"Si può (veramente?!) vivere così?"

Giovedì 22, ore 16.30

Relatori: Giancarlo Cesana
Stefano Alberto,
Docente di Introduzione alla
Teologia presso l’Università
Cattolica di Milano

 

Alberto: Ho avuto la fortuna di partecipare alla maggior parte degli incontri che sono all’origine di questo testo, che non è altro che la trascrizione fedele dei colloqui che si sono svolti negli ultimi due anni, dal ‘94 al ‘96, tra don Giussani e un centinaio di giovani decisi ad impegnare la propria vita con Cristo, in una forma di dedizione totale. La base di questi incontri è stata un altro testo, Si può vivere così?, uscito due anni fa. Ma questo nuovo testo, Si può (veramente?!) vivere così? non è semplicemente un approfondimento, o non contiene semplicemente delle aggiunte rispetto al testo originale. È tout court una cosa nuova, anche se la struttura, i temi in esso contenuti ricalcano in gran parte quelli del testo di due anni fa.

Questo testo è l’esito di un modo di concepire la scuola come un imparare, passo dopo passo, il linguaggio nuovo della verità delle cose. È una passione per il destino dell’uomo, passione che è una persona, Cristo, comunicata attraverso una amicizia. Questo testo non ci sarebbe senza l’amicizia di chi ha comunicato, l’amicizia di chi ha ascoltato, l’amicizia di chi ha paragonato quanto veniva detto con la propria vita, l’amicizia infine di chi ha trascritto, di chi ha raccolto parola per parola quanto via via emergeva: "Due amici a cui si aggiunga la compagnia di una persona, che già da un po’ di tempo è abituata a guardare le cose in un certo modo, a leggere le cose ripetendole, ripetendole scandendo le sillabe delle parole più importanti" (p. 5). La verità non è una comunicazione astratta, ma una passione che si comunica da un io a un tu, che diventano così un soggetto nuovo, un noi. Questa è una delle caratteristiche del modo con cui don Giussani, fin dal primo giorno di insegnamento, ha inteso la sua vita, spesa a comunicare la passione che lo aveva mosso. Non è un caso che descriva l’inizio del suo lavoro al Berchet proprio come amicizia.

Il libro è dunque la testimonianza di una passione per l’uomo, per la vita di ragazzi, di studenti, di giovani lavoratori afferrati da Cristo sulla via di una dedizione totale a Lui; ma non è un libro riservato a coloro a cui Dio ha dato questa vocazione particolare. È un libro che chiunque ha a cuore la propria vita può leggere con conforto e con utilità, perché testimonia il valore dell’esperienza cristiana e non solo della strada di coloro che sono chiamati alla verginità. La vocazione della vita non è una cosa astratta, è invece ciò che assicura una corrispondenza con le esigenze del cuore, assicura una corrispondenza alle esigenze di questa vita.

Il sottotitolo di questo testo potrebbe essere "parole che ci legano a Cristo: fede, speranza, carità". Comprendere che cosa significano queste parole e i corollari che ne scaturiscono significa creare già l’impalcatura che tutta la vita renderà luminosa e attraente. Luminosa e attraente per l’intelligenza autentica dell’uomo, per l’uomo che si riconosce fatto per il vero, per il bello, per l’amore e per la felicità. Da fede, speranza e carità, c’è sempre un nesso immediato con l’umano. Fede: libertà e obbedienza. Speranza: povertà e fiducia. Carità: sacrificio e verginità. Queste sono le parole che legano a Cristo.

Il Cristianesimo non è delle cose da fare, delle leggi da rispettare, ma una Presenza di cui stupirsi, una Presenza da riconoscere, una Presenza con cui parlare, una Presenza da mendicare. È un Tu che domina, non delle leggi. Gli apostoli sono stati colpiti e attratti da un Tu presente, da un Tu che mangiava e beveva con loro, da un Tu che si toccava i capelli quando c’era il vento, da un Tu che è stato messo in croce. È questo Tu il senso della storia. Dio come mistero lo pensano tutti, immaginandoselo ognuno in modo diverso. Qui, no. È una faccia, è una faccia che è Dio. Questo pensiero non è mai venuto in mente a nessuno in tutta la storia del mondo; nessuno ha mai osato dire: "Io e il Padre siamo una cosa sola", o "Senza di me non potete fare nulla". Nulla. Se il cuore dell’esperienza cristiana è una presenza, è un uomo presente, allora ci è chiesta la semplicità, una semplicità da bambini davanti a Lui. Infatti uno dei capitoletti completamente nuovi di questo testo si intitola proprio "Elogio della semplicità". Un altro capitoletto si intitola: "Mendicanza, non investigazione", perché per capire le parole occorre, se si vuole essere totalmente umani cioè totalmente ragionevoli, vivere quella che è la categoria più grande della ragione, la categoria della possibilità. La possibilità che queste parole diventino carne ed esperienza, che svelino allo sguardo stupito, attento e semplice, il loro volto.

