lunedì 27 agosto, ore 11

NELLA CARITA’ LA SOLIDARIETA’ DIVENTA OPERA

Partecipa:

Pierino Gelmini

Fondatore della Comunità Incontro

Modera:

Giorgio Vittadini

G. Vittadini:

Buongiorno. Diamo inizio a quest’incontro con Don Pierino Gelmini consapevoli che quello d’oggi è qualcosa di più di un incontro con qualcuno che nella nostra società fa del bene, perché affermare che nella carità la solidarietà diventa opera significa innanzi tutto che si tratta di una carità che dura nel tempo, mentre la carità che nasce dalla generosità si ferma quando cambiano le condizioni e quando cambia il sentimento. Quello che ha costruito Don Gelmini nasce dalla carità, nasce cioè dal riconoscere che ogni uomo ha il suo compimento, il suo destino in Cristo, cioè che un uomo non si misura per quello che fa e per quello che è capace di costruire, ma è un valore unico ed irripetibile. Questo fatto rende instancabili perché se l’uomo è un meccanismo è solo oggetto di filantropia, ma se un uomo è in rapporto con Cristo, il suo valore è infinito. Il titolo di questo incontro richiama profondamente il contenuto del Meeting perché questa carità, questo modo di agire è il primo fattore dell’ammirazione, è la prima cosa diversa che una persona vede nel mondo. E’ allora con molto interesse che vogliamo ascoltare Don Pierino, perché quello cui accennavo adesso è per lui un’esperienza visibile. Don Pierino da 27 anni lavora nel campo del recupero dei giovani tossicodipendenti e la Comunità Incontro, da lui fondata, ha attualmente un centinaio di centri residenziali con 4000 residenti in tutta Italia, oltre a numerosi centri d’ascolto e di preaccoglimento cui fanno ricorso 3500 persone di cui 1800 sieropositive e 107 malati terminali. Questi dati fanno quindi della Comunità Incontro la più grande realtà di questo tipo in Europa, una realtà che si sta diffondendo in tutto il mondo e che è già presente in circa una decina di nazioni. Don Pierino è un sacerdote profondamente incardinato nella Chiesa, è stato ordinato esarca mitrato della chiesa greco-milchita. (…).Gli cedo la parola dopo aver salutato la presenza tra di noi di Sua Eccellenza il Vescovo di Rovigo e di Sua Eccellenza Mons. Carl Joseph Romer, Vescovo Ausiliare di Rio de Janeiro.

