venerdì 31 agosto, ore 11.00

IL RAZIONALISMO: UN ABITO PER SENTIMENTALI

Incontro con

Gianfranco Dalmasso

Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’università della Calabria

Tito Di Stefano

Titolare della Cattedra d’Istituzioni di Filosofia presso l’Università di Perugia

Modera:

Nevio Genghini

N. Genghini: Benvenuti a questa nuova tappa del Meeting. Il tema d’oggi è il razionalismo. Io credo che noi tutti possiamo convergere su questa definizione: il razionalista è quel tipo umano che non ha alcun dubbio sul fatto che le cose ci siano, che il mondo ci sia, ma è altrettanto convinto che a questo mondo, a queste cose, ai fenomeni che, accadono sotto i nostri occhi, non inerisca alcun significato autonomo. Egli è, cioè, persuaso che il mondo acquista un significato solo allorché l’uomo gliene imprime uno, solo allorché il soggetto imprime la legge della propria natura sulla realtà. Perché quest’approccio e sentimentale? Perché è esattamente, ad un diverso livello, ciò che succede ai bambini e in genere ai nevrotici, cioè costoro molto spesso scambiano il proprio desiderio per la realtà e allora rinunciano ad impegnarsi in quella faticosa, ma feconda opera d’accordo tra il proprio desiderio e la realtà, d’accordo tra il nostro sentimento, con quello che ci sta davanti per pretendere immediatamente che tutto ciò che noi sentiamo sia immediatamente soddisfatto dalla realtà senza ascesi, senza sacrificio, senza lavoro. Bisogna anche dire che quest’attitudine è oggi palesemente in crisi, questo costume di pensiero è sul punto di congedarsi, sopraffatto da tutte le delusioni che lo hanno appesantito. Oggi dunque delle ombre inquietanti si sono allungate sulla pretesa dell’uomo di imporvi il sigillo della propria soggettività alla realtà, così tutti oggi sono amabilmente disposti a concedere che il razionalismo sta tramontando, confessano disinvoltamente che è tempo di riconoscere che la realtà è più grande della ragione. Ma questo riconoscimento non è pieno di cuore, non è pieno di cordialità, è un riconoscimento amaro, deluso. Bene, contributi che oggi gli studiosi presenti a questa tavola rotonda presenteranno tentano di chiarire come si sia giunti a questa ammissione dolente della cultura moderna, ma fanno qualcosa di più, svelano come non sia possibile l’uomo rinunciare al proprio desiderio di cercare nella realtà una risposta adeguata alla propria domanda, come l’assillo di trovare una corrispondenza al proprio desiderio di carattere intellettuale o pratico, sia un assillo inestirpabile nel cuore dell’uomo e quindi che il vero lavoro umano sia quello di concordare il proprio cuore con la realtà. Coloro che ci aiuteranno a percorrere questo cammino sono alla mia sinistra il professor Gianfranco Dalmasso, professore ordinario di filosofia teoretica nell’università di Calabria. Alla mia destra invece il professor Tiro Di Stefano, titolare della cattedra d’istituzioni di filosofia presso l’Università di Perugia e d’etica presso l’Università Pontificia Antoniana di Roma. E' stato anche visiting professor presso la Columbia University ed è autore di svariate pubblicazioni; una delle sue più recenti fatiche è la creazione, ormai imminente, di un centro di studi Kirchegoriani d’alta specializzazione che avrà la sua sede presso la Pontificia Università Antoniana di Roma. Il professor Dalmasso interverrà per primo con alcune riflessioni intorno al rapporto tra la verità ed il bene, così come si è configurato nella storia del pensiero occidentale.

