Venerdì 26 agosto, ore 11

HOMO SYMBOLICUS

Partecipano:

Franco Cardini

docente di Storia Medioevale presso le Università di Bari e Firenze

Basil Clancy

giornalista e scrittore

Jean-Pierre Sironneau

docente di Sociologia e Antropologia presso l'Università delle Scienze Sociali di Grenoble.

Conduce l'incontro:

Giuseppe Folloni.

Riemerge oggi l'importanza del simbolo per la psiche individuale, per la vita sociale e per l'esperienza religiosa. C'è una stretta connessione fra la natura del simbolo e la ricerca dell'infinito: il simbolo è l'epifania di un mistero. Il simbolo per eccellenza è quello del labirinto.

F. Cardini:

Il simbolo che io ho scelto è famigliare senza dubbio a tutti voi: è il simbolo specificamente medievale e occidentale, mi correggo, è la forma specificamente medievale e occidentale di un simbolo che è forse uno dei non moltissimi simboli universali, che si ritrovano in tutti i tempi e in tutte le culture, il simbolo del labirinto. Il labirinto è il simbolo del viaggio qualificato e connotato molto particolarmente. Dovremmo quindi vedere insieme come un simbolo abbia qualificato, sia stato un po’ la struttura portante di una avventura storica precisa, avventura condotta nell'Occidente medievale, fra l'XI e il XV secolo, e per contro come questa avventura si sia continuamente abbeverata, riferita, rinvigorita proprio nella contemplazione di questo simbolo particolare. Il labirinto non è, come sapete, un viaggio come tutti gli altri; è stato, almeno per quello che questo simbolo può significare davanti a una coscienza cristiana, molto ben qualificato da Agostino ed è d'altra parte ben specificato in un anonimo graffito (un piccolo labirinto, che assomiglia abbastanza a quello del pavimento della Cattedrale di Chartry, a struttura circolare che è graffito in uno dei piloni dell’ingresso della Cattedrale di Lucca, uno dei centri di pellegrinaggio nella vita tra Santiago e Roma, tra i più frequentati del medioevo, il luogo dove si poteva venerare un'immagine famosa del Cristo, il cosiddetto Santo Volto, probabilmente il Crocifisso più famoso di tutta la cristianità occidentale prima di quello di San Damiano, quello che ha parlato a Francesco), la figura del cammino umano: ogni uomo è come Teseo e non può uscire dal labirinto se non aiutato dal filo di Arianna. Agostino aveva, in una pagina delle Confessioni molto nota, meditato sul simbolo del labirinto in un modo che, in un certo senso, preconizza certi voli di uccelli (e ci voleva una buona dose di forza fantastica per raffigurarsi che cosa si poteva vedere dall'alto). È vero che gli uomini dell'antichità avevano a disposizione torri e montagne per salire e ammirare i panorami e gli orizzonti dall'alto, ma è anche vero che quel che per noi è estremamente familiare, quasi banale (la vista dall'oblò di un aereo, per esempio) mancava loro, anzi non solo, ma pensavano forse a questa possibilità come qualche cosa di estremamente rischioso, anche spiritualmente (il mito di Icaro, appunto). Agostino dice: la vita dell'uomo è assolutamente priva di un senso che non sia quello che l'uomo sceglie e quindi senza la fede la vita resta qualcosa che viene vissuta in senso nichilistico e vitalistico. L'uomo, in un labirinto, ha presente soltanto le possibilità di scelte immediate, (questo continuo albero-primario che il labirinto gli presenta ad ogni curva, ad ogni diramazione) c'è sempre il dubbio, la lacerazione della scelta: l'uomo sente che deve scegliere e che ogni istante è una possibilità binaria da deflorare sul momento e che ogni scelta può essere quella giusta, quella salutare o quella fatale. D'altra parte in questo assoluto non senso, in questo gioco di possibilità, il senso c'è, ma lo si scopre soltanto dall'alto. Solo chi dall'alto vede l'uomo vagare in un labirinto sa quale è la sua strada giusta e forse, è anche in grado di guidarlo. Chi può guardare dall'alto il labirinto è, evidentemente, Iddio. In principio c'era, quindi, la strada, così spiritualmente sentita e connotata che collegava la città, i mercati, le abbazie, i santuari simbolo vissuto come realtà concreta o, se preferite, realtà estremamente concreta, vissuta però anche a livello di simbolo. Ma non c'erano soltanto le strade terrestri percorribili a piedi o sul dorso di animali da trasporto oppure, meno sovente, nel medioevo, a bordo di carri. Fiumi e laghi nelle aree corrispondenti al mondo franco-germanico e italo-settentrionale fornivano ottime, sicure, tranquille e poco costose vie utilizzate soprattutto per il commercio di merci ingombranti e abbondanti come il sale, le granaglie, le pietre e mattoni da costruzione, le botti di birra, di vino, di sidro, il legname. Viaggio significa anche infrastrutture, ospizi, mercati, locande, empori, installazioni portuali, posti di dogana, zecche, cambiavalute, posti di guardia a tutela di chi viaggia, quindi brigantaggio e sua repressione, ma anche chiese, tabernacoli, reliquie, leggende devote, in quanto i nemici e i pericoli che lungo la strada si possono incontrare non sono mai soltanto materiali e fisici. Né le strade medioevali si limitano ad essere interne al continente europeo, quel continente liquido che, secondo la famosa espressione di Fernand è il Mediterraneo, è solcato di continuo da navi e costellato di porti. Quelle navi e questi porti saranno esclusivamente romano-orientali, bizantine e poi arabe fra il V e il VII secolo (ma anche certe popolazioni germaniche come i Vandali e anche i Goti, in parte, avevano saputo impadronirsi abilmente della tecnica della navigazione, quindi avremo navi arabo-mussulmane fino al IX secolo, allorché si affacceranno alle coste mediterranee anche i pirati vichinghi e da allora in poi con frequenza e importanza sempre maggiore anche italiani, franco-provenzali, catalani). Sulle navi o su vascelli di ancor più modesta stazza che meritano soltanto il nome di barche, non viaggiavano soltanto merci e marinai-mercanti, pirati, ma anche idee, istituzioni, leggende, arredi, oggetti, insomma elementi culturali e ci viaggiava il nome del Cristo. Quei pellegrini missionari celti, soprattutto irlandesi che tra il VII e VIII secolo hanno instancabilmente percorso l'Europa contribuendo alla sua evangelizzazione e che hanno elaborato la pratica originale della "peregrinazio penitenzialis", erano anche marinai abili e coraggiosi. Le molte leggende geografiche celtiche ancor oggi conservate nello stesso folclore marinaio dell'Oceano Atlantico, ci parlano di isole sconosciute, di gorghi, di mostri marini, di città e di tesori sommersi, di approdi lontani nelle terre dei beati o degli inferi. E sulle grandi vie oceaniche atlantiche, le quali hanno portato gli spagnoli nel nuovo mondo, e atlantico-indiane, che hanno condotto i portoghesi nelle Indie orientali, si chiude il medioevo mediterraneo-centrico e si apre la storia dell'Europa moderna, protesa alla conquista del mondo. Si chiude la storia di una umanità che vive per compartimenti stagni e si apre l'era dei grandi e spesso tragici incontri e conflitti tra culture diverse. Il primato del grande viaggio appartiene all'umanità