La memoria forza della storia.
Omaggio a Eugenio Corti

Mercoledì 25, ore 18.30

Relatori:

Massimo Caprara,
Giornalista e Scrittore

S. Ecc. Mons. Alessandro Maggiolini,

Vescovo di Como

Ettore Bernabei,
Presidente Lux Vide

Davide Rondoni,
Scrittore

Eugenio Corti,
Scrittore

Caprara: Ho accettato con entusiasmo e con impegno di partecipare a questo incontro per due motivi. Il primo motivo è il fatto che sento personalmente la necessità di rendere omaggio a questo autore così denso e così schivo; di rendergli omaggio per il magistero professionale, per la sobrietà e la lucidità delle sue opere di saggistica e narrativa. La scrittura classica dei suoi libri, lo spessore qualitativo delle sue opere, il sapore manzoniano che circola nella sua scrittura e nelle sue pagine, sono veramente apprezzabili. Occorre aggiungere poi che l’arco temporale del suo romanzo, Il cavallo rosso, dal 1940 al 1974, è lo stesso della generazione alla quale anch’io appartengo. È l’arco di una generazione difficile, responsabile, parzialmente colpevole, parzialmente complice, e oggi parzialmente impegnata a rivedere se stessa e a interrogare se stessa. Corti quindi affronta assai da vicino un’epoca che mi è particolarmente congeniale.

Recentemente ho avuto occasione di leggere e di scrivere a proposito del suo ultimo libro, Processo e morte di Stalin, racconto di una vicenda drammatica. Vi ho trovato elementi reali, di stampo shakespeariano, della figura di Stalin e della sua epoca. Mi ha colpito soprattutto il continuo contrappunto tra l’amara e tragica solitudine dell’uomo Stalin, dittatore e assassino, e la trepida paura, ma anche fermezza e chiarezza di sé, della nuora di Stalin, Olga. Corti attinge alle origini della tragedia del mondo attuale e del mondo moderno, tanto è vero che egli parla, a un certo punto, della mitologia della tragedia del mondo occidentale; parla di Edipo, di Oreste, delle origini del dramma, della cattiveria, della persecuzione, del male che è profondamente radicato nell’uomo e che fu profondamente radicato anche in Stalin.

Un episodio importante riguarda il figlio stesso di Stalin, ufficiale tenente di una batteria di artiglieria, prigioniero dei tedeschi. I tedeschi proposero uno scambio di prigionieri fra questo tenente e un generale; Stalin rispose a questa proposta, a questo invito, in modo lapidario, cinico: "Non possiamo accettare questo scambio perché non si effettua uno scambio fra un generale di divisione, tedesco ed un tenente di batteria, russo". In questa battuta è racchiusa la drammaticità della persecuzione, dell’auto persecuzione: una persecuzione che evidentemente egli impose all’intero mondo sovietico compresi i suoi famigliari. Un altro personaggio di cui Corti parla è Laurenti Beria, uno dei più spietati agenti della polizia segreta sovietica. Egli, nel momento in cui il dittatore viene colpito dall’emorragia e cade nell’ufficio del Cremlino, appena lo vede caduto, disteso per terra, prossimo alla morte, improvvisamente scoppia e drammaticamente urla: "Siamo liberi!, compagni siamo liberi!". Dopo queste parole, il più fedele, il più tenace, il più drammatico esecutore della dottrina di Stalin – qui veramente la scena è shakespeariana – vede improvvisamente il braccio del moribondo alzarsi. Si getta allora ai piedi di Stalin e dice: "Padre, padre, scusatemi ho sbagliato! Ho peccato!". Questo è il dramma che c’è nella storia di questo impero, nella storia di questi uomini. La drammaticità mista alla verità, perché poi la fine di Beria, all’indomani della morte di Stalin, fu quella di essere immediatamente accusato dagli altri membri del Politburo sovietico. Crusciov, complice e denunziatore di Stalin, raccontò, ricordo di averlo sentito direttamente dal personaggio, a Giancarlo Pajetta, capo della delegazione del Partito Comunista Italiano all’indomani della morte di Stalin, che per disfarsi di Beria, dovettero strangolarlo. Subito dopo si fece un pubblico processo, Beria fu trascinato davanti ai magistrati militari guidati da un nefasto procuratore e fu condannato; ma non era più Beria, era un sosia. Questa è la storia di questo periodo, questo è il dramma di questo periodo. L’omaggio a Corti è l’occasione per parlarne.

Vi è poi un altro motivo che mi incoraggia a parlarne: la memoria come forza della storia. Per quanto mi riguarda, in questo periodo mi sto accingendo doverosamente a testimoniare questa memoria, pro veritate, per quello che so, per quello che ho vissuto, per quello che ho compiuto. La memoria come forza della storia è l’elemento che io condivido profondamente, ed esercito in modo diverso e forse meno nobile rispetto Eugenio Corti, ma con lo stesso impegno e con lo stesso sforzo di lealtà e di verità. Per molti anni, esattamente dal 1944 al 1969, anno dell’espulsione dal Partito Comunista Italiano, ho fatto parte della nomenclatura del partito. In nome di questo partito sono stato sindaco della mia città, consigliere comunale, deputato al Parlamento per più di quattro legislature. Ora mi trovo nella necessità di confessare e di giudicare me stesso. Di questo periodo del quale parla abbondantemente Il cavallo rosso, non mi assolvo. Ho anche scelto di fare qualche cosa di più: di non assolvermi, ma neanche di fustigarmi sterilmente piangendo su me stesso. Si tratta di una cosa diversa perché ho vissuto con passione le scelte di quei tempi, io ho creduto in queste scelte, io ho patito e sentito l’errore, l’inganno, la colpa di questo periodo e credo che sarebbe vile, falso e inutile se mi limitassi a compiangermi.

Questo mio passato può essere utile a tutti, perché purtroppo il comunismo nel mondo non è morto, ma è soltanto fallito. Il comunismo appartiene, come interpretazione della vita, non soltanto al punto di vista dei partiti e dello Stato, ma ad una concezione che ancora abbiamo dinanzi e dobbiamo combattere; l’unico diritto che io ho, quindi, è di non tacere.

C’è un personaggio di Stendhal, Fabrizio del Dongo, che non si accorge di essere stato accanto a Napoleone quando ne parla. Al contrario io mi sono accorto di essere stato accanto a questo Napoleone dell’orrore che è stato Palmiro Togliatti. Scrivo allora per raccontare di questa vicinanza, che mi ha toccato profondamente. Per questo io spero di essere accanto alle origini spirituali di ciò che scrive Eugenio Corti, di ciò che scrive questo narratore che va così vicino alla verità tragica, shakespeariana del mondo comunista.

Infine sono profondamente d’accordo con lo spirito con il quale Corti parla del comunismo e della caduta del mondo sovietico perché non voglio appartenere a quella schiera di sociologi della storia che a proposito del crollo del comunismo parlano molto ma dicono poche verità. Il crollo del comunismo fu dovuto certamente ad un sinistro scricchiolio della struttura statale dell’ex Unione Sovietica. Il primo grande repressore violento della richiesta di autonomia delle Repubbliche baltiche fu Gorbaciov, non fu Stalin. L’impero comunista cadde certamente per un fallimento della struttura dell’economia accentrata, dell’economia pianificata; l’impero sovietico cadde senza dubbio perché vinto, perché impossibilitato a sostenere la competizione dello scudo stellare, cioè la competizione dell’armamento atomico. Certo queste furono ragioni. Ma prima di tutto, il crollo dell’impero comunista, come sostiene giustamente Corti, fu dovuto soprattutto ad un’insorgenza dell’uomo, della coscienza dell’uomo. Questo è quello di promettente che c’è oggi nella storia del comunismo passato, ma non sepolto. La crisi dell’impero sovietico fu a mio parere un’insorgenza metastorica e fu nello stesso modo una vittoria delle spirito. Fu preparata da anni di clandestinità, di opposizione, di sacrificio, di persecuzioni: un’insorgenza e una libertà che nessuna dittatura, che nessuna violenza non ha mai potuto, né potrà mai, sommergere.

Maggiolini: Per primo ho steso una recensione a Il cavallo rosso su quell’autorevolissimo giornale, letto però solo da schiere angeliche e cardinali in pensione, che è L’osservatore romano. In quell’occasione esprimevo la mia meraviglia perché trovavo che il libro valeva un'opera d’arte. Seguendo poi la vicenda del romanzo, arrivato alla tredicesima edizione, ho costatato che non ha ancora ricevuto una recensione dall’ambiente laicistico italiano. Corti è un caso, perché altrove è stato tradotto, è stato discusso, mentre in Italia non è stato ancora preso in considerazione.

Corti non ha fatto solo opera apologetica contro il marxismo: ha espresso la vita di ogni giorno, quella vita che ha dentro i valori che sono cristiani e umani. In questo senso non è semplicemente inviso al marxismo, ma anche all’ideologia radical-chic. Egli non si è perso, come talvolta si fa tra cattolici, per vedere se fosse uno scrittore cattolico o un cattolico scrittore: è un cattolico che si è messo a scrivere e si è accorto che la poesia se l’è trovata fra le mani. Tant’è che, proprio nella prima recensione che avevo steso, i nomi a cui ero ricorso come paragoni erano Tolstoj, Manzoni e Bacchelli. Il cavallo rosso può essere collocato sul piano de Il Mulino del Po, perché ha una capacità enorme, sia di ritrarre l’aspetto lirico della vita, sia di ritrarre quello epico; la prima parte racconta il tran tran trasfigurato dalla poesia di una paese della Brianza, poi c’è l’intera epopea di un popolo, o se si vuole, l’intera tragedia di un esercito in disfatta, orrori continuamente trasfigurati dalla capacità di lettura artistica dell’autore.

Abbiamo in Italia autori che ogni anno sfornano un libro, come gli starnuti non repressi, mali di stagione; quando si trova un romanzo che vale la pena leggere, occorre non perdere l’occasione. Per questo motivo, personalmente, non mi sono perso nemmeno gli altri lavori di Corti, anche perché rappresentano una magistrale descrizione del mondo cattolico. Ci si accorge che in fondo si vorrebbe ricostruire un mondo cattolico, ma che c’è una divisione all’interno di questo mondo; si avverte la pesantezza di un messaggio che è pienamente umano, ma che comincia ad essere temuto come motivo di vergogna. Questo significa che, in fondo, dentro il contesto di una vita e di una convivenza umana profondamente ispirata dalle motivazioni religiose, c’è l’irrompere di una ideologia, seguita da un tentativo di ripresa. Una ripresa che non è del tutto riuscita e, comunque, annuncia anche difficoltà come nel ’74 e nell’81, in occasione dei referendum su divorzio e aborto.

L’ultimo aspetto voglio sottolineare è che Corti facendo poesia invita a un impegno cristiano, fa capire che la gente non ha bisogno di strutturarsi come gli intellettuali aridi ed individualistici, ma ha bisogno di un tessuto connettivo che strutturi una comunità cristiana in cui ci si sostiene, ci si aiuta e si propone la verità dell’uomo. L’opera di Corti è, quindi, anche un’opera eminentemente politica, parla dell’uomo e pone dentro l’uomo delle idee generatrici di un tipo di convivenza che non può non essere diversa dalla convivenza forzata di tipo marxista o dalla convivenza anarchica.

Bernabei: Eugenio Corti è un uomo che crede in Dio, e i suoi personaggi sono creature di Dio: ecco la sua posizione fondamentale. Così si spiega il "caso" Corti, cioè il silenzio fatto intorno a lui e alle sue opere di così grande valore letterario e poetico: una cultura ufficiale che si pretende monopolista ha deciso che Dio non esiste, non che è morto. Di recente è stata fatta un’inchiesta negli Stati Uniti dalla quale è emerso che mentre i telespettatori in maggioranza hanno dichiarato di credere in Dio, tra i professionisti dei mass media la percentuale si abbassava al 7%. Questo significa che i comunicatori, e l’Italia non è distante dagli Stati Uniti in questo, si arrogano il diritto di ignorare quello che la gente pensa, cosa crede la gente. Ecco perché la critica ufficiale ignora Corti.

Questo vergognoso silenzio riguarda tutti noi, riguarda la nostra vita. Le piazze telematiche hanno addirittura processato tanti uomini di fede, pensiamo ai politici della Democrazia Cristiana, a cui non è stato riconosciuto nulla del positivo che avevano fatto. Mi sono reso conto che però non ci si può illudere di riparare a tanti errori subiti con manovre politiche; solo facendo quello che ha fatto Corti i cattolici potranno riacquistare il diritto ad esprimere una leadership di pensiero. I giovani soprattutto, come ha sempre fatto lui, devono rendere testimonianza di quella che è la realtà del mondo, la realtà dell’uomo, dell’uomo creatura di Dio, dell’uomo che sta ogni momento di fronte al Mistero di Dio. Grazie a Dio basta avere il dono dell’intelligenza ed esercitarlo con coerenza e coraggio.

Oggi la politica conta poco: la finanza e soprattutto la comunicazione costituiscono il vero potere. In questo ambiente i giovani cattolici devono impegnarsi. A me resta l’impegno di trovare un’emittente televisiva disposta a trasmettere un romanzo-sceneggiato tratto da Il cavallo rosso. È finito il momento di lamentarsi, di dire che gli altri ci impongono modelli sbagliati, che la televisione non va bene; occorre che si faccia della buona televisione.

Rondoni: Dirò brevemente un paio di problemi che la lettura, che sto ancora facendo, dell’opera di Corti, mi ha proposto; sono problemi che riguardano la natura stessa dell’opera d’arte e il suo rapporto con il mondo.

Innanzitutto molti critici parlando di Corti usano spesso la parola respiro. A ben pensarci, in uno scrittore, narratore o cantante, il problema del respiro è fondamentale. Esso riguarda non solo la capacità di tenuta, che in uno stile, in una proposta letteraria è importante, ma significa anche individuare l’origine da cui il fiato è preso, da dove viene l’energia del dire e del trovare le parole. Da dove prende il suo respiro Corti? Perché ha respiro? Dentro tutta la capacità polemica, nel senso alto del termine, dell’opera di Corti, sta questo aspetto di un respiro che nasce da qualcosa di gratuito, di non ben comprensibile. Tintori, ne Il cavallo rosso, dice: "I muli, le navi e tutto ciò che esiste mi piace". Questo è proprio di ogni artista: c’è qualche cosa che nelle parole solite, "muli", "navi", c’è qualche cosa che sostiene queste parole e non si sa cos’è, un respiro, il proprio respiro.

Un famoso traduttore dei salmi in lingua francese ha usato un’espressione che mi ha molto colpito: "Non sono le parole che hanno senso, ma il senso che ha parole". Operando questo rovesciamento, che è il contrario di tutta l’ipotesi strutturalistica e pseudo-linguistica della nostra letteratura contemporanea, si afferma che le parole sprofondano in qualche cosa che le precede. A differenza di tanta narrativa e poesia contemporanea Corti ha una straordinaria figliolanza, consuetudine e confidenza con il senso, con il fatto che il mondo ha un senso. Questa è un posizione assolutamente contro corrente. La maggior parte della letteratura del secolo dice al mondo: io non ti voglio. Un grande poeta e maestro, Mario Luzi, diceva con molta acutezza, già nel 1938, che la lettura contemporanea sembra nascere da una delusione. Corti non scrive perché è deluso dal mondo, ma esattamente perché il mondo, la realtà in qualche modo pur piena di tragedie, piena di dramma, è corrisposta al suo desiderio umano.

Claudel si chiedeva molto acutamente come mai all’interno della Chiesa e del mondo cattolico, facciano fatica spesso a venire fuori opere d’arte che non si riducano a mera apologetica o a qualcosa che ha una sorta di gusto del dolciastro, come se l’artista cattolico fosse meno degli altri. Non ci sogniamo di chiamare Caravaggio un pittore cattolico, è un pittore e basta; non chiamiamo Michelangelo un pittore cattolico o Dante un poeta cattolico. Non può essere che per una mancanza di devozione che i cattolici non hanno uomini di genio. Forse la Chiesa non sa più bene cosa è, cosa è lei stessa, non riesce più a proporre ai suoi uomini, alle persone che guardano a lei, qualcosa di così vero, di così provocante, di così pacificante con il mondo, di così profondo per il rapporto con il mondo tale per cui possano nascere opere d’arte. Flannery O’Connor sosteneva che la Chiesa è l’unica cosa che rende sopportabile questo mondo. Se la Chiesa perde questa coscienza difficilmente possono nascere opere d’arte, che, come nel caso di Corti, possono esprimere lo straordinario respiro al tempo stesso di un individuo e di un popolo intero.

Corti: Ho pensato di concentrare un possibile discorso in una risposta ad una domanda che, ogni tanto, mi sento fare: cosa, più di ogni altra cosa, mi ha guidato e determinato nel lavoro?

Il mio rapporto con il testo mi dà l’impressione di essere un povero e umile creatore. Durante un lavoro creativo, quando, per esempio, ritraevo dei personaggi del mondo cristiano della Brianza, partivo da personaggi reali e li perfezionavo. Ad un certo punto credevo che il personaggio rivivesse, era veramente così; poi bastava staccare l’occhio dalla riga e subito, questo personaggio, svaniva. Mi veniva allora spontaneo il confronto con la Parola, la seconda persona della Trinità, che è l’espressione, il Logos, la Parola di Dio che ha creato tutto. Le cose create sono rimaste e rimangono, mentre nell’opera dell’artefice che scrive le figure non durano che brevemente, con le parole non si possono creare altro che spettri.

Il vero motivo per cui scrivo è, però, un altro: mi sento un soldato. Lo so bene che tutti noi siamo soldati, militia est vita hominum super terra, ma io mi sento un soldato razionalmente parlando. Non avrei dovuto sopravvivere alla ritirata di Russia: è stata una strage tale, così spaventosa, così grande, che se le cose andavano secondo la razionalità, non ne uscivo; invece, ne sono uscito. Mi sono chiesto il perché e sentivo che ero stato lasciato vivere per qualche precisa ragione: dovevo continuare a combattere per il Regno.

Niente più del romanzo, quando è di qualità, riesce a rendere conto ed ad illuminare la complessità del reale, descrivendo contemporaneamente la dimensione storica, sociologico, psicologica e spirituale di tutto il fenomeno umano. Questo il motivo della scelta dello strumento per combattere. Manzoni, dopo aver scritto il più bel romanzo storico italiano, ha condannato il romanzo storico, dicendo: "Non è della fantasia nel riferire di un’epoca storica, è una cosa che indebita". Così ha scritto la Storia della colonna infame, una breve storia di grande vigore. Tutti però hanno idea della peste di Milano e di cosa sia la pestilenza come grande calamità per l’umanità, proprio per il romanzo de I promessi sposi. Manzoni si è smentito da solo: è il romanzo e non l’opera storica ad aver reso il fenomeno storico.

Attraverso i miei personaggi ho tentato di reinvestire dei territori che si credevano perduti per sempre dal cristianesimo: l’esercito, l’arte, la politica e l’economia. Con Il cavallo rosso è tutta la storia ad essere cristianizzata. Infatti, mettendomi all’opera come scrittore, volevo anche stabilire il confronto tra la normalità della visione cristiana in tutti gli aspetti della realtà e l’anormalità della secolarizzazione atea.