G. Dalmasso:

Ringrazio Genghini della presentazione e comincio senz’altro il lavoro di questa mattina, Un primo punto riguarda l'idea stessa di razionalità e sono preoccupato, nello sviluppare questo primo punto, di chiarire in che senso la razionalità non può essere considerata astrattamente, come un'idea che me ne faccio, in quanto la razionalità è un’attività vivente che ha delle scansioni sia storiche che teoriche. L’etimo latino di razio allude al gesto di misurare, prendere le distanze, le misure, dare dunque delle regole, regolarsi. Interrogarsi sulla razionalità significa, secondo questa identificazione etimologica e, se volete, metodologica, porsi il problema di misura, di che cosa si misura. Se questo atto potesse avere esito completamente riuscito, allora l’esercizio della razio risulterebbe un rapporto con le cose che potrebbe in qualche modo padroneggiare, ma fino a che punto, e con quale sicurezza? Una domanda simile non è da sempre esistita nella storia della civiltà umana, in un certo senso essa segue ad altro, segue ad una modalità del rapporto dell’uomo con la realtà data dall’esperienza arcaica di totale immersione nel cosmo, vissuto come contesto e come scena dell’esistenza; in un rapporto di conoscenza con le cose, basato sulla evocazione e sugli effetti di una parola magico-religiosa. Ci sono state cioè epoche in cui è esistita una parola efficace di tipo magico o di tipo religioso, che risponde alla mentalità per cui nominare una cosa è già in qualche modo intervenire, è già in qualche modo entrare in contatto con il potere e con l’energia che la costituisce, che l’anima è ciò che la fa muovere. C’è stata invece una parola che può essere guardata e cioè posseduta, misurata dal parlante. La parola come oggetto del discorso, questo momento che è approssimativamente fatto coincidere con l’interesse da cui nasce la filosofia presso i Greci. In questo processo si modifica anche la concezione del soggetto parlante o razionale, nel modo stesso di pensare se stesso come fattore di un ordine, come fattore razionale e pensante, e l’individuo razionale è concepito e praticato come avente il potere di, per così dire, oggettivare dei nessi tra le parole. Questo gesto funziona in quanto documenta una corrispondenza fra questo potere del discorso e il poter afferrare un ordine tra le cose. Si tratta qui del costituirsi della figura classica del problema del conoscere, che sarà poi simboleggiata dalle nozze baconiane fra la mente e l’universo. Questo modo di impostare il problema del conoscere e l’atto in cui si mette a fuoco la forma di un dominio, di un possesso cosciente, di un rapporto tra parole e cose, avvia al tempo stesso una concezione del soggetto conoscente costituito da un dislivello fra il potere di conoscere e ciò che strutturalmente e incessantemente va oltre. Questo dislivello nel linguaggio della tradizione classica ha come due poli, il sapere e la verità; la verità è ciò che va oltre e il sapere invece è questo incessante esercizio del potere di conoscere che si dà continuamente determinazioni, espressioni, ecc. E’ da notare che questo dislivello tra sapere e verità è già dall’inizio pensato in questa tradizione, come ospitabile dalla struttura del soggetto. Nel nuovo rapporto che si configura fra l’io e il linguaggio, si nasconde la nascita di una concezione della conoscenza come confronto con le cose in vista di un dominio che possa afferrarle, conservarle nella coscienza. Questo progetto di dominio non si è documentato storicamente come mera impresa titanica. Socrate, ad esempio, non pretende semplicemente di dominare con la parola la realtà nei suoi rapporti con la verità e Socrate, il Socrate che troviamo nei dialoghi di Platone, è passivo, non presume possedere lui la verità, la fa dire agli altri, fa dire ai suoi interlocutori come stanno le cose, come si manifestano, entrano in rapporto con sé; Socrate non pretende di possederle in proprio; questa trama attiva in cui la coscienza di Socrate è intessuta sfugge in certo modo ad un completo controllo cosciente. Socrate e i suoi interlocutori sembrano piuttosto compresi in un più grande movimento che è della verità stessa. Un secondo punto dovrà affrontare questa questione: il costituirsi della razionalità come fatto, com’esperienza, come ingranaggio, fa tutt'uno con il costituirsi dell’umanità come tessitura, ingranaggio, fatto, cioè il legame da cui nasce l'umano è imparentato strettamente con il legame che è la razionalità stessa. Le discussioni sull’origine della razionalità si sono intrecciate nella storia della civiltà con le discussioni sull’origine dell’umano, dal Protagora di Platone alla Scienza Nuova di Vico. L’uomo si è distanziato dalla situazione ferina, animalesca in forza di un avvenimento che da un lato è un raddoppiamento, un’immaginazione, cioè una coscienza dell’altro e quindi un senso della mancanza e dell'oltre ignoti all’animale, ma soprattutto questa distanza dall’animale si è costituita come intervento di un legame in grado di piegare le passioni e istituire un vincolo interumano, civile. Questo legame funziona prima che l’uomo ne abbia piena consapevolezza, questo vincolo cioè non si decide a tavolino. Per la concezione antica e medioevale dell’esperienza l’uomo è inserito in un cosmo, in una città i cui fattori e le cui linee egli non domina, in cui