Martedì 28 agosto, ore 17.00

AMERICA: PICCOLO, GRANDE MITO

Partecipano:

John Rao,

statunitense, professore di materie storiche nelle università St. John’s e Fordham, New York

Gay Talese,

statunitense, scrittore

Enrique Marius,

uruguaiano, vicesegretario e direttore del Dipartimento relazioni internazionali della Centrale Latino-americana dei Lavoratori (CLAT)

Per generazioni d’emigranti l’America è stata un mito. Che cosa è stata poi nella realtà per gli emigrati, una volta che essi si furono stabiliti nella "terra promessa" al di là dell’Atlantico? La domanda viene rivolta a tre personalità americane di origine italiana, John Rao, Gay Talese ed Enrique Marius, discendenti rispettivamente da emigrati lucani di Potenza e siciliani di Palermo, calabresi di Maida (Catanzaro), ed infine friulani di San Daniele.

J. Rao:

Oggetto del mio intervento sarà in particolare l’impatto dell’immigrazione cattolica, italiana e non, su una società come quella degli Stati Uniti, che fino agli ultimi decenni del secolo scorso era in larghissima misura protestante, e sulla quale l’influsso della mentalità puritana dei primi coloni continuava e continua ad essere della più grande importanza (…). Salvo una minoranza di immigrati relativamente colti ed in buone condizioni economiche (tedeschi per la maggior parte) il grosso degli immigrati cattolici che cominciarono ad affluire negli Stati Uniti dalla metà del secolo scorso in poi era costituito da gente molto povera ed assai poco letterata proveniente dapprima dall’Irlanda e in seguito, dopo il 1880, soprattutto dal Mezzogiorno d’Italia e dall’Europa centrorientale. In genere gli americani non vedevano di buon occhio questi immigrati cattolici poveri, ritenendoli fonte di tubercolosi, di ribellioni e di atteggiamenti stomachevoli. D’altro canto giudizi del genere non sono del tutto tramontati. In un saggio assai poco saggio un mio studente ha scritto che gli immigrati portavano le malattie, l’anarchismo e l’aglio negli Stati Uniti. Di fronte al problema dell’accoglienza di questa grande ondata migratoria sia dentro la società americana che dentro la Chiesa cattolica americana, verso la fine del secolo scorso nell’ambito della Chiesa emersero due diverse tendenze: quella ‘americanista’ e quella ‘antiamericanista’. Alle origini degli Stati Uniti ricorderò preliminarmente per meglio chiarire i termini del problema c’è la tradizione puritana dei primi coloni. Ebbene, nell’idea e nella pratica di libertà che sono proprie di tale tradizione c’è spazio per i cattolici. ne, non c Oggi il puritanesimo si è in larga misura secolarizzato, ma senza perdere alcuni suoi fondamentali connotati, fra cui principalmente l’individualismo. Secondo il puritanesimo, condizione indispensabile per la libertà è l’individualismo; secondo il cattolicesimo, invece, è la comunità. Di qui un contrasto di fondo, reso ancor più grave dal fatto che, secondo A senso comune americano, gli Stati Uniti non sono soltanto una patria, ma una fede, l’oggetto adorato di una specie di religione laica, così come per i puritani che fondarono il paese nel secolo XVII l’America non era semplicemente una nuova terra, ma una nuova Gerusalemme. Di qui il contrasto, all’interno della Chiesa americana, fra gli ‘americanisti’ e gli ‘antiamericanisti’. I primi in sostanza, condividendo la sacralizzazione "dell’American way of life", ritenevano che gli immigrati avrebbero dovuto essere sollecitati ad integrarsi senza riserve nella società americana, nella quale anche la loro esperienza cattolica avrebbe potuto svilupparsi assai meglio di quanto non fosse stato possibile nei paesi europei da cui provenivano. I secondo erano invece dell’idea che l’integrazione acritica delle grandi ondate migratorie cattoliche nella vita americana non fosse una meta da perseguirsi come ideale, e che anzi si doveva prendere spunto dal loro arrivo, e dal conseguente incremento della presenza cattolica negli Stati Uniti, per rimetterne in discussione l’ideologia puritana. A causa di questa ideologia, infatti, il valore centrale del ‘mito americano’, ossia il valore di libertà, incontra nel concreto dei grossi limiti. Si è già detto della concezione individualistica, che in sostanza finisce per rendere la libertà ben