P. Gelmini:

Sicuramente è emozionante per me parlare a tanti giovani ed essere stato invitato qui per questo incontro. Io non farò una conferenza, non fa parte delle mie abitudini, del mio stile. Non sono qui a fare il professore o ad insegnarvi qualcosa. Vi racconterò una piccola storia d’amore che è un po’ la storia della mia vita intrecciata a quella delle Comunità Incontro. Inizierò raccontandovi come io ho cominciato questo cammino. Non me lo ha ordinato nessuno, non è che un giorno il mio vescovo o qualche persona mi ha chiamato e ha detto: "Tu ti devi occupare di questa realtà o di questo impegno". E’ stato un segno, un segno di Dio, un segno degli uomini, forse anche, come diceva papa Giovanni, un segno dei tempi. Era il 13 febbraio 1963 ed io allora ero segretario di un Cardinale a Roma, il Cardinal Cancelliere Giacomo Luigi Coppello. Quel giorno mi aveva dato una commissione da fare e io andai come al solito, convinto che quella fosse una commissione come tante altre. Mentre attraversavo Piazza Navona, passando fra la fontana e la chiesa di Sant’Agnese, un ragazzo malconcio, sporco, con i capelli lunghi, buttato sui gradini mi apostrofa così: "A zì prete, dammi una mano." E che fa lo zì prete? Noi, pur ministri di Dio, pur uomini di chiesa e noi tutti, in genere, crediamo che quando una persona chiede aiuto voglia denaro o qualcosa di materiale, non possiamo mai immaginare, che abbia problemi interiori, problemi di fede, problemi di vita. Quando ho messo la mano in tasca per dargli qualche soldo, il ragazzo ha risposto prontamente: "Non voglio i soldi, non vedi che sto male?". E subito io di rincalzo "Stai male? Ti porto all’ospedale" perché noi crediamo che i mali siano solo fisici e allora l’ospedale è il luogo adatto a curarli. E lui ancora: "Ci sono stato tante volte, guarda come sto!". Voleva dire: "Il mio non è un male fisico, ma è un male interiore". Che potevo fare? Non voleva denaro, non voleva andare all’ospedale, io ero solo di fronte a lui, avrei potuto dire che non sapevo che cosa fare per lui, ma ho riflettuto un momento e poi ho pensato che avevo la mia casa e allora gli ho detto: "Senti vuoi venire a casa mia? Ti porterò a casa mia". Allora sul volto di Alfredo, così, si chiama questo ragazzo che adesso ha 46 anni, ho visto un pallido sorriso perché io gli avevo proposto cose, ma lui cercava una casa, un cuore, cercava amore, cercava qualcuno che condividesse la vita con lui, non qualcuno che gli desse qualcosa e lo lasciasse li solo in mezzo a tanta gente. Ecco così, amici miei, è nata la Comunità Incontro, da quell’incontro. Il nome quindi non è stato studiato a tavolino, ma è nato così da quel momento. Da quel giorno Alfredo è rimasto in casa mia ed è diventato il mio maestro di vita, il professore di strada, il professore universitario che mi ha portato per le strade di Roma. Io ho incominciato in questa maniera, mettendo materassi per terra, occupando prima le poche camere dell’appartamento, poi, quando il numero è aumentato, mettendo i materassi anche nel salone, nei corridoi. Da questi incontri, da questo pizzico di lievito è fermentata questa grande massa, questi 104 centri aperti in Italia con tanti ragazzi residenti. Ieri sera ho parlato per telefono con le