è piuttosto ospitato. Sia che il punto d’unità del cosmo sia concepito come un Dio provvidente o rivelato, sia che tale punto sia lasciato all’enigma, il progetto antico d’umano e di civiltà è lasciato, nonostante quello che si potrebbe pensare in base a letture superficiali, ad un’essenziale problematicità. Il sapere è stato concepito fino a tempi recenti come fragile rispetto alla forza di una realtà che lo precede. La connessione dell’uomo con la realtà è stata vista come necessità, e destinare in latino vuol dire l’arrestarsi di un movimento, la conclusione di un processo, un abbraccio che avvolge, domina l’avventura di rapporti, di conoscenza del soggetto umano con la realtà. Allora, ecco il terzo punto: il logos stesso dei greci, questa forma aurorale, fondamentale che ha determinato in tutta la storia del pensiero occidentale e il modo di pensare alla razionalità. Logos deriva da leghein che vuol dire raccogliere, oltre che porre, dire e l’idea greca di logos si è posta come tentativo d’avere scienza di questo legame. Massimamente con Platone, il Logos nasce insieme come relativo alla natura dell’umano e alla natura della città. Un vincolo che tenga, che resista, riguarda non solo l’unità che tiene insieme gli elementi del cosmo, le stelle, le montagne, le irregolarità delle stagioni, ma anche l’unità che, non meno miracolosamente, tiene insieme la città e impedisce che gli uomini si distruggano. Veniamo al quarto punto: è venuto il momento di interrogarmi sull’elemento che rende possibile, che funziona in questo legame, quest'attivo legare le cose, che è il logos. Per la mentalità greca antica che, come noto, ha poi influito e permeato di sé l’intero pensiero occidentale, il logos nel suo funzionamento è come cementato, è un elemento che non è possedibile nemmeno nella forma più sottile di possesso che è la visione, non solo fisica ma mentale e cosciente. L’elemento che rende possibile il logos, cioè l’ordine del mondo, la coscienza di esso, non è qualcosa di contemplabile, possedibile all’interno della coscienza e del discorso in cui la vita della coscienza si articola: questo fattore, questa "x" è al di là del discorso, lo trascende, si dice in filosofia, anche se lo rende possibile, lo avvolge, lo compagina. Questa "x" è classicamente il bene, Agaton, come lo chiamavano i greci antichi. Il bene, l’agaton come bene, non è affatto per la mentalità antica una nozione morale, cioè bene contrapposto a male, ma è l’energia che costituisce insieme, l’ordine delle cose e l’ordine del discorso; i greci hanno cioè una nozione ontologica del bene relativa alla forza rigeneratrice delle cose. Secondo questo modo di pensare, il criterio nel giudicare non riposa sul punto di vista che assicurerebbe al soggetto un suo potere di visione e dunque gli di controllo. Il criterio nel giudicare è invece la coscienza di un legame che ricostituisce il soggetto e i suoi pensieri prima e in un modo che trascende e va anche al di là di un sapere che il soggetto potrebbe possedere. A titolo di esempio, pensiamo a ciò che dice argutamente Agostino nel nono libro del Deuterounitate: "chi di noi è così stoltamente curioso da mandare i propri figli alla scuola per sapere che cosa pensa il maestro". Chiarisce e dice: "il problema è affidarsi al rigore della disciplina". La disciplina di questo linguaggio latino dell’epoca significa la capacità di impadronirsi del linguaggio. Agostino sostiene che bisogna mandare i figli a scuola per imparare a parlare, a leggere gli elementi di un sapere che interessano in quanto spunto, in quanto casa di una verità che ci avvolge. Passiamo perciò ad un quinto punto, in cui mi propongo di riprendere l’idea di razionalità sottolineando, in qualche modo descrivendo, come essa stia in piedi in base a due poli che sono un'origine e una destinazione. Se si pensa alla razionalità e al discorso, ammesso che il discorso sia il modo con cui una razionalità è espressa, la razionalità non sta in piedi, non si costituisce , si distrugge se non ha questi due poli che ne tengono insieme la struttura. La struttura di razionalità cui abbiamo fatto riferimento implica quindi una non proprietà, una non padroneggiabilità dell'origine e della destinazione del discorso. E sì perché l’origine e la destinazione del mio atto razionale, non sono l’atto razionale nel suo immediato darsi, sono in. termini logici temporali, secondo una azione di tempo sono comunque un prima e un poi, sono l‘atto in quella immediatezza possibile da una coscienza. Il discorso, per quanto sia concepito problematicamente o dialetticamente, non può essere racchiuso in un punto di vista, cioè in una totale trasparenza di un possesso cosciente. Queste sono le modalità emergenti della nostra cultura; certo il singolo non sai tutto però sa un pezzettino che può essere incessantemente sottoposto a nuove domande, a nuovi problemi che dialetticamente sarebbe in grado di esaurire una totalità è esaustiva e così via; l’idealismo e poi il marxismo sono abituati a pensare in questo modo. Ora tutti i movimenti di pensiero sono in crisi, ma nelle modalità di fondo e nei modi di concepire il pensare sono molto di meno, e se mi è consentito, funzionano ancor più padroni quanto meno sono avvertiti come alfieri di una corrente di pensiero riconoscibile alla cui base ci sarebbe un confronto nella forma del nemico e dell’amico, dell'avversario e dell’alleato. Un discorso dunque si costituisce e funziona come una struttura che implica un’origine e una destinazione. Che il discorso possa essere così concepito inaugura un diverso modo di considerare il dibattito sulla razionalità e sulla sua crisi. La tematica dell’aldilà del soggetto, della crisi del soggetto idealistico borghese: già logorata dal rimaneggiamento del pensiero marxista , dovrebbe essere ripensata in un modo diverso e più radicale di come si faccia oggi. Una inscindibile parentela tra razionalità e scienze fisico matematiche della natura si è stabilita nell’epoca moderna, ma l’epoca moderna, appunto, come moderna non è da sempre esistita ed è legata ad un mutamento dell'immagine del mondo, che ha implicato il passaggio da una concezione dell’universo chiusa, che era la concezione medioevale del cosmo, ad una concezione dell’universo infinita, dell’universo come spazio vuoto in cui si muovono le galassie. Tutto ciò ha provocato delle formidabili trasformazioni nella nozione di esperienza. Il sapere stesso ha avuto un sommovimento, una ridefinizione, pensate poi ad un sapere coma Kant lo riconcepirà, come una scienza che è valida fino ad un certo punto, fino a certi limiti e poi al di là la razionalità funziona in un modo che è diverso , è diviso, non meno razionalità, ma tale da appellarsi ad un altro organo, per così dire di conoscenza, un’altra modalità di approccio alla realtà. La razionalità per la stagione classica era invece legata all’ethos, ad un concetto di verità come attività vivente non esauribile ad un certo senso dell’incontro del reale con la mia coscienza. Affermare che la razionalità è legata all'etica significa che quando parlo prendo necessariamente posizione. Non si può porre anche solo problematicamente la questione classica della verità se non come questione di un rapporto di un soggetto alla verità. Questi cenni riguardano una razionalità, più che come figura logico deduttiva, come indisgiungibile dalla ragione nel senso di causa, nel senso greco di aitia. Aitia non è solo la causa di un fenomeno, come in fisica, ma anche la ragione nel senso di avere ragione e la causa nel senso legale, avvocatesco, Questa nozione di ragione funziona in Platone e nella tradizione platonica soprattutto ripresa dai Padri della Chiesa. Pensate al concetto di bene, di bonum già nominato. E funziona classicamente anche nei discorsi e nelle parole quotidiane degli uomini. Funziona qui ed ora in me che parlo a voi. Che io sia qui a parlare e che voi siate qui ad ascoltare implica un legame che è più radicale del fatto di ciò che dico come vero o falso, come buono o cattivo, utile o non utile. Il fatto che anche che io sia venuto qua a parlare piuttosto che non essere venuto, i motivi che mi hanno condotto qui piuttosto che altrove e anche il modo in cui io mi rappresento, l’efficacia del mio discorso, se ve ne è una, tutto questo riguarda una tessitura, un costituirsi del mio discorso che io non posso adeguatamente controllare e possedere. Voi che mi ascoltate, che non ve ne siete usciti e, per gentilezza o bontà verso l'ospite, per un senso ampio e più o meno accentuato di appartenenza a un lavoro , ad una esperienza comune, tutte queste cose sono più radicali, nessuna sociologia della conoscenza può contenerle perché riguardano il rapporto di me all’origine del mio discorso. Passiamo a due veloci accenni e poi ho concluso il mio intervento. Il primo riguarda l’idea di esperienza. Questo riferimento seppur veloce mi sembra necessario perché, è utile, è importante, sottolineare come l'idea di razionalità, come attività vivente, dramma, come ci siamo sforzati prima di evocare ha come suo correlato una nozione di esperienza entrata in crisi nell’età moderna. Negli accenni fatti è implicita l’idea arcaica e ancora medioevale di esperienza nel suo senso etimologico da peiras, cioè limite, prova, nel senso di sofferenza e anche di messa alla prova. Tale nozione di esperienza implica che vi sia rapporto drammatico dell’individuo con il cosmo e i suoi simili e implica che la razionalità e la parola siano fattori di tale dramma. Nell’epoca moderna, soprattutto in relazione allo sviluppo delle scienze modernamente intese, l’esperienza diventa lo sperimentabile, nel senso di Galilei nel senso dell’esperimento riprodotto in laboratorio, nel senso di ciò che può essere riprodotto, controllabile da un soggetto conoscitivo e pratico. Questo processo che sfocia nella rappresentazione post-idealistica del pensiero, segnala oggi una situazione problematicista che sembra intrascendibile, irrecuperabile per l’umano. Al di là della questione dell’esperienza come esperimento riproducibile, questa questione di una procedura scientifica ha investito l’idea stessa del sapere del soggetto razionale. In questo modo il pensare, il ragionare, è un ambito di controllo di oggettivazione dei fatti e delle esperienze. Ciò che non ha ambito di controllo e di oggettivazione dialetticamente intesa, più o meno a seconda dei gusti, non è razionalità. Il correlato di questa impostazione è la concezione post-idealistica, illuminista, di libertà come libertà di movimento. Come il pensiero si muove oggettivando in un ambito infinito e ponendo nessi dialettici, critici tra le sue oggettivazioni, cosi in sede morale la libertà è la libertà di movimento, libertà di scelta, spostarsi, scegliere A o B come all'infinito senza vincoli, senza legami. Il modo con cui il soggetto si rappresenta come libero sembra essere la coscienza di sé con l’illimitata capacità di movimento, senza avvertenza del problema di causa e d’effetto. In assenza di un riferimento alla propria origine e in assenza di un parola che ospiti tale riferimento al suo interno, nella struttura della società odierna sembra prevalere inevitabilmente l’ideale della gestione, che è quanto dire la struttura e il linguaggio in cui siamo immersi, quella della televisione, in cui tutto è detto, ma in cui questa struttura di messaggio non aiuta, ma anzi tende a nascondere, a rendere enormemente difficile che l’ascoltatore, l’interlocutore si confronti tra sé e la parola, si possa interrogare sul messaggio, possa porsi la questione del che farsene. Sono come parole in libertà piuttosto che una libertà di parola. Il problema sarebbe aiutare l’uomo in una libertà di parola, cioè in un rapporto che l’individuo umano intrattiene con la sua parola. Secondo accenno: la libertà tuttavia classicamente è il rapporto del soggetto con la sua parola, è toccare, quasi scontrarsi, con ciò che annoda, che lega il rapporto del soggetto con le cose, è il rapporto del soggetto con sé stesso in relazione alle cose. Detto altrimenti la libertà è una questione di prendere posizione rispetto alla verità e alla menzogna. Questa è un'azione di libertà riguardo ad un soggetto già costituito, autonomo nel senso di possessore e controllore dei suoi atti, un soggetto che esiste in relazione a un discorso, che esiste in quanto interpellato, interlocutore di un discorso. Il problema della libertà è quindi il problema del rapporto che ho con una origine di me, del rapporto con un’origine che mi lega e questo problema coincide con l’essere aiutati a non mentire perché il legame che mi costituisce prima che io ne sappia e ne sia cosciente è da scoprire, è da scoprire in un punto più radicale del mio dominio conoscitivo e morale, è qualcosa che decido io, che faccio io, che nuovamente stabilisco, che criticamente posso discernere, qualcosa che io riconosco. Sant’Agostino in questo è stato maestro e ha chiarito con efficacia ancor oggi chiarissima quest'evidente movimento della razionalità che ospita la struttura del credere. Nell’undicesimo libro delle "Confessioni", Sant’Agostino distingue una "veritas luces" da una "veritas redargues", una verità che si manifesta da una verità che si rimprovera. Allora che cosa vuol dire avere una concezione di sé, del linguaggio della realtà in cui la verità rimprovera? Vuol dire che nel modo con cui io mi rapporto alla verità devo essere spesso rimproverato perché sbaglio, perché sono menzognero, perché non sono autentico rispetto a me e all'origine di me, cioè rispetto al rapporto con la Verità. Non esiste legame né appartenenza che la libertà, al di là del problema del barare con me stesso. Questo problema è il punto più originario del mio possedermi, più originario di un presunto dominio su di me. La concezione classica della libertà, come riconoscimento di un legame, in metafisica, in etica e in politica era stata intuita e riproposta dal primo Romanticismo tedesco, non è solo una trovata di Platone e dei Padri della Chiesa. "La libertà è il bello che appare" diceva Schlegel. Nel Romanticismo tedesco tuttavia è assente un riferimento compiuto al quadro in cui viveva il dislivello, in senso classico e medievale, tra il sapere e la verità. In questo dislivello prendeva posto una nozione di soggetto molto diversa da quella moderna e contemporanea. In assenza di tale riferimento, la versione romantica del concetto classico di libertà può trasformarsi in un soggettivismo ultimamente violento. Il termine "abito per sentimentali" che compare nel titolo di questa tavola rotonda mi sembra alludere ad una ristrettezza di concezione che è una specie di corruzione, di appiattimento dell'esperienza romantica avvenuta nel nostro ordine teorico attuale. E’ sentimentale chi separa più o meno coscientemente la ragione dal suo atto, chi separa la ragione dal suo essere azione, dal suo essere dramma; è sentimentale chi pensa che l'atto riguardi l'ordine delle passioni, dei moventi, dei sentimenti, e tale ordine si costituisca, viva come accanto alla ragione, di modo che il funzionamento morale dell’ordine dei moventi, dei sentimenti sarebbe diverso, non sarebbe della stessa stoffa della razionalità che riguarda la realtà come tale. La ragione di cui abbiamo parlato, è impensabile invece se non come costituita, come tesa dai due poli di un’origine e di una destinazione. E’ possibile oggi riaffermare alla Nietsche "io sono un destino" in un mondo che sembra impensabile se non come caos e di una concezione del segno che sembra definitivamente strappata dal suo essere disegno. Oggi forse la battaglia più entusiasmante per la razionalità sembra essere il recupero della riscoperta di una moralità che non sia filantropia, una moralità che sia il rapporto fra l’io e il suo desiderio. Il desiderio anche qui classicamente eccede lo stato d’animo, la passione o il condiziona mento patologico in cui siamo immersi. Volere ciò che si desidera è un’avventura che tira in campo la razionalità in tutta l’ampiezza che si conviene secondo tutta la dignità della sua impresa.

N. Genghini:

Ringrazio vivamente Gianfranco Dalmasso per questo suo ricco intervento e per averci guidato così efficacemente lungo questo percorso di ascesa e di purificazione dell'intelligenza. Adesso la parola passa al professor Di Stefano.

T. Di Stefano:

Grazie. Naturalmente per smentire il titolo "Il razionalismo, un abito per sentimentali" bisogna atteggiarsi a un non razionalismo. Nei riguardi anche del vostro movimento ho avuto degli atteggiamenti di indifferenza, di sorpresa, di definizione, questi sono atteggiamenti del razionalismo, perché chi non è razionalista non pretende con la ragione di esaurire la realtà. D’altra parte il razionalista capta ed imprigiona il movimento originario dell’uomo che è proprio lo stupore, l’ammirazione. L’ammirazione e lo stupore decadono nel momento in cui si concettualizzano, e tutto il pensiero occidentale è questa caduta dello stupore originario, del nucleo originario dell’uomo concreto che consiste nella sua apertura alla realtà. Il razionalismo pertanto è questa pretesa della ragione di esaurire l’inesauribilità del reale. Allora l’impossibilità di esaurire la conoscibilità della realtà rende la ragione astratta, alienata dalla concretezza dell’esistenza, quindi relegata giustamente nelle fantasie irreali ove è possibile navigare unicamente con un inutile sentimentalismo. A questo proposito si può individuare questo atteggiamento del concetto e della ragione di esaurire la conoscibilità della realtà specialmente nel pensiero occidentale, come vi dicevo. Per quanto concerne la ricerca, la conoscenza della verità sinteticamente possiamo dire che nel pensiero greco, specialmente platonico aristotelico, l’orizzonte della verità è inquadrato come appartenenza e inserzione nell’uomo ovvero la verità è vista totalmente immanente nell’uomo, nella sua ragione, nel suo concetto come metro e misura del reale. Pertanto la verità, come dice ancora Heidegger, è proposta da tutta la filosofia occidentale post-parmenidea fino ad oggi, come "esattezza , come certezza" rispecchiante nei suoi concetti la presenza stessa delle cose. La verità scorre sul modulo razionale della "conformità", dell'adeguazione esatta e precisa, dell’esposizione logica, verità, che, in definitiva, è sempre progettata e commisurata dall’uomo, ossia la verità è il concetto dell’uomo, metro e misura di tutte le cose. La verità in Socrate, Platone, in Aristotele e, in genere, nel pensiero classico, è immanente all’uomo, la ragione ha in sé, il "1ogos", il concetto, la misura del reale. Il mondo greco è tutto proteso in questa aspirazione del logos: questa concezione è passata poi nel pensiero cristiano assumendo essenzialmente un carattere nuovo. Qui, infatti, la verità è Dio stesso che è il Creatore di questo mondo visibile. Questa svolta essenziale la si può cogliere, per fare un esempio, nella posizione agostiniana per la quale la verità si qualifica come interiorità e come trascendenza. L’ascesa alla verità è l’itinerario naturale dell'anima e della ricerca raziona e, è l’aspirazione intima e suprema che parte dalla coscienza, sollecitata e mossa dalla verità stessa nel suo essere coscienza svelata e tesa radicalmente alla trascendenza. La verità secondo Agostino muove ed illumina, dilata, colma e calma lo spirito interrogante non nello spazio concettuale, ma nell’orizzonte dell’affetto dell’anima, nell’interiorità, nel circuito esistenziale e perenne dell’amore. Questa novità del concetto di verità decade nel trionfo del razionalismo. Così anche nel discorso del pensiero moderno la verità è sempre imprigionata nei labirinti del pensiero o pensiero puro o pensiero concettualizzante, comunque sempre il pensiero riduttivo della realtà; la realtà si riduce sempre al pensiero. Da questo punto di vista non possiamo assolutamente prospettare una ricerca della verità in modo esauriente, in modo unico, chiaro. In chiara antitesi con la concezione della realtà e della verità, prospettata dall’idealismo trascendentale il quale consuma il tutto nel concetto, si pongono le varie posizioni critiche anti-idealistiche contemporanee. Non è mia intenzione in questo sintetico prospetto sulla verità esporre valutare le varie correnti di pensiero che fanno capo al marxismo, positivismo, fenomenologia, l’esistenzialismo, il neopositivismo. Accenno semplicemente alle riflessioni esistenziali di Kierkegaard e di Heidegger. Per Heidegger l’avventura del tema della verità è connessa con l’avventura del problema stesso dell'essere. Bisogna constatare, afferma Heidegger, che purtroppo l’oblio dell'essere e conseguentemente la dimenticanza della verità, inficia tutto il pensiero occidentale che ha interpretato l’ente a partire dall’essenza, lasciando nell’oscurità e nell’oblio crescente l'essere stesso. La definizione della verità, secondo Heidegger, come "adeguazione dell’intelletto alla cosa" acquista un carattere formale e formalistico e non può assolutamente cogliere la totalità della verità dell’essere. L’essenza della verità per Heidegger, consiste nel senso del disvelamento dell’essente mediante il quale si mostra la verità, l’apertura dell’essente all’essere. Però anche nella visione heideggeriana la verità, una volta tolto il fondamento dell’essere (e quindi dell’Assoluto), non si fonda che sull’essere dell’essente nel suo mostrarsi come un Tutto. Mediante questa concezione della verità e della libertà, che si può chiamare il trascendentale dell’esistenza ovvero l'esistenza come trascendentale, si è aperta l’unificazione dell’essere e della coscienza senza residui. Ecco perché anche Heidegger ricade nel razionalismo ed è in definitiva, anche se tedesco, un sentimentale. Il recupero decisivo della verità, nel suo significato più esistenzialmente autentico, è stato operato, a mio modesto parere, dalla riflessione esistenziale di Kierkegaard. Per lui due sono le vie sulla riflessione della verità, che costituiscono la demarcazione più profonda tra la visione razionalistico-logica e la visione esistenziale: "La via della riflessione oggettiva e la via della riflessione soggettiva. La via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale", e quindi riduce l’esistenza a qualcosa di indifferente, di evanescente. La verità raggiunta dalla riflessione oggettiva si traduce in termini concettuali di certezza, sicurezza, avvio totalizzante e concentrico del reale, acquisito nell’orizzonte assolutamente ideologico. L’ideologia, figlia del razionalismo, si consuma però come sicurezza, certezza onnicomprensiva della verità; la verità ideologica e la verità della riflessione oggettiva ossia della determinazione categoriale del reale. In questo senso la verità è considerata dall’idealismo logico hegeliano come totalità, come riduzione assoluta del reale al razionale. L’ideologia è la conclusione logica del razionalismo. L’ideologia è il potere assurdo dell’astratto, la negazione dell’uomo, la mortificazione atroce della persone e della libertà. Il razionalismo si manifesta oggi, per essere molto pratici, nei sofismi e nei meccanismi più o meno occulti della politica, nei vari tentativi di leggere solo concettualmente il contenuto stesso della fede, nella sicurezza di captare le ricchezze insondabili dell’uomo mediante le analisi socio-psico-pedagogiche riducendo l’uomo soltanto a queste analisi. La certezza, figlia del razionalismo, vede la verità come adeguazione matematica alla realtà, come la certezza di dominare l’universo, non solo mediante la scienza, ma tramite gli strumenti tecnologici. Oggi la manipolazione ha preso il posto della creazione, questo è il culmine del razionalismo. Badate bene, non è una critica alla ragione in quanto tale, ma alla pretesa della ragione di esaurire la realtà. Il reale è infatti molto al di là della ragione, il non conosciuto è infinitamente più grande del conosciuto; ciò significa che l’uomo si può accostare alla realtà aprendosi alla realtà stessa. La realtà unicamente con le categorie logico-razionali Il potere di accostarsi alla realtà qualifica l’uomo nel suo essere profondo; infatti l’uomo nella sua rivelazione esistenziale si qualifica per l’atto fondamentalmente libero che lo fonda e lo tiene illimitatamente aperto tramite il progetto fondante. Pertanto l’uomo è spirito perché è io, è io perché è libero, è libero perché è potere di scelta dell’io. Questo potere è anteriore al conoscere stesso, allo stesso volere, allo stesso aprirsi di tutta l’interiorità dei sentimenti; poiché intanto io conosco in quanto posso conoscere, intanto voglio in quanto posso volere questo potere dell’io che fonda, qualifica la persona responsabile. Mediante questo potere esistenzialmente infinito, in quanto è potere di aprirsi all’infinito, questo potere è esistenzialmente infinito perché questo potere ossia potere di trascendenza, l’uomo partecipa all’inammissibilità della realtà. Perché può aprirsi all’infinito? Questo potere non può venire dal finito: se è finito, anche il suo potere è finito. Dice Kierkegaard che soltanto l’Onnipotente poteva creare un essere libero perché il finito definisce, limita, è condizione, e quindi nessun finito può creare un essere libero; allora l’essenza, il fondamento della libertà è l’Onnipotenza ed ecco perché partendo da questo potere dell’io è possibile aprirsi all’Infinito, è possibile non cadere nel concettualismo. La ragione non è altro che l’ala di questo potere, la ragione deve inseguire questo potere e allora non decadrà nel razionalismo. Ecco l’incontro che bisogna stabilire, il capovolgimento che bisogna stabilire per annullare il razionalismo che domina purtroppo ancora la coscienza contemporanea. Il razionalismo è il lager di questo potere, la sua mortificazione, la sua distruzione. E’ la negazione della libertà ovvero dell’uomo stesso. E’ la libertà come potere dell’io, come paradosso esistenziale, che attua la verità in un rapporto vivo, palpitante, come verità esistenziale, come verità per me. Il regno dell’anima non è il regno del concetto e dell’astrazione, ma è il regno della libertà e della Grazia. Sulla base di questo paradosso esistenziale si apre la verità, la possibilità, salto qualitativo della libertà, di mettersi in rapporto con un paradosso essenziale, l’Uomo-Dio, e penso che attuando questo capovolgimento si possa ritrovare autenticamente l’uomo come tale e la realtà, inesauribilità che hanno come fondamento l'inesauribilità per essenza: Dio stesso. Grazie.

N. Genghini:

Ringrazio vivamente anche il professor Di Stefano per questo suo intervento e sia la tavola rotonda di ieri, quella dedicata all’irrazionalismo, sia quella di oggi non hanno affatto preteso di corrodere la ragione, anzi hanno tentato tenacemente di difendere la ragione da quel tarlo interiore che si chiama razionalismo perché lo scopo di questi incontri, della nostra esperienza non è quello di depauperare questa potenza, questa energia che ci mette in contatto con la realtà, semmai lo scopo è di moltiplicare, di trovare come un coefficiente che ci conduca più vicino alle cose, che ce le faccia possedere con più rispetto, con più pregnanza. Lo scopo era esattamente di difendere la ragione da coloro che vorrebbero elidere da essa il Mistero. Questo scopo è stato esemplarmente chiarito nella prima relazione quando il professor Dalmasso ha accennato alla coscienza del legame con l’origine come struttura della razionalità. L’unico problema è che ogni costituzione di significato da parte dell'uomo è sempre una costituzione seconda, che agisce in sinergia con una costituzione più antica di significato che è quella che Dio imprime nella realtà. Riprendendo le ultime cose che diceva il prof. Di Stefano, il cammino che conduce dalla ragione alla fede è un cammino del tutto naturale, come questo Meeting mi sembra in modo eloquente esprime, e insieme è un cammino interrotto. E il salto a cui mi sembra il prof. Di Stefano accennava, è l’irruzione nello spazio umano dell’uomo di una presenza carica di una pretesa, la pretesa di colmare quello spazio interrotto tra la mia ragione e la fede. Davanti a questa Presenza che compare nel mio spazio umano posso soltanto obbedire, che significa posso soltanto seguire le movenze di questo corpo che colma l’abisso fra il finito e l’Infinito e posso cercare di dimorare nella sua prossimità affinché da questa prossimità io sia lentamente introdotto dentro questa trascendenza per cui da sempre il mio cuore è fatto. E’ con grande gratitudine e ammirazione che io, personalmente, e penso anche voi, abbiate ascoltato gli interventi del professor Dalmasso e del professor Di Stefano. A loro va il nostro più cordiale saluto.