mediterranea. E il Medioevo risulta l'età del viaggio per eccellenza non perché in altre età ad esso precedenti o successive si viaggiasse meno, ma perché e soprattutto, nessun altra epoca della nostra storia è stata altrettanto mobile e altrettanto capace di fornire un senso profondo, simbolico a questo viaggio, anzi a questo nomadismo. Quali, quindi le ragioni di tale nomadismo (anche se potremmo definirlo "nomadismo mirato") teso a raggiungere le fonti di qualche cosa, le fonti delle spezie, di certe merci, di una certa cultura? Con gli uomini viaggiano le merci e le idee, e si potrebbe in fondo facinorosamente rivoltare il discorso e chiedersi se il viaggio non sia piuttosto il vettore funzionale, perché l'essenziale è appunto far viaggiare le merci ma anche le idee e forse soprattutto. È noto a tutti il rapporto fra la strada e la diffusione dei culti dei santi e delle reliquie, delle "chanson de geste", delle tecniche costruttive delle grandi chiese abbaziali e cattedrali. Si sviluppa con il tempo un'articolata letteratura di viaggio degli itinerari ad opera dei pellegrini in Terra Santa. Quando pensiamo alla plurisecolare vicenda dell'Europa medievale e al ruolo che la dimensione del viaggio ha assunto in essa, non possiamo non riferirci al carattere, al tempo stesso teologico e metaforico-esistenziale, che il viaggio in quest'ambito riveste: la strada medievale è piena di presenze significative (dal Rex Ambulans che percorre instancabilmente i suoi territori di città in città, di placitum in placitum, di sede giudiziale in sede giudiziale, di palazzo in palazzo, inteso come sede, come centro amministrativo) fino al mercante, al pellegrino o al fuorilegge, all'emarginato, che amano travestirsi da pellegrini oppure al clericus vagans, al giullare, al cavaliere errante, al monaco, al predicatore vagante, girovaghi contro i quali si accaniscono gli scritti mistici, normativi e disciplinari della Chiesa. Si direbbe che la Chiesa non ami né i viaggi, né i viaggiatori: i mistici insistono sui pericoli dei viaggi, i monaci benedettini si sforzano di ribadire il principio della stabilità, i prelati non si stancano di provvedere al rafforzamento dei quadri diocesani che sono anche quadri di controllo. Pure, al di là del grande esempio del monachesimo celtico irlandese che è un monachesimo ambulante, al di là del grande esempio di Francesco, anche i papi e i cardinali sono sempre in viaggio per organizzare sinodi e concili e sovrintendere ai lavori che in quelle sedi si tengono. 1 pellegrini vengono nonostante tutto incoraggiati, nel tempo stesso in cui si scrivono trattati teologici e mistici ad essi contrari. Le crociate se falliscono in Palestina e sono soggette a dure recriminazioni, riescono e trionfano in Spagna e nel Nord-Est europeo, a volte trionfano tragicamente laddove forse sarebbe stato più augurabile fossero fallite, come nel Sud della Francia ai primi del XIII secolo. Fra XIII e XIV secolo, Francescani e Domenicani sostengono con estrema convinzione la necessità delle missioni in Asia, non tanto per convertire gli infedeli (e questo è un elemento importante, che soprattutto della primitiva spiritualità francescana tende a sfuggirci) quanto principalmente per testimoniare il Cristo e il Vangelo fra gli infedeli. Tutto questo dimostra quanto sia sentito come necessario il bisogno di viaggiare soprattutto in povertà. Paradossalmente perfino il mercante, in un certo senso, viaggia in povertà dal momento che la normativa teologica e giuridica della chiesa, gli impone di rispettare certe norme relative al giusto prezzo delle merci, e soltanto verso la fine del medioevo, la teologia e il diritto canonico offriranno al mercante delle scappatoie formali in questo senso (scappatoie sostanziali le aveva, evidentemente, già trovate da solo). Profondamente legato alla storia sacra come viene narrata nella Bibbia, il mondo cristiano-medievale ha la ferma coscienza di rappresentare il nuovo Israele, e se l'etimo della parola "ebreo" significa fin dalle primissime attestazioni (quelle delle fonti egizie) viandante, passante, nomade e se la Pasqua stessa è la commemorazione del passaggio dell'Angelo del Signore e dell'inizio dell'esodo di Israele come ritorno alla terra promessa, se tutto ciò è vero, il cristiano medievale resta profondamente radicato nella sua coscienza di peregrinus. Ma se il pellegrinaggio, e insieme con esso la crociata e la missione (che ad esso sono connesse in modo preciso), è nella sensibilità medievale il viaggio per eccellenza (e non bisogna dimenticare che se meta del pellegrinaggio sono delle reliquie da venerare spesso le reliquie stesse viaggiano a loro volta in itinerari drammatici le cosiddette translationes) d'altronde il pellegrinaggio stesso si carica di molteplici e plurimi significati: si viaggia per giungere a Gerusalemme, per morirvi ed essere sepolto più vicino possibile alla valle di josafat (il pellegrinaggio come simbolo perfetto della metanoia). In questo senso il pellegrinaggio ha potuto essere definito un eremitismo ambulante, ma si viaggia anche per penitenza o per domandare una grazia quindi, paradossalmente non per perdere la propria vita, anche quella terrena, ma per recuperarla. Più tardi, a partire dall'XI secolo diverrà sempre più comune e più lecito viaggiare per acquisire esperienze e conoscenze nuove. Il raggiungimento dell'Oriente attraverso l'Occidente, la soluzione delle verità proclamate dai geografi antichi ed iscritte nel Genesi, il conseguimento delle ricchezze necessarie all'organizzazione di una crociata che avrebbe liberato Gerusalemme e posto le premesse per la conversione di tutti i popoli, questo grande sogno di conquista, di guerra che si risolveva in un sogno d'amore universale, questo paradosso, questa follia, questo costruttore di storia che era anche un cercatore dell'infinito forse genovese forse catalano, non è importante sapere da dove venisse. Oggi noi sappiamo che Cristoforo Colombo sbagliava, che i suoi calcoli erano totalmente errati (sappiamo che probabilmente era un gran bluffatore, che tutto sommato uno degli esegeti contemporanei che più a fondo l'ha capito è il Dario Fo di "Isabella, tre caravelle e un cacciaballe") che in fondo i veri saggi, i detentori della sapienza e della saggezza erano i professori di Salamanca e non Colombo, che i suoi calcoli lo votavano a perdersi nell'Oceano Atlantico al pari di Ulisse, di Ugolino e Vadino Vivaldi, o meglio, lo avrebbero votato a tutto ciò se non ci fosse stato un imponderabile, l'imponderabile: di quel continente sconosciuto inserito fra l'Europa e l'Asia. Le poste in palio nella storia sono sempre e comunque le grandi, e non le piccole, le mete strategiche e non quelle tattiche, sono sempre e comunque dei frutti colti dai folli: Francesco d'Assisi, Cristoforo Colombo, uomini bollati giustamente come nemici della ragione e della ragionevolezza dall'Encyclopedie. Aiutiamo il nostro Occidente, il nostro mondo a scegliere se in questo scorcio del secondo millennio dopo Cristo la ragione sta dalla parte di Francesco e di Cristoforo o dalla parte dell'Encyclopedie.