ragazze che il giorno 23 sono partite per la Bolivia, un gruppo di ragazze già tossicodipendenti, recuperate, che hanno preso un impegno e sono andate a San Carlos in Bolivia ad aprire il nostro terzo centro. Si occuperanno di ragazze di strada e di bambini abbandonati. La ragazza che mi ha risposto al telefono ha detto: "Sono felice, Don Pierino, hai dato un senso alla mia vita capisci? Ero gradimento. Ecco una prostituta, ero sui marciapiedi, oggi vengo qui e sono un punto di riferimento". Ecco lo spirito col quale vanno, ragazzi e ragazze. Abbiamo un’altra grande realtà in Bolivia, 2300 ettari, dove ci sono 21 ragazzi italiani che sono andati là a portare una testimonianza d’amore, non parole, non farneticazioni, non megaprogetti. Hanno detto: "Io ti do per un anno, due anni, tre la disponibilità della mia vita, fai quello che vuoi". Questo io chiedo a voi ragazzi che siete qui, non dite tante parole, mettete il vostro cuore, la vostra vita, le vostre capacità, la vostra intelligenza al servizio degli altri. Quanti giovani ho visto in questi paesi dell’America del Sud, del Centro, anche in Tailandia! Non è vero che i ragazzi d’oggi sono peggiori di quelli di un tempo, oggi c’è più generosità. Certo, si vedono anche quelli che fanno male, quelli che hanno imboccato vie traverse e fanno più rumore. Infatti, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Ma voi siete una foresta che cresce, voi che siete venuti qui a questo appuntamento non tanto per ascoltare parole, ma per avere degli impulsi, degli stimoli, per vedere se i vostri progetti possono diventare realtà. Ecco, amici miei, questa è la prima storia. Poi? E poi le difficoltà, naturalmente. Non è che tutto sia andato liscio. Io mi ricordo, sapete, quando, agli inizi, ogni giorno avevo i carabinieri a casa, al mattino i carabinieri e di sera la polizia. Un giorno sono stati là tutta la giornata, hanno sfogliato tutti i libri nella speranza di trovare droga. E quando approdammo ad Amelia nel 1979, un giorno vennero 30 carabinieri guidati dal capitano e circondarono tutto l’edificio; il capitano con un calcio ha sfondato la porta ed è entrato con la pistola in pugno. Un giorno terribile quello, mi ricordo i ragazzi ammassati al muro, tenuti sott’occhio con i mitra spianati, faceva freddo, io sono andato per stuzzicare il fuoco e un maresciallo ha detto ad un carabiniere: "Guarda che il prete non butti la droga nel fuoco". Povero prete, una droga portava, ed era quella dell’amore, vorrei darla anche a voi oggi, lasciarvela come retaggio, ragazzi che m’ascoltate. Questa è la storia, capite? Dio ti accompagna nella vita, Dio ti trova e non ti abbandona. Io credo nei segni di Dio, Dio che ci è vicino, Dio che ci parla, che ci guida. Com’è possibile pensare che Pierino, un bambino che a 11 anni aveva il sillabario in mano e andava a pascolare le mucche di papà, mentre studiava, sia stato preso da Dio per i capelli e trasportato nel favoloso Siam. Quando sono entrato in quelle carceri, ho chiesto la liberazione dei nostri ragazzi che erano là, dicendo: "liberateli io porterò in Italia i vostri". Con i ragazzi liberati mi sono portato in Italia 25 tossicodipendenti tailandesi. Ora, dopo tre anni, stanno ritornando nel loro paese come operatori.