La fede è il cammino che è fatto guardando, guardando chi è più avanti; è il cammino dello sguardo, non l’esito di una dialettica, non è la risoluzione immediata di tutte le domande che poni, perché una risposta immediata alla domanda che poni non la capisci. C’è da intuire a che cosa questa risposta si riferisce del tuo essere e della tua esperienza, che è diverso dal capire totalmente. La meraviglia è frutto dell’ignoranza quando uno non capisce nulla, ma la meraviglia è anche il vero frutto di quell’iniziale capire che rivela tutta la originalità e l’impossibilità di capire al momento. Qui entra in gioco un altro fattore, il tempo. Basta il tempo? No. Occorre la pazienza, cioè una iniziativa tua.

La semplicità di cui parla Giussani non è né la dialettica, né l’emozione, ma è l’apertura totale della ragione di fronte alla realtà, la povertà che non deve difendere nulla di fronte alla Presenza, il seguire la curiosità secondo cui la natura, cioè Dio, mette in moto il cuore. L’inizio di quella versione della curiosità più umana, più matura che è la domanda, senza predeterminazione, senza pretese. Semplicità è l’atteggiamento con cui Dio crea l’uomo di fronte alla realtà. Non è un momento della vita, non riguarda un momento della vita, riguarda il metodo con cui l’uomo è stato fatto per incontrare la realtà, cioè per incontrare il vero, perché il vero è la realtà conosciuta secondo la totalità dei suoi fattori. Questa semplicità che non è una passività, ma è l’iniziativa del cuore di fronte ad una vibrazione di verità della realtà, di quella presenza dentro alla carne, dentro alle circostanze, diventa memoria, riconoscimento di cristo nell’istante.

Cesana: La prima parte di questo libro – l’unica di cui parlerò, essendo l’unica che sono finora riuscito a leggere! – riguarda la ragionevolezza della fede, ed è un argomento che per inclinazione del mio temperamento mi affascina. Il Cristianesimo non è "vivere come gli altri, ma un po’ di meno". Cioè "donne, ma un po’ meno"; "televisione, ma un po’ meno"; "cinema, ma un po’ meno"; amici, ma un po’ meno... il Cristianesimo è invece una posizione umana che non rinuncia a niente dell’umano, soprattutto, come insiste don Giussani, alla ragione perché l’uomo è quel livello della natura dove la natura prende coscienza di se stessa. Non ci fosse l’uomo, tutto quello che esiste non saprebbe perché esiste, non avrebbe consapevolezza.

Don Giussani comincia in modo molto discreto: "Mi son detto: "Ma questi ragazzi non si sono mai posti il problema che una cosa per essere umana deve essere ragionevole"" (p. 11). Insomma: Don Giussani ha scritto Si può vivere così? (400 e rotte pagine!) e ora Si può (veramente?!) vivere così?, per fare appello alla ragione, per favorire il pensiero dell’uomo e dare così una risposta positiva a quanto si chiedeva Paolo VI: "A volte mi domando se ai cattolici Dio ha dato l’intelligenza per usarla o per farne olocausto". Quello che possiamo fare per educarci tra di noi è darci le ragioni e l’evidenza di ciò che viviamo perché "il ragionevole è ciò che qualifica l’umano, che distingue l’uomo dalla bestia" e "se ammetti le ragioni, poi sei fregato: devi seguire!" (p. 11). Poi c’è il mistero della libertà, perché non possiamo costringere l’altro, possiamo solo metterlo davanti a un fatto, a una evidenza, a qualcosa a cui egli sia impegnato ad aderire. E se ti do le ragioni di quello che vivo, non puoi dirmi di no, non puoi negare che quello che dico è vero.