B. Clancy:

Inizio il mio discorso parlandovi di una teoria recentemente sviluppatasi tra gli scienziati. Gli è stato dato il nome di "Dipendenza sensibile o condizioni iniziali" o più semplicemente e più poeticamente è chiamata "Effetto farfalla". Secondo questo concetto, il battito delle ali di una farfalla a Pechino oggi, potrebbe essere la causa di una tempesta sopra New York nel giro di un mese. Quando ho letto per la prima volta questa teoria in un libro di James Gleick intitolato CHAOS (Heinemann, Londra) mi è venuta in mente la storia di un elefante e della sua guida che attraversano un ponte fatto di funi sopra un abisso e ciò che accadde quando una mosca cominciò a ronzare sopra la punta della sua proboscide. L'elefante cominciò a tremare, il ponte si ruppe e il grande animale con la sua guida e i servi caddero nel fiume, mentre la mosca volò via. È l'esempio di come una minuscola differenza nell'energia data, può risultare un'enorme differenza nell'effetto prodotto. Proprio questo mese a Venezia minuscoli insetti hanno reso impossibile in aeroporto l'atterraggio e il decollo per ore e ore. Ora, se una farfalla o un insetto minuscolo può avere tali effetti, nessuno può sottovalutare l'effetto e il valore di ciò che ogni persona comune può fare o le conseguenze potenziali di un'iniziativa di ogni piccolo gruppo di persone che abbiano una visione del futuro. Chiunque intraveda un possibile futuro o formuli un progetto potenzialmente realistico e che faccia uno sforzo notevole per ottenere un sostegno per il suo "Futuribile" -il suo possibile futuro - è un creatore del futuro, un costruttore di storia, un profeta. Perché il profeta non è tanto una persona che predica il futuro perché accadrà; egli è una persona che fa in modo che il futuro avvenga perché egli lo predice. Attraverso l'intuizione e la visione preveggente, egli identifica una possibilità futura che è desiderabile e che poi infonde nell'uomo, suo compagno, come fine per cui lottare e da raggiungere. Spero che il mio contributo di un quarto d'ora sia, in qualche modo, come lo sbattere delle ali di una farfalla a Rimini, ma con un effetto costruttivo nello sviluppo della cultura popolare negli anni futuri. Voglio perciò condividere con voi e chiedervi una cooperazione nel considerare lo stato della cultura popolare oggi. C'è un detto che ci arriva dall'antica Grecia che è vero oggi come è sempre stato, ed è questo: "Gli dei che voi adorate scrivono i loro nomi sul vostro volto". In questo detto c'è una ricchezza di significato: esso concentra immediatamente la nostra attenzione sul legame fra culto e cultura, sulla qualità della nostra adorazione e la qualità del nostro stile di vita. Di conseguenza, ci sarà sempre bisogno di promuovere in modo positivo lo sviluppo culturale come espressione della simbiosità fra religione e cultura. Ci sarà anche un bisogno corrispondente di superare la dicotomia tra fede e cultura di massa secolare. Una cultura che cresce da un'esperienza di culto che dona alla vita scopo e significato, cioè una cultura che si sviluppa dal senso religioso, dal coinvolgimento attivo e dalla partecipazione alla liturgia e alla vita sacramentale della Chiesa, e che conduce, passo dopo passo, ad una conoscenza più profonda ed alla pratica di un'autentica religione; una tale cultura si trova al polo opposto rispetto a una cultura secolare di massa che approfitta dell'urgenza di sfuggire dall'illusione di un'esistenza senza fine e senza senso. Il senso religioso è una dimensione di vita radicata nel profondo, la base da cui attingere per essere creativi, per far la storia ed essere autori del dramma della nostra stessa esistenza. Questo per contraddire Shakespeare quando scrisse: "Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne semplici attori". Noi non siamo solo attori, noi siamo gli autori delle parti che recitiamo nel dramma della vita. t questo senso religioso che le persone possono nutrire per dare direzione e qualità alla loro esistenza e per innalzare il livello di cultura e di civiltà. Quando il senso religioso non è coltivato, soffre degli inevitabili risultati della trascuratezza: esso appassisce, e le persone sono di conseguenza ridotte e si pongono ad un infimo livello di vita. La scelta è tra il diventare agenti attivi del nostro stesso sviluppo umano oppure oggetti passivi delle pressioni esercitate dal consumismo, dal materialismo e dalle molte forme di cultura secolarizzata separata dalla religione. Come agenti-attivi e cooperatori del nostro stesso sviluppo umano noi realizziamo le nostre potenzialità e diventiamo simboli di ciò che St. Ireneo diceva con le parole: "La gloria di Dio è un uomo pienamente vivo!" (oggi questa è una cultura impopolare!). Co me semplici oggetti passivi di una cultura prodotta dalla massa popolare, le nostre vite diventano caricature simboliche di ciò che noi avremmo potuto essere. Ci sono naturalmente