La nostra comunità non appoggia la sua forza sui tecnici, non li esclude, non nega il loro ruolo, ma il ruolo principale è di coloro che sono usciti dalla droga. Sono questi che diventano elementi di riferimento, punta di diamante, diventano una guida per i loro amici. Tutte le nostre comunità sono gestite da ragazzi ex-tossicodipendenti e questi ragazzi hanno una capacità incredibile di persuasione. Quando qualcuno trema o tentenna, c’è subito la loro lezione. Molti non credono che questi ragazzi siano stati tossicodipendenti, perché li vedono così generosi, così bravi, così impegnati in un lavoro di questo tipo che pensano si tratti di una mistificazione. Invece questo è il loro grande esempio: "Guarda, se ce l’ho fatta io, perché non ce la puoi fare tu?". Ecco perché la comunità può espandersi in questa maniera. Non è vero che la nuova legge sulla droga sia repressiva, non è vero che penalizzi i tossicodipendenti. Io da 28 anni mi batto per loro e mi sento offeso quando i chiaccherologi affermano che noi vogliamo la punizione dei tossicodipendenti. E’ solo chiarezza; un giovane deve sapere se sbaglia e noi non lo condanneremo se sbaglia, gli daremo la possibilità di recuperarsi, lo aiuteremo senza porre condizioni, ma deve sapere che drogarsi è illecito, non può essere un diritto come la casa, come il lavoro, come la scuola, come la salute. Noi respingiamo la subcultura della droga, la cultura dello sballo, noi lottiamo per la cultura della vita. Ragazzi di CL, voi siete stati sempre i difensori di questa cultura, sentitelo come un impegno davanti a Dio e davanti agli uomini, non vi arrendete, vi prego in nome di Dio, fate quadrato attorno a noi quando vogliamo difendere l’uomo nella sua dignità, nella sua grandezza. La Regione Lombardia in una sua disposizione ha stabilito che per ogni cinque ragazzi ci debba essere uno psichiatra, uno psicologo. Il servizio pubblico faccia pure quello che vuole, ma io concepisco la comunità sempre meno terapeutica e sempre più un movimento di vita, scuola di vita. Le istituzioni non possono vanificare il ruolo delle comunità. Dove erano loro quando noi ci esponevamo? Dov’erano quando nessuno sapeva niente, dov’erano quando, soli, sfidando uomini e avvenimenti, senza una lira, noi andavamo allo sbaraglio? Quando ero con l’acqua alla gola perché mi servivano 30 milioni e tutti mi chiudevano le porte in faccia, ho venduto tutti i mobili di casa mia e i mobili di mio zio vescovo che erano belli. Alla fine avevo solo il mio calice, era fatto con tutto l’oro di mio padre e mia madre e nei nodi c erano gli anelli di matrimonio del papà e della mamma. Sotto era incisa una scritta: "Il nostro amore e l’amore di Dio ti hanno fatto sacerdote". Ero titubante, ero incerto, ma un mio ragazzo mi ha battuto la mano sulla spalla: "Fallo Don Pierino anche se ti costa, i tuoi genitori lassù saranno felici, lo fai per noi". L’ho fatto con dolore, ma sono felice, perché in quel momento la mia comunità diventava il grande altare sul quale io offrivo il sacrificio di questo impegno, questo sacrificio d’amore. Quando la gente mi chiede come faccio ad andare avanti e vuol sapere chi mi finanzia, rispondo che vado avanti con le promesse dei politici e con i soldi dei poveri. Sono deciso, l’ho detto al ministro Rosa Russo Iervolino, a rifiutare i soldi dello Stato se lo Stato ci porrà vincoli tali da snaturare le ragioni e le funzioni della comunità, non li vorrò, chiederò aiuto alla gente che ci ama, chiederò aiuto ai poveri, ma non vorrò rinunciare a questo, è un impegno per la mia vita, è un impegno amici miei. Perché non saranno certamente gli psichiatri a risolvere certi problemi. Io ricordo sempre ai ragazzi che "per caso" è un prete ad occuparsi di loro, però io non sono un prete per caso, ho scelto d’essere prete e voglio essere prete fino in fondo, vicino a loro. Non li obbligo, non impongo la fede, ma la propongo. Io parlo di Cristoterapia, mi meraviglio di sacerdoti che credono di più nella psicanalisi e nella psicoterapia piuttosto che nella Cristoterapia, che non ha nulla da invidiare a tutte queste forme, perché la fede è un grande dono, la fede è un grande mezzo, la fede è un grande strumento. Vi parlo ora di un altro problema, l’AIDS: 1800 ragazzi sieropositivi in comunità, 107 malati terminali. I nostri ragazzi muoiono di AIDS, la gente discute, li respinge, nemmeno i parenti, i genitori li vogliono in casa. Mi ricordo quando Giovanni Terranova morente, il giovedì santo dell’anno scorso, a Messina, ha detto: "Voglio vedere il Don". Sono andato, il primario mi ha portato una mascherina e dei guanti. "Non voglio guanti, non voglio una maschera, voglio vederlo in faccia e abbracciarlo come quando era in comunità. Giovanni mi appartiene, non mi conoscerebbe così". Amici, è morto serenamente mentre gli parlavo di Dio. Di lì è nata la mia decisione: io voglio offrirmi come cavia per esperimentare il vaccino contro l’AIDS. Non so se riuscirà, non so cosa farò, non me ne importa, vivrò per loro, morirò con loro, lo sento come un dovere. Amici miei, quando vedete questi ragazzi per le vie della città, non li disprezzate, vi prego, fermatevi con loro, date un po’ del vostro tempo, non del vostro denaro, il denaro verrà dopo come frutto d’amore, ma prima date il vostro tempo, la vostra attenzione, il vostro cuore perché non siano soli. Sicuramente potremmo dire tante cose per condannarli, ma questa è la maschera della prudenza che nasconde invece l’egoismo.

In conclusione al suo intervento, Don Gelmini legge alcune lettere tratte dal libro della droga di G D Ercole. Dopo l’asco1to di due canzoni scritte da Lauro, un ragazzo che ha vissuto l’esperienza della Comunità Incontro, prende la parola Aldo Brandirali per un breve intervento. A conclusione dell’incontro, Josè Bendini annuncia la nascita della Associazione Pio Carosi, frutto della collaborazione tra la Comunità Incontro e la Compagnia delle Opere. L’Associazione curerà l’inserimento nella società dei giovani che escono dalle comunità di Don Gelmini.