Quando parla di ragioni don Giussani comincia molto discretamente, non parte dalle ragioni di un grande discorso, ma dalle ragioni di qualcosa di diverso. "Diverso" vuol dire che non l’ho fatto io, che non viene da me: la novità presuppone per sua natura una diversità da me. Qui si inserisce anche il concetto di corrispondenza, la corrispondenza con qualcosa di diverso e di meglio, qualcosa in cui io ritrovo la mia vita e la mia esigenza in termini migliori. La ragionevolezza comincia da qui: da qualcosa di diverso e di meglio a cui ci si avvicina, cioè ci si approssima. C’è una necessaria approssimazione nell’affrontare la strada della vita, "è come un avvicinarsi, un andare avanti a tastoni nella nebbia, è come un sottile rischiare, sia pur provvisorio" (p. 22). "L’uomo vive la realtà come uno che entra nella nebbia e vede da lontano una certa ombra: è avvicinandosi a quell’ombra, scrutando quell’ombra che capisce che è un cavallo, non più un bue, ma un cavallo" (p. 48). Questo diverso e meglio che dapprima si avvicina come un’ombra, assume successivamente i suoi contorni, la sua forma: qui sorge il problema della vita, il rischio. La vita è un rischio. Giobbe addirittura diceva che è una guerra, vita hominis militia est. Un rischio non è giocare alla roulette, come istintivamente penseremmo, ma aderire a ciò che si vede come ragionevole, cioè come corrispondente. Perché aderire a ciò che si vede come ragionevole e come corrispondente è percepito come rischio? Perché è diverso da te: devi metterti in qualche modo nelle mani di un altro, per questo lo senti come rischio. Ed è questo che ti paralizza. Il problema della moralità è tutto qui, nell’adesione alla verità e nell’accettare il rischio di aderire a ciò che si vede come positivo.

Don Giussani insiste sulla ragione: "E specialmente il mio carattere si sofferma fin troppo nel voler chiarire la ragione! Per questo, mi ricordo, il figlio di Manzù, che era mio scolaro, in terza liceo una volta si alzò e mi disse: "Ma questa religione È una religione troppo pesante, troppo complicata! Va alla ricerca di complicazioni, di ‘ragioni’. Invece la religione è semplice, carica di sentimento...". Sì, come quella religione che sta perdendo tutto il mondo, sta perdendo da ogni parte, che ha perso da ogni parte, ha perso tutti! È la ragione che stabilisce il sostegno, la colonna di sostegno del cielo – cioè del divino – che sta sopra la terra" (p. 24).

In questa esigenza di ragionevolezza, in questa esigenza di scoprire una corrispondenza a cui aderire, comincia a svelarsi il piano di Dio: uno comincia a capire di che struttura è fatto. Dio crea l’uomo come promessa, e l’uomo attende come risposta: questi sono i due piloni già della religiosità ebraica. In questo senso l’uomo è permanentemente domanda. Ad un ragazzo che gli chiede: "Hai detto che, incominciando, è giusto domandare. Ma noi possiamo solo domandare?", don Giussani risponde: "L’unica cosa da cancellare è la parola ‘solo’: più di così l’uomo non può fare" (p. 34). L’uomo che attende il compimento della vita ha una sola capacità: quella di chiederla, di cogliere quella corrispondenza che la realtà manifesta al suo essere e di potervi aderire. Ad un ragazzo che, riprendendo la frase: "se noi riconosciamo le ragioni di una cosa, siamo come incastrati, dobbiamo seguirla", osserva: "Però questo non è automatico in me", don Giussani risponde che "le ragioni non ci incastrano nel senso meccanico e matematico del termine. Perché l’uomo è libertà! (...) È dunque la libertà il valore della ragione", ma di fronte alla manifestazione del vero "occorre un gesto di potenza infinita per ridurre al nulla ciò che c’è: la stessa forza che l’ha creato dal nulla. L’uomo non può annichilare niente, neanche un capello può essere distrutto. O s’afferma il senso positivo oppure uno disperatamente vive la sua anarchia con l’unico puro gusto di una irritazione alimentata, di un "No!" detto come lo dice il bambino piccolo, per rabbia, davanti alla caramella che gli do" (p. 36). Tutto il problema morale sta nella adesione, nel non dire no alla verità. Le ragioni di una certa proposta si manifestano infatti come "un viso porta in sé la sua bellezza o la sua bruttezza. Questa evidenza ha bisogno non di intelligenza, ma di moralità: tu sei e stai sempre più coscientemente nella posizione in cui ti ha creata la mano di Dio, che è quella del bambino. Perché il bambino ha gli occhi spalancati e dice "pane al pane e vino al vino" e non si pone il problema se è vero che sia pane, se è vero che sia vino" (p. 50). La moralità è il partire dall’evidenza del vero, cioè dall’evidenza con cui le cose, la positività del reale si manifesta: "il dubbio sull’evidenza è immoralità. C’è un’osservazione fondamentale: la ragione è esigenza di conoscere la realtà sperimentata secondo la totalità dei suoi fattori" (p. 51). Dobbiamo imparare questo metodo: si parte da un diverso e meglio a cui ci si approssima. Non c’è bisogno di avere studiato, perché questo diverso e meglio corrisponde, noi ci sentiamo fatti per esso. Rispetto a questo, il problema morale è solo uno: aderire. Dire di no è l’immoralità, è la negazione illusoria dell’essere.