molte manifestazioni di cultura popolare che sono autentiche espressioni di tradizioni che hanno ancora significato e vitalità; di una cultura popolare che manifesta ancora reazioni contro il consumismo e il materialismo; e ci sono molti tipi di avvenimenti ed attività culturali che sono celebrazioni ed affermazioni genuine della creatività in forme popolari. Ma se la prima opera d'arte dell'uomo è la sua stessa vita, come sono lontani dall'arte del viver coloro che sono intrappolati in forme di cultura popolare come le bande giovanili di molte città americane, i teppisti del football inglese e le molte altre bande e gruppi in cui si raccolgono i giovani di tutti i Paesi. Queste sono le forme e manifestazioni di cultura popolare - e pochi Paesi ne sono liberi - che rappresentano una vera sfida a chiunque creda che ci deve essere un modo per fornire espressioni culturali alternati ve, per i molti che vorrebbero rispondere ad iniziative condotte da chi è in posizione di privilegio e che potrebbero provvedere la guida necessaria. Le proposte sono perciò basate sulla supposizione che lo sviluppo umano e culturale per la maggior parte della gente, per i molti e non solo per l’élite, potrebbe essere incrementato prendendo iniziative tese ad elevare il livello della cultura popolare in ogni comunità. Ci troviamo davanti ad un problema e a una sfida: cosa si può fare per dare alla gente nuovo coraggio nella lotta per migliorare la qualità della loro vita? E dove sono le persone che risponderanno a questa sfida? Se ci viene chiesto se siamo soddisfatti del livello di cultura popolare e della qualità di vita vissuta dalla grande maggioranza della gente, cosa potremmo rispondere se non "No"? La prima risposta allora è fare il primo passo chiarendo cosa noi intendiamo per "cultura popolare"; esaminando i livelli che prevalgono nelle nostre stesse comunità, e considerando come tali livelli potrebbero essere migliorati stimolando e motivando le persone a sviluppare la loro potenzialità come esseri umani creativi e pienamente vivi. Oltre a quanto stanno già facendo le organizzazioni esistenti, c'è ancora bisogno di un maggior sforzo coordinato per offrire un'occasione focale regolare su larga scala, per coinvolgere tutta la gente in un'impresa che includerebbe tutte le arti. La seconda proposta è che tale impresa potrebbe assumere la forma di un progetto per l'organizzazione di un congresso culturale biennale e di una mostra internazionale delle arti ogni due anni successivamente in ogni Paese europeo. In preparazione a questo si potrebbero formare comitati e gruppi, possibilmente quest'anno, a livello locale e nazionale, nel primo Paese da stabilire. Il lavoro iniziale sarebbe un'indagine sulla domanda probabile per tutte quelle opere d'arte che potrebbero essere richieste dalla gente per le loro case, chiese, scuole, centri e edifici pubblici; come doni in occasioni festive per anniversari, prestazioni, compensi e premi. I comitati ai vari livelli parrocchiale, diocesano e nazionale potrebbero poi impegnarsi per costituire un fondo per acquisire gli oggetti particolari e le opere d'arte per i progetti che li riguardano, per esempio un nuova chiesa, un centro comunitario, una scuola o un complesso ricreativo. Tutte queste informazioni sarebbero poi fornite a un comitato centrale organizzativo che a sua volta trasmetterebbe l'insieme dei particolari a artisti, disegnatori, artigiani impegnati a soddisfare le richieste del mercato e dei clienti/mecenati. Questo sommario verrebbe mandato a tutti i Paesi europei non solo a quello che ospita la mostra in quel particolare momento. Questo approccio pratico ai problemi assicurerebbe ad artisti e clienti, informazioni valide e guida affidabile molto prima della mostra, e si darebbe uno stimolo potentissimo a ogni settore artistico dei vari Paesi membri. Un aspetto importante di questa proposta è che fornisca una struttura in cui l'intera comunità cristiana in ogni Paese e ad ogni livello locale, regionale e nazionale potrà inserirsi con il suo contributo specifico per promuovere lo sviluppo umano e culturale. Contemporaneamente gli scrittori, gli attori, i cantanti, musicisti e ballerini dovrebbero organizzare una celebrazione che avrà luogo parallelamente alla mostra; una celebrazione che raccolga il meglio delle diverse e molteplici tradizioni del Paese a cui tutti possono partecipare, sapendo che il loro interesse speciale è anche parte del contributo del loro Paese della grande unità e diversità culturale che noi chiamiamo Europa. In conclusione, noi abbiamo bisogno di credere nella possibilità di una nuova visione del futuro in cui il senso religioso fra i cristiani a tutti i livelli diverrà l'influsso dominante nello sviluppo umano attraverso la cura delle arti, del tempo libero e della ricreazione, della musica, del divertimento e degli sport, e in questo modo nel continuo lavoro della creazione.