difficilmente praticabile a chi, come i cattolici, la collochi invece in una dimensione comunitaria. C'è da aggiungere poi un altro limite che si assomma a quello appena ricordato, essendo però forse di origine più etnica che religiosa. Gli anglosassoni tengono la compattezza e la stabilità sociale in assai maggior conto di molte altre cose. Di conseguenza se da un lato gli americani mettono in grande rilievo il principio della libertà individuale, dall’altro hanno un grande timore delle sue conseguenze pratiche. In teoria parlano come degli anarchici; in pratica chiunque faccia uso della propria libertà individuale per porre delle vere alternative alle convinzioni comuni viene presto accusato di essere ‘divisive’, di creare cioè delle divisioni, delle discordie. E d'altra parte questo spiega perché correlativamente la parola ‘integration’ abbia tanta importanza negli Stati Uniti. Si afferma il diritto di ciascuno di pensarla come vuole, ma poi si loda chi la pensa come la maggioranza. Questo stato di cose, che si potrebbe tecnicamente definire schizofrenico, e che fa parte del senso comune americano sin dalle origini, fece sì che il problema dell’integrazione degli immigrati cattolici assumesse negli Stati Uniti aspetti del tutto particolari. In questo caso, infatti, il paese d'insediamento non si poneva soltanto come nuova patria, ma anche in qualche misura come nuova religione; e conseguentemente si trattava per i cattolici di decidere se l’America dovesse essere o meno molto più importante per la Chiesa di quanto la Chiesa fosse importante per l’America. Per ora concludo e lascio la parola agli altri relatori. Mi riservo di tornare più tardi su questo tema dell’America come religione á estremamente significativo, ed anche molto triste, che io non possa rivolgermi a voi direttamente nella lingua del paese in cui nacquero i miei padri. Vi devo parlare in inglese, e quindi comunicare con voi tramite interprete; e penso che ciò tuttavia simbolizzi e dimostri molto chiaramente quanto noi figli di immigrati italiani in America ci siamo allontanati dalla terra d'origine dei nostri antenati. La mia sarà una testimonianza venata di malinconia, e ciò è forse caratteristico della mentalità calabrese. I calabresi sono gente di montagna, gente resa sospettosa e diffidente dall’isolamento in cui ha sempre vissuto. Più che figli, i calabresi sono orfani del Mezzogiorno d’Italia. Quelli di loro che un secolo fa emigrarono negli Stati Uniti finirono per restare psicologicamente e culturalmente a mezza via tra l’Italia e l’America. Cento anni dopo, noi italiani-americani non sappiamo più a che cosa apparteniamo. Siamo un po’ degli schizofrenici. Io che in America ho successo come scrittore italoamericano non capisco per niente la lingua italiana e posso scrivere soltanto in inglese, pur se ho un padre che tutt'oggi, dopo una vita passata in America, parla ancora con accento italiano. In questo momento ho una sensazione di difficoltà poiché mi avvedo che, parlando in due lingue così diverse, il mio interprete ed io non riusciamo a far coincidere il ritmo delle nostre rispettive frasi. Ciò mi sembra - ripeto - significativo, e simbolico di un divario che purtroppo è senza speranza. Penso che perché gli italoamericano e gli italiani possano capirsi realmente occorra ancora un'altra generazione; non penso che nel corso della vita mia e della mia generazione potremo arrivare ad una vera comprensione reciproca. Quando nel 1860 Garibaldi unificò l’Italia i miei antenati l’avevano già abbandonata per ripartire da zero in una terra e con una lingua nuove e straniere. Adesso io, figlio di immigrati, torno qui a cercare delle risposte al mio passato. Attualmente sto cercando di scrivere un libro sull’esperienza italoamericana: sarà un libro difficile perché l’esperienza della mia vita è in parte sintonizzata sull’Italia ed in parte invece sull’America. Penso che mi ci vorranno almeno due anni per scrivere questo libro, ma forse, quando sarà ultimato, malgrado l’impossibilità di comunicare direttamente con voi nella vostra lingua, forse allora sarà possibile tra noi una coesione, una comunanza. Per adesso non mi sento di aggiungere altro: troppo sono turbato dalla difficoltà che incontro nel comunicare con voi.