C’è un aspetto in cui si capisce che l’evidenza delle cose a cui siamo chiamati ad aderire, a credere, viene veramente da Dio: "se l’attrattiva irresistibile apre a una prospettiva senza limite, allora è segno di Dio" (p. 53). Io sento la tua vita, e la sento affascinante e ti seguo solo per un motivo, perché non mi porti a te, ma mi porti a quello che tu segui: uno solo è il Signore! Non posso essere schiavo di un altro uomo. L’attrattiva deve avere come prospettiva l’infinito, quello per cui sento di essere fatto: questo è il principio della libertà. Non c’è compagnia, non c’è vera amicizia se si ferma a sé.

Quando l’evidenza del vero si manifesta, quando il positivo si approssima a te, "dà un colpo alla nostra coscienza; questo colpo, questo shock, in latino si dice – usando il verbo all’infinito – affici. La conoscenza implica un’affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus. La nostra anima è toccata" (p. 61).

La moralità è mettere i sentimenti nella direzione giusta, non lasciarsi fermare dall’istintività per aderire al diverso e meglio che si vede. L’uomo è fatto di libertà, la libertà è la sua anima. Ci dimentichiamo troppo spesso di questo perché viviamo in una società che ci fa pensare a noi stessi semplicemente come esseri reattivi, perché siamo continuamente stimolati a fare quello che ci pare, purché non disturbiamo gli altri e purché non imponiamo agli altri la verità di ciò che noi viviamo. Nessuno educa ad usare la ragione e la libertà, cioè a rendersi conto di un altro aspetto fondamentale, l’ordine della vita, la regola della vita. Chiede don Giussani: "Qual è la tappa più difficle del Giro d’Italia?" Risposta: "Quello dello Stelvio. Se uno, sperando di farla franca, taglia il disegno stabilito dai creatori del Giro (...) e arriva mezz’ora prima del primo: è squalificato. Perché non ha seguito l’ordine. È una parola strana la parola ordine. Perché viene da un cervello estraneo al tuo: è un altro che l’ha pensato" (p. 65). Per questo la vita cristiana è vocazione, chiamata ad aderire a un ordine non dettato da noi. Per tale ragione la dinamica che accade di più nella vita è il distacco. Non esiste niente che sia quantitativamente paragonabile al contenuto di questa dinamica. Tutto quello che abbiamo lo perdiamo, non possiamo pensare di mantenerlo in permanenza.

Il distacco non è ancora la dinamica più illuminante della vita. La dinamica più illuminante della vita è arrivare, il lasciare per arrivare. Questo fenomeno della vita è come un dinamismo che si strappa per andare a. Di fronte a questo ordine delle cose, a questo fascino positivo delle cose che noi non possiamo annichilire, possiamo solo aderirvi, essere bambini, mendicare. Noi, per una debolezza della mente esito del nichilismo e dello scetticismo di cui siamo invasi, non sentiamo tanto l’andare a quanto lo strapparsi da. Per sentire l’andare a ci vuole un allenamento, altrimenti non ci si strappa mai, e si perde sempre, non si è mai decisi.

Così don Giussani introduce, sempre dal punto di vista della ragione, l’ultima grande parola cristiana su cui si gioca veramente la domanda del titolo: l’obbedienza. Se l’uomo è fatto così, se la realtà è così, la verità è obbedire. L’uomo deve seguire un altro. Non siamo noi i padroni delle cose; il padrone è un altro e bisogna seguirlo.

Concludo citando una frase di don Giussani, che è umanamente fantastica e sorprendente: "La letizia è la verità ospitata dal cuore". La verità ospitata dal cuore, niente di sentimentale o di euforico; la letizia è la verità che può essere dura, come mordere un sasso, ma ospitata nel cuore, perché se si dà questa ospitalità al vero si è contenti.

 

 

L’incontro è stato preceduto da un saluto di Bruno Zanardi, restauratore, a nome personale e di Federico Zeri, Vice Presidente del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali e Accademico di Francia, assieme al quale avrebbe dovuto partecipare all’incontro "Splendori ed enigmi degli affreschi di Assisi".

Tale incontro non ha avuto luogo a causa di un infortunio occorso al prof. Zeri (n.d.r.).