J.P. Sironneau:

L'uomo è un animale simbolico, diceva il filosofo tedesco Ernest Cassirer, all'inizio del secolo. Il pensiero occidentale deve riscoprire, al giorno d'oggi, questa evidenza primaria caduta nell'oblio sin dalla fine del Medio Evo, quanto meno nel pensiero ufficiale. Infatti, il pensiero simbolico era ancora fondamentale negli scritti di San Bernardo e di Jean Scoto Erigène, nel XII secolo; ma a partire dal XIII secolo si è andato svalutando, quando nella teologia e nella filosofia trionfarono il concettualismo aristotelico e soprattutto il nominalismo, quando l'Occidente scelse definitivamente Averroé contro Avicenna: il pensiero "diretto", concettuale, spodestava il pensiero "indiretto", simbolico. Tutto questo ebbe gravi conseguenze, poiché se il pensiero indiretto può tendere al di là del regno sensibile, essere un'epifania del mistero, il pensiero concettuale radicato nel realismo della percezione, è orientato piuttosto verso la conoscenza oggettiva delle realtà del mondo profano e il dominio della natura. In tal modo si ponevano le basi del trionfo del razionalismo cartesiano e dell'imperialismo del metodo scientifico, considerato ormai come unica via legittima per accedere alla conoscenza. Dopo Cartesio, il simbolismo non ha più diritto di figurare in filosofia. Per diversi secoli la nostra cultura, almeno nella pedagogia ufficiale, quella delle università, si è volta sempre più verso il razionalismo ed il positivismo, a cui bisogna aggiungere lo storicismo, quel modo di amalgamare i fatti della storia oggettiva in una totalità sostanziale, che pretende da sola di dare un senso all'agire umano, a scapito di qualsiasi Rivelazione. L'Occidente ufficiale, all'apice della filosofia illuminista, ma soprattutto dello scientismo positivista, credeva che la "ragione" avesse definitivamente vinto la "superstizione" come si diceva allora, e che la coscienza intellettuale avesse sostituito la coscienza simbolica (o mitica), relegata ad un'epoca ormai superata dell'umanità. Ebbene, cosa vediamo oggi? Il ripristino del pensiero simbolico, una consapevolezza del tutto nuova dell'importanza del simbolo per la psiche individuale, nonché per la vita sociale o l'esperienza religiosa. Questa restaurazione è stata certamente preparata nel XIX secolo dal romanticismo tedesco, dai lavori di Herder, di Creuzer, di Schelling, dagli scritti del poeta inglese Coleridge; per questi autori, tramite il simbolo e l'immagine, l'anima umana può superare la percezione sensibile ed incamminarsi verso l'infinito, verso il mondo invisibile dello spirito e delle sue opere; l’immaginazione umana non è soltanto riproduttrice, copia della percezione, e anche creatrice ed escatologica: al di là del crollo e della finitezza, conduce ad un senso plenario; al di là della molteplicità, conduce alla unità perduta; grazie all'immaginazione, il poeta e il profeta sono dei veggenti ed è tramite il simbolo e l'immagine che avviene questo avvicinamento. Alcuni decenni più tardi, la nascita e gli sviluppi di nuove discipline (psicanalisi, etnologia, sociologia) procedevano nel senso di una rivalutazione dell'immagine, del simbolo e del mito. Tuttavia, molto spesso il modo in cui queste discipline parlavano del simbolo peccava di riduzionismo ambientale. Così, per Freud, se il simbolo deve svolgere un ruolo fondamentale nella vita psicologica, se è dotato di un'efficacia intrinseca, si riduce, tuttavia, alla sua funzione dissimulatrice; questo perché la censura vieta certe immagini derivanti dalla pulsione libidinale che queste obbligatoriamente simboleggiano, nel racconto del sognatore, ad esempio, o nei miti religiosi: le immagini e le illusioni sono percepite come simboli di un conflitto d'origine libidinale, represso sin dai primi anni d'infanzia; l'immagine e il simbolo, in questa ottica, sono sempre associati ad una sessualità immatura e insoddisfatta. La prima sociologia ha avuto il merito di scoprire l'importanza del simbolismo sociale: un gruppo ha bisogno di 'simboleggiarsi', vale a dire di rappresentare la propria unità in forma sensibile; la formazione della coscienza collettiva presuppone la mediazione di segni, fattori di comunione umana: "è emettendo un grido unanime, pronunciando una medesima parola, facendo lo stesso gesto, che gli individui si mettono e si sentono d'accordo" (Durkheim). Questi simboli sociali sono parte integrante della rappresentazione che il gruppo fa di se stesso, e la vita sociale è possibile soltanto tramite un vasto simbolismo. Tuttavia si era fortemente tentati di considerare il simbolo unicamente come un puro prodotto sociale, di vedere in esso soltanto un segno arbitrario necessario alla comunicazione umana e spiegabile dal contesto, un semplice codice, pura convenzione, frutto di un consenso passeggero. Il sociologo, offuscato dalle variazioni culturali, si rifiuta, molto spesso, di porsi la domanda dell'universalità dei simboli e degli archetipi; volendo vedere nel simbolo soltanto un patto sociale, non coglie la profondità ontologica del simbolismo. L'antropologia strutturale di Claude Levi-Strauss è un'altra forma moderna di versione riduttiva del simbolismo. Certamente, Levi-Strauss sconvolge la prospettiva sociologica tradizionale: secondo lui è la società ad essere un effetto del simbolismo e non il simbolismo un effetto della società, un puro prodotto sociale: il simbolo diventa fondatore ed elemento costitutivo del legame sociale, una cultura non essendo nient'altro che un insieme di sistemi simbolici di cui fanno