E. Marius:

Cari amici alcune cifre sintetiche meglio ci permetteranno di cogliere le dimensioni del fenomeno migratorio europeo nel Nuovo Mondo nell'arco dei centodieci anni compresi fra il 1820 e il 1930 lasciano l’Europa per l’America 54 milioni di persone, di cui 20 milioni vanno a stabilirsi nell’America Latina, per la maggior parte in Argentina, Brasile, Uruguay e Cuba. Nello stesso lasso di tempo, da un solo paese europeo, l’Italia, emigrò l’11% della popolazione e viceversa, in un solo paese dell’America Latina, l’Argentina, nel 1895, il 25,4 per cento della popolazione era di origine europea; e nello stesso paese, nel 1914, gli emigrati europei costituivano il 46,1 per cento della popolazione economicamente attiva, cioè lavoratori, e si verificavano situazioni simili anche negli altri paesi latino-americani che formano il grosso del ‘cordone atlantico’ del continente Al di sopra di ogni altra motivazione, l’emigrante europeo arriva nel continente latino-americano inconsapevole e portatore naturale di culture diverse, con una particolare sensibilità ai problemi sociali, e anche trasmettitore delle correnti ideologico-politiche che in quell'epoca colpivano l’Europa, centro di elaborazione ed irradiazione. L’emigrazione europea è stata un importante fattore per la nascita di una religiosità popolare che continua fino ai nostri giorni. Difficilmente potremmo trovare in America Latina raggruppamenti umani che non conservino una speciale venerazione per elementi religiosi, di evidente estrazione europea, inoltre conservando le stesse forme di celebrazione Meno casuale e più determinante è il ruolo degli emigrati europei nella nascita e nelle prime tappe dell’organizzazione dei lavoratori in America Latina. Nell’arco dei 25 anni che stanno a metà tra il 1853 e il 1878 compaiono in America Latina i primi tentativi di organizzare i lavoratori e le loro prime lotte per i bisogni elementari di vita e di lavoro interessante costatare che queste prime organizzazioni di lavoratori nascono negli stessi paesi in cui si concentrò l’emigrazione europea (Argentina, Uruguay, Cuba, Brasile, etc.), e in nuclei fondamentalmente di artigiani: tipografi, ebanisti, falegnami, fornai, etc. Va sottolineato che, mentre dall’Europa i nobili e i cosiddetti civilizzatori ci offrirono e portarono assoggettamento, sfruttamento e schiavitù (spesso in nome della cultura, dell’ordine e del cristianesimo europeo), á d’altro canto altri europei, al di là dei propri orientamenti ideologico-politici, furono portatori di un messaggio di impegno, di giustizia e libertà per i lavoratori latino-americani. Questa contraddizione della presenza europea in America Latina non costituì in nessun modo un’impronta determinante per lo sviluppo storico ma si integrò (quasi in modo naturale) con le contraddizioni emergenti da un continente le cui grandi masse di indigeni ed emigrati furono e sono colonizzate, emarginate e sfruttate da minoranze a loro volta indigene e di emigranti. Non possiamo distinguere tra discendenti di immigrati e latino americani autoctoni nei fitti cimiteri di vittime dei regimi totalitari, né in mezzo ai torturati ed alle persone incarcerate perché ree di difendere diritti e le libertà dei nostri popoli. Nemmeno tra i dirigenti delle società multinazionali e tra i sostenitori dei regimi totalitari di qualunque giustificazione ideologica. Negli anni ‘70 l’America Latina è anche divenuta sempre più spesso non un mito verso cui dirigersi, ma una dura realtà da cui fuggire. In quel decennio due milioni e mezzo lasciarono l’Argentina, un milione il Cile, un altro milione Cuba, cinquecentomila la Bolivia, ed altrettanti rispettivamente l’Uruguay e il Perù. Attualmente risiedono negli USA più di cinque milioni di messicani e vari milioni di altri latino-americani. Nel Venezuela abitano ora tre milioni di persone provenienti da altri paesi latino-americani. Il 25% dei paraguaiani vive fuori dal Paraguay, più del 20% degli haitiani sparso per i Caraibi, in Canada e ne li Stati Uniti, per non parlare dell’esodo dai paesi dell’America Centrale. Tutto ciò è una chiara conseguenza del ruolo che i centri di potere egemonico mondiale hanno assegnato all’America Latina: campo di sperimentazione dei modelli politici, economici, sociali, aree di influenza di modelli culturali che per niente corrispondono alle aspirazioni ed alle esigenze dei lavoratori e dei popoli. Stiamo soffrendo, paghiamo il prezzo ed assistiamo al fallimento dei modelli in favore dello sviluppo. Ancora oggi, oramai verso il tramonto, soffriamo, paghiamo il prezzo (doloroso rezzo di sangue e miseria) ed assistiamo al fallimento dei modelli totalitari. La democrazia non solo costituisce oggi una sfida per i nostri popoli, ma soprattutto è, al di là di elucubrazioni teoriche, un’esigenza sentita ed un’aspirazione legittima dei lavoratori latino-americani. Siamo impegnati a lavorare per una completa liberazione dell’uomo. Una liberazione integrale che non può essere concepita al di fuori del contesto di una nuova civiltà, una civiltà di solidarietà, di sfida a tutti gli uomini di buona volontà, in cui l'uomo possa rincontrarsi con la natura, con il suo prossimo e sia in grado di condividere e proiettare la sua capacità spirituale trascendente. Al di sopra del piccolo grande mito, questa è la nostra speranza, questa è la nostra lotta per la pace. Una pace che dobbiamo recuperare dalla condizione di mito che molti vogliono attribuirgli. Una pace che mentre per molti fratelli del primo mondo è sinonimo di tranquillità, di benessere, di silenzio, per altri, specialmente nel terzo mondo, è un fattore di lotta, di lotta per la sopravvivenza, di lotta per la giustizia, di lotta per la libertà

J. Rao:

Continuando il discorso iniziato nel mio primo intervento vorrei in primo luogo ribadire gli aspetti mistificatori del concetto di libertà che predomina negli Stati Uniti e che costituisce – dicevo – un’eredità della loro origine puritana e della loro predilezione tipicamente anglosassone per la compattezza e per la stabilità. Tanto più che ora che si è di fatto secolarizzata, questa concezione finisce per imprimere alla società americana un carattere marcatamente materialistico ed autoritario. Nella società americana contemporanea pensare è un'attività disdicevole e socialmente pericolosa perché pensando può accadere che emergano idee nuove che poi contrastano con quelle consolidate e quindi creano divisione. Non si può dire nulla di significativamente nuovo o comunque diverso dalle opinioni comuni. Nel medesimo tempo è doveroso affermare che si è liberi; però la libertà creativa è gradito trovi applicazione soltanto nel campo della produzione materiale. La creatività è benvenuta, per esempio, in campo pubblicitario; le agenzie pubblicitarie sono piene di 'creativi' tra la soddisfazione generale. Se accadesse invece lo stesso nelle università e nelle redazioni dei giornali molti troverebbero la cosa assai preoccupante. In quanto poi al dibattito, all’interno della Chiesa cattolica, fra ‘americanisti’ e ‘anti-americanisti’, l’esito è stato il seguente: in sede dottrinale la Chiesa ha correttamente respinto la posizione ‘americanista’, ma poi non è stata altrettanto chiaroveggente in sede pastorale. Non si è resa conto cioè che la linea ‘americanista’ si sarebbe imposta di fatto nelle masse degli immigrati cattolici poveri ed illetterati e dei loro discendenti, se non ci si fosse impegnati a fondo a far loro prendere coscienza degli elementi essenziali del cattolicesimo in modo via via adeguato al crescere del loro radicamento nella società americana. Essendo mancato tale impegno, il dopo Concilio Vaticano II ha avuto sui cattolici americani un effetto del tutto imprevedibile e difforme dall’effettivo contenuto dei documenti conciliari. Il grosso dei cattolici americani ha colto quasi soltanto le dichiarazioni in tema di pluralismo e di ecumenismo, e le ha interpretate come un consenso della Chiesa a quell’individualismo americano di matrice puritana cui già ho accennato. Si è sentito cosi finalmente libero di risolvere il contrasto fra l’esperienza cattolica e l’ideologia americana nel senso di un assorbimento della prima nella seconda. Trionfa oggi insomma, nella realtà dei fatti, la linea ‘americanista’. Chi dunque la pensa come me si trova – credetemi - in una ben difficile situazione. Siamo americani, vogliamo vivere in America, né avrebbe alcun senso per noi pensare di fare ritorno ai luoghi da dove emigrarono i nostri antenati. Siamo cattolici e dato che cerchiamo di essere realmente tali non 'è spazio per noi in una società in cui non si ha idea di che cosa si realmente il pluralismo. Vorrei dire ancora, prima di concludere, che penso voi possiate aiutarci, ed aiutarci in questo modo: non prendendo gli Stati Uniti come modello, poiché si tratta di un modello deformato, ed aiutando così gli americani a capire che la verità e la libertà vengono da Gesù Cristo e non dagli Stati Uniti

In precedenza Talese aveva rinunciato al suo secondo intervento dicendo di preferire che fosse dato più tempo alla risposta a domande parla brevemente e soltanto provenienti dal pubblico. Anche Marius per esprimere a Rao gratitudine ed apprezzamento. E Inizia quindi un dialogo con il pubblico di cui riportiamo qui in sintesi alcune parti.

Domanda a E. Marius:

Non sono stati capaci di risolvere i problemi dell’America Latina né il capitalismo, né il colonialismo, né il neocolonialismo. Se ne stanno dimostrando incapaci anche il marxismo di Cuba e del Nicaragua. E voi sindacalisti cristiani latino-americani in quali direzioni cercate la risposta a questo problema?

E. Marius

La nostra speranza non sta in modelli prefabbricati; la nostra speranza sta in ciò che noi latino-americani possiamo fare. In tale prospettiva aspiriamo all’unità dell’America Latina; le attuali frontiere dentro l’America Latina non sono state create dai latino-americani, e anzi esistono fra i lavoratori, nel popolo latino-americano, il sentimento e la necessità di una grande patria latino-americana. Se ci chiedono quale modello fra quelli che esistono noi potremmo accettare, noi rispondiamo sempre che vogliamo che anche i paesi in via di sviluppo possano elaborare da sé i propri modelli. Siamo coscienti della nostra responsabilità creatrice, e la nostra realtà umana è in grado di generare e dar vita a un modello di civiltà, di società e di sistema, cosi come noi latino-americani lo vogliamo. E per questo che chiediamo per favore che non ci aiutino se ci riferiamo all’aiuto che abbiamo ricevuto fino ad oggi, che non sono aiuti sono imposizioni, diciamo non aiutateci, aiutateci affinché noi latino americani possiamo tutti insieme costruire la società che vogliamo.

Domanda a G. Talese:

Che cosa significa, e che cosa ha significato per lei, essere uno scrittore italoamericano?

G. Talese:

Essere uno scrittore italoamericano, come mi sembra di aver detto individuo con una personalità divisa, scissa. Negli Stati Uniti ci sono nelle mie prime osservazioni, significa essere un individuo schizofrenico, un milioni di americani con antenati italiani. Ebbene, di questi 20 milioni di persone, soltanto due riescono a guadagnarsi da vivere scrivendo in inglese. Molti, moltissