ebbe il risultato che ho detto prima. Ed era una lotta su uno dei pilastri su cui si fonda la società. Noi ci crediamo a queste cose e, se ci crediamo, dobbiamo essere coerenti. Possiamo essere battuti, certamente, perché la differenza tra una vita dittatoriale e una vita democratica è che si deve ricercare l’adesione, il consenso. Non si può imporre, non può essere il prefetto o il questore a decidere se l’aborto è buono o no. Bisogna cercare delle condizioni per cui la legislazione possa essere riveduta in meglio. Ho citato apposta le nuove tematiche di cui noi parliamo poco ma che saranno la pietra di paragone effettivo su cui la cultura cattolica avrà modo di affermarsi con tutte le carte in regola dal punto di vista scientifico.

Formigoni: Il tema del Meeting è: "Antigone ritornata", cioè il tema permanente e sempre nuovo della libertà, delle connessioni e delle contraddizioni tra la libertà e il potere. Ti pregherei di trattarne anche qui con una attenzione all’attualità: la libertà oggi, nella società italiana, la domanda di libertà di educazione, di libertà vera in economia perché ci possano essere dei soggetti nuovi anche dal basso; il pluralismo, il compito e le possibilità dello stato di venire incontro a questa esigenza di libertà del cittadino.

Andreotti: Credo che sotto questo aspetto dobbiamo considerare la libertà accompagnata da un grande senso di educazione e di formazione. È chiaro che libertà non vuol dire licenza e imporre delle regole, non vuol dire dittatura. Proprio nell’Antigone c’è una frase molto bella: "A chi lo stato innalza, docilità si deve, nelle minori, nelle diritte e nelle opposte cose. Non c’è peggiore male del non governo". Ma che cosa vuol dire? Vuol dire che la società deve darsi una regola, altrimenti vi è il caos, il disordine, il sopruso. Questa regola deve, da un lato, essere legittimata dal consenso popolare e dal suffragio popolare, dall’altro ispirarsi, come una premessa, a determinati valori naturali che non possono essere disattesi a maggioranza o a minoranza. È un equilibrio straordinariamente delicato. Qualche volta la pigrizia porta qualcuno a rimpiangere le dittature. Ho assistito in Inghilterra ad un dibattito. Alcuni erano per una libertà assoluta sostenendo che è l’uomo che risponderà o alla sua coscienza o al Creatore; altri, invece, in nome della convivenza civile, dicevano: "Ci sono delle regole cui uno deve rispondere anche su questa terra e non solo a se stesso". Ho visto in Paesi che uscivano da regimi dittatoriali questa preoccupazione: "ma allora la libertà di stampa, per esempio, vista in assoluto, porta a qualcosa di sconvolgente; la libertà dei manifesti, ad esempio".

La libertà comporta un’educazione; quando noi difendiamo la famiglia è perché sappiamo che se l’educazione non viene coltivata alle radici, nella famiglia, possono esserci dei surrogati, degli aiuti individuali, ma questo non è sufficiente dal punto di vista della generalità, della scuola, della Chiesa, della società, della vita associativa. Certamente, vi è qualche volta un contrasto apparente. Quando discutemmo alla Costituente l’articolo in cui l’Italia ripudia la guerra, proponemmo un emendamento che diceva: "salvo che per difendere la propria indipendenza". Esso non fu accettato non perché non si debba difendere la propria indipendenza, ma perché un uomo illuminato, Vanoni, disse: "Ci può essere un domani una solidarietà internazionale che obblighi a dover difendere anche armati delle posizioni giuridiche".

È indispensabile una grande opera di coltivazione di pace. Mi ha colpito molto positivamente un discorso che ha fatto il Papa il 2 giugno in Polonia, quando ha detto: "È difficile non pensare al passato. La storia testimonia che la Polonia è stata sempre una nazione di pace. I Polacchi non hanno mai cercato la guerra. Non conducevano in genere le guerre per conquiste. Sapevano però combattere eroicamente in difesa della libertà minacciata e dell’indipendenza. L’indipendenza della repubblica è stata ottenuta lottando con le armi in mano". E ha citato quel passo molto bello del Concilio Vaticano II dove si dice che il servizio militare non è soltanto un mestiere, è un dovere, deve essere anche un comando interiore delle coscienze, un comando del cuore. E ha soggiunto: "Le tradizioni militari dei Polacchi, lungo i secoli, hanno legato al servizio militare l’amore della loro patria". Cito questo non per fare contrapposizioni, ma perché mi pare che veramente l’insegnamento di Gesù sia: "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Ciò non significa compartimenti stagni, ma può significare una divisioni di ruoli e una divisione nei tempi di assunzioni di responsabilità. Molte volte si ha l’illusione di potere, dal Palazzo, fare in modo che le cose vadano in una maniera o in un’altra. Ricordo la delusione di Nenni quando, dopo aver tanto parlato della stanza dei bottoni, vi entrò e si accorse che i bottoni c’erano, ma mancavano le asole, non c’era la possibilità di poterli utilizzare. Morale della favola. Può esistere una società cristiana? Io direi di sì, ma una società naturalmente cristiana. Guai a una società in cui vi fosse l’obbligo si seguire una religione! Noi dobbiamo essere i grandi fautori di una società che abbia radici obiettive di giustizia, di comprensione, di reciproca tolleranza, di senso di carità. Credo che questa sia la missione che ciascuno di noi ha e che deve cercare di non dimenticare mai; ci sono momenti in cui è possibile far fare un passo avanti, altri momenti in cui questo non è possibile. Si dice: "se non è il Signore a edificare la città, invano i costruttori lavorano per questo" e "se non è il Signore a custodire la città invano si lavora". L’altro giorno noi abbiamo visto alla televisione un Gorbaciov affranto, un Gorbaciov non vinto, ma certamente provato da tutto quello che è avvenuto; abbiamo sentito parole di rimpianto per quello che non aveva potuto fare, per la fiducia posta in persone che non la meritavano; in una parola egli ha detto: "Soltanto Dio può aiutarci". Credo che questo non solo non sia il nominare il nome di Dio invano, ma significhi invece fare l’unica cosa che veramente conta.

È per questo, giovani di Comunione e Liberazione, perché voi vivete questa vita ispirata ad una dottrina giusta, che noi sentiamo verso di voi una grande riconoscenza ed un non modificabile affetto.