parte il linguaggio, le regole di consanguineità, i rapporti economici, ma anche l'arte e la religione. Tuttavia, l'antropologia strutturale vuole interpretare i simboli soltanto all'interno di una combinazione formale, essa stessa spiegabile tramite le leggi di un inconscio strutturale. I simboli non hanno un significato in sé, non rimandano ad alcuna trascendenza né ad alcuna alterità; hanno senso soltanto per il posto che occupano in una sintassi, ossia quella del mito. Non sono i simboli ad essere significativi, ma i rapporti che hanno fra essi; il simbolismo si trova ridotto ad un gioco di categorie logiche, la cui funzione va ricercata nei difetti del sistema sociale: è soltanto uno strumento logico per risolvere una contraddizione sociologica; non rimanda ad alcun significato plenario che vada al di là dei determinismi psichici o sociali. Questa concezione, secondo Paul Ricoeur, è una forma estrema dell'agnosticismo moderno. Nell'antropologia e filosofia contemporanee, si sono dovute attendere le opere di Jung, Cassirer, Mircea Eliade, Gilbert Durand o Paul Ricoeur perché fosse riconosciuta la dimensione ontologica del simbolismo e l'eminente dignità dell'homo symbolicus. La conoscenza simbolica, come processo generale del pensiero al tempo stesso indiretto e concreto, appare in maniera sempre più evidente, oggi, come il dato principale della coscienza. Ma precisiamo meglio! Il simbolo appartiene certamente alla categoria del segno, a quella forma generica di pensiero indiretto che tende ad un significato a partire da un significante. Ma se non si vuole perdere la più alta funzione del simbolo, quella teofanica, è necessario distinguere bene tre categorie di segni: i segni scelti in modo arbitrario (segni del linguaggio o segnali della circolazione, puramente indicativi), le allegorie (segni non arbitrari, ma che rimangono nell'ordine della convenzione; ad esempio la bilancia, simbolo allegorico della giustizia), infine i simboli propriamente detti, che non sono né arbitrari, né convenzionali, perché il legame fra il significante ed il significato è un legame di necessità; nel caso del simbolo, infatti, il significato non è "presentabile" affatto: non può più riferirsi ad una cosa sensibile, ma ha un significato che comporta una dimensione di assenza; questo vale per la maggior parte dei simboli religiosi, per esempio quelli che descrivono la vita nell'al di là, oppure, nei Vangeli, quelli che illustrano a che cosa assomiglia il Regno di Dio. Qui giungiamo al tema centrale del nostro Meeting: c'è una stretta connessione fra la natura del simbolo e la ricerca dell'infinito. La definizione del simbolo richiede l'apertura all'infinito, ad un "numen". Quando, ad esempio, dico che Dio è luce, innanzitutto non potrei dirlo altrimenti (esiste un legame di necessità tra il significante luce e il significato assente Dio), in secondo luogo questo modo simbolico di parlare è sempre inadeguato: il significante concreto, tratto dall'esperienza che ho della luce sensibile, non riuscirà mai ad esprimere la bellezza luminosa del divino. In definitiva, poiché il simbolo non potrà mai presentare in maniera adeguata ciò che significa, vale soltanto per se stesso; "non potendo raffigurare la trascendenza non raffigurabile, scrive Gilbert Durand, l'immagine simbolica è trasfigurazione di una rappresentazione concreta tramite un significato pur sempre astratto. Il simbolo è quindi una rappresentazione che fa apparire un senso segreto, è l'epifania di un mistero". Per questo motivo il significante nel caso del simbolo, contiene il massimo di concretezza; possiede, in particolare, afferma Ricoeur, tre dimensioni quanto mai concrete: è al tempo stesso cosmico (attinge dal mondo visibile che ci circonda), onirico (è radicato nei nostri ricordi e nelle immagini dei nostri sogni), poetico (fa appello al linguaggio più estroso, più concreto). Ma poiché il significante è concreto, il significato è estremamente aperto: tende a qualsiasi tipo di qualità più o meno rappresentabile; un simbolo concreto come il fuoco o la luce porta a molteplici significati rinnovabili all'infinito. È stata spesso sottolineata l'ambiguità e la polisemia del simbolo: come una rappresentazione teatrale o uno spartito di musica, è sempre aperto a nuove interpretazioni, a nuove riprese di suoni. In quest'apertura sull'infinito va ricercata la funzione teofanica del simbolo. Il simbolo può avere senz'altro altre funzioni; ad esempio svolgere un ruolo terapeutico, di equilibrio mentale per la psiche individuale - e Jung, come pure Cassirer, direbbero che la malattia mentale è soprattutto perdita della funzione simbolica -; per una società, può anche essere fattore di integrazione culturale, ma è nella dimensione teofanica che si svela la natura più profonda del simbolo: anziché contraddire le altre, quest'ultima funzione le assorbe in un fine ultimo di trascendenza; la funzione simbolica si risolve allora in gerofania, in manifestazione del sacro. In altri termini, il simbolo possiede in se stesso il proprio superamento: per la sua inadeguatezza, costringe lo spirito a foggiare continuamente nuove rappresentazioni; pensiamo a tutti i simboli che si sono potuti immaginare per raffigurare il divino (il sole, la luce, l'amore, il fuoco, la vita, l'acqua sorgiva, ecc. ... ). Un simbolo non è mai definitivo, né mai caduco, può essere ripreso in continuazione; l'antico simbolo della croce, pur conservando i suoi antichi significati, è stato reinterpretato in modo del tutto nuovo nel cristianesimo, poiché la verità del simbolo è sempre avanti nella novità creatrice dello spirito. Analogamente, parlando dell'apertura del simbolismo scritturale, Paul Ricoeur dice che quest'ultimo "segna lo sviluppo del linguaggio verso l'altro diverso da sé" e che ciò è possibile soltanto a causa dell'ambiguità dell'essere. Con questa funzione teofanica, il simbolo collega di continuo gli oggetti sensibili al mondo del sacro: è l'intermediario tra il mondo sensibile e quello invisibile. Da qui l'importanza della figura dell'Angelo nella simbolica religiosa, delle religioni del Libro: l'angelo è il simbolo della funzione simbolica stessa, intermediario fra l'anima umana e il dio nascosto. Come possiamo vedere c'è uno stretto rapporto fra rivelazione religiosa e pensiero simbolico: qualsiasi rivelazione, che è discesa degli. eventi nella storia, necessita un continuo ritorno alla fonte rivelatrice; questa discesa e questo ritorno presuppongono la mediazione del simbolo. E' per questo motivo che ogni religione, prima di essere un corpus dogmatico o un universo di valori, è innanzitutto una simbolica, in cui si manifesta una tensione tra una certa universalità dei simboli propria del genere umano ed una singolarità propria di un contesto particolare che è al tempo stesso religioso, sociale, culturale. Qualunque simbolismo, data la sua apertura, tende verso una universalità archetipica, come dimostrano le opere di Mircea Eliade o di Gilbert Durand. Per quanto riguarda la singolarità culturale dei simboli, ogni popolo, ogni religione conferiscono ad essi significati specifici. Si prenda l'esempio dell'ebraismo e del cristianesimo: ciascuno, da parte sua, ha arricchito la simbolica universale di cui abbiamo parlato: il padre nell'antico testamento, pur essendo capace di collera e di sdegno, è innanzitutto un padre misericordioso attento al comportamento etico dei propri figli; nel Vangelo, il padre dei Cieli si rivela soprattutto come l'essere nel quale avere piena fiducia: nutre gli uccelli dei campi e fa piovere sui giusti e gli ingiusti. L'arricchimento simbolico operato dal Cristianesimo è ancora più evidente nel simbolo del Figlio. Egli appare come l'unico intermediario del tempo e della storia, attraverso il mistero della sua nascita, della sua morte e della sua resurrezione; il significato di questo mistero è molto diverso da quello prevalente presso certi culti agrari dove un giovane dio, ad esempio Attis, genio solare e agrario, figlio della grande madre degli dei Rhea, moriva e rinasceva ogni anno; qui la salvezza avviene una volta per tutte (ephapax) tramite il sacrificio del Cristo: "E in questo momento, una volta per tutte, alla fine dei tempi, dice San Paolo, che egli si è manifestato per eliminare il peccato con il suo sacrificio", e quest'ultimo regge, ormai, il destino di ogni uomo. Vediamo, quindi, che la simbolica ebraica e cristiana, pur utilizzando simboli di portata quasi universale, li arricchisce, li purifica, li distingue dagli altri. L'originalità e la singolarità della fede cristiana non si situano a livello delle strutture particolari del linguaggio, ed ancor meno dei grandi simboli i quali, sono universali. Tutt'al più si può dire che lo scrittore sacro ha operato una purificazione del materiale simbolico e ha dato prova di saper discernere. La comunità cristiana ha potuto altresì arricchire gli antichi simboli di nuovi significati: P. Daniélou lo ha mostrato in maniera mirabile per i simboli cristiani primitivi (la palma, la corona, la vite, l'acqua viva, il pesce, la nave, l'ascia, ecc. ... ). Finora ho parlato soltanto, dei simboli rappresentativi, che si basano sul linguaggio e che sono disposti, per lo più, a forma di racconto; non bisognerebbe dimenticare i simboli rituali che si basano sulla ripetizione di gesti sacri, oppure i simboli iconografici che sono la copia di un luogo, di un volto, di un modello o che sono un'immagine dipinta riprodotta in numerose copie e destinata ad alimentare la pietà contemplativa dei fedeli. A questo proposito, va notata l'originalità della simbolica iconica, propria del cristianesimo orientale, che realizza al massimo livello il potere del simbolo di riconduzione e di epifania sovrannaturale e valorizza al tempo stesso la rappresentazione del volto umano, pur superandola e trasfigurandola. Soltanto la simbolica religiosa, quindi, attua l'intenzione nascosta di ogni simbolismo: soltanto questa permette di trascendere il provincialismo e la limitazione socioculturale insiti in qualsiasi simbolo, operando l'apertura all'infinito e la tendenza ad una alterità "numinosa". In un'epoca in cui si parla molto di dialogo fra le religioni e di ecumenismo, 9 terreno del simbolismo sembra particolarmente adatto ad avvicinare gli uomini nella consapevolezza fraterna di un patrimonio comune, fondato sull'unità creatrice dello spirito umano, al di là delle legittime differenze e dei radicamenti necessari. Resta ancora ' un punto da chiarire: basta parlare del simbolismo? Non bisogna forse viverlo? Certamente, ma faccio notare che il simbolo è di per sé un potente trasformatore di energia: basta nominarlo, perché appaia questa energia, poiché impone un lavoro su se stessi. La sua efficacia e il suo dinamismo sono pienamente espressi nell'azione liturgica, al centro di una tradizione religiosa. L'ermeneutica del Libro sacro e la vita sacramentale sono le due vie principali dell'efficacia simbolica. Se l'ermeneutica è, secondo Paul Ricoeur, "la consapevole ripresa di un fondo simbolico surdeterminato da un interprete che si pone allo stesso campo semantico di ciò che capisce", l'interpretazione del testo sacro è l'atto in cui si manifesta il pensiero indiretto e l'esperienza simbolica, per eccellenza: infatti il Libro è Rivelazione, apparizione attraverso una lingua, una scrittura del Verbo divino considerato come pregnanza simbolica esemplare; la sua interpretazione è quindi inevitabilmente ripresa del Verbo iniziale, ritorno ad un senso originario e plenario. L'altro legame con una forte efficacia simbolica è, evidentemente, la vita sacramentale: il segno simbolico che rappresenta il sacramento è la ripetizione di un gesto del Cristo e quindi consente l'effusione della vita divina nel mondo e nell'anima umana; nel cristianesimo, il sacramento ha un rapporto diretto con il mistero pasquale, sorgente di ogni efficacia spirituale: opera simboleggiando e simboleggia operando; pertanto, realizza al massimo l'efficacia del simbolo. E per questo motivo che nel Cristianesimo, il sacramento per eccellenza è l'eucarestia. Ma tutti i sacramenti partecipano con la stessa efficacia spirituale. Una religione può rimanere viva, soltanto se l'espressione liturgica e simbolica continua ad esserne il perno, prima di qualsiasi razionalizzazione di tipo dogmatico o etico. Quando si assiste al deterioramento della funzione simbolica, allora la religione, come la società da cui è generata, è in via di laicizzazione. È questa la situazione in cui ci troviamo attualmente. Noi siamo gli eredi del simbolismo cristiano, ma abbiamo dilapidato questo patrimonio: viviamo in un'era di impoverimento simbolico. L'ideologia tecnico-scientifica, che guida le coscienze odierne, è l'esatto contrario di questo impoverimento, poiché separando il soggetto e l'oggetto, la volontà e la rappresentazione, ostacola il libero gioco del pensiero simbolico, basato sulle corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo, sull'ambiguità dell'essere e sull'apertura infinita del senso. Le Chiese hanno la loro parte di responsabilità in questo deterioramento: l'aspetto liturgico, misterico, teofanico della Rivelazione è stato svalutato a vantaggio della razionalità teologica o dell'etica, individuale e sociale; molti teologi hanno seguito fedelmente la demitologizzazione, come molti chierici hanno favorito la laicizzazione delle istituzioni religiose. Nonostante ciò, simboli e miti non sono scomparsi nel nostro mondo moderno, ma anziché essere armonizzati in una visione religiosa coerente, come un tempo, anziché contribuire all'edificazione della persona individuale e all'integrazione culturale delle comunità, proliferano anarchicamente. Come fa notare Mircea Eliade, il simbolo e il mito appartengono alla sostanza stessa dello spirito umano: "si può mascherarli, mutilarli, degradarli, ma non si riuscirà mai ad estirparli". Il nostro mondo brulica di residui mitici di ogni tipo. Simboli e miti si ritrovano in abbondanza, per esempio, nella letteratura contemporanea (romanzo, fantascienza) e nelle arti plastiche, nel cinema, nella pubblicità, nei fumetti, nei mass-media: miti e simboli del paradiso perduto, della città ideale, delle isole felici, dell'iniziazione eroica, del giusto perseguitato, della fanciulla redentrice, ecc. Molte tracce mitiche e simboliche sono riscontrabili anche nelle varie ideologie politiche di salvezza (comunismi, fascismi, nazionalismi) che hanno scosso il nostro ventesimo secolo e hanno ampiamente mostrato la loro nocività. Infine, sotto i nostri occhi, nelle nostre società cosiddette laicizzate, si sviluppa tutta una religiosità ambigua, espressione del malessere spirituale del nostro tempo; sette più o meno aberranti, sincretismo di vario tipo, orientalismi dozzinali, gruppi occultisti, studi di astrologi, comunità sorte dalla controcultura; tutti questi fenomeni esprimono a nodo loro sia l'impoverimento simbolico della nostra cultura, sia la ricerca di nuove espressioni del sacro. Ma nella maggior parte dei casi questa religiosità resta allo stato selvaggio: sintomo effimero della moderna impotenza. A questo proposito si è parlato di simulacri del sacro: "l'illusione scientista, afferma Paul Ricoeur, e il ritiro del sacro nei propri simulacri appartengono entrambi ad un medesimo oblio delle nostre radici". Ma se c'è simulacro del sacro è perché c'è deterioramento del simbolo. I due fenomeni sono correlativi e sono esattamente l'opposto di quanto facevamo notare sopra, ossia che l'accessione al mondo del sacro esige l'apertura del simbolo. L'eventualità di questo deterioramento deriva dal paradosso del sacro; Esso, infatti, può manifestarsi solamente attraverso oggetti finiti che lo sostengono e lo rappresentano, ma che allo stesso tempo lo limitano: può tendere ad un altro mondo infinito soltanto facendo ricorso ai significanti finiti del nostro mondo, e questo porta alla tentazione di limitatezza del senso degli stessi. Se non si attua l'intento teofanico è perché la distanza tra significante e significato, tra manifestazione e "numen", non è più sufficiente. Siamo alle prese, quindi, con quello che la nostra tradizione religiosa chiama idolatria: il sacro si ferma all'oggetto finito, che è venerato per se stesso e non svolge più la sua funzione gerofanica. E in questo senso che va visto il deterioramento del simbolo. Al contrario, qualsiasi esperienza religiosa autentica presuppone una tensione tra il significato divino assente, il Deus absconditus, il Santo dei Santi della tradizione ebraica, e i simboli, che lo rivelano a una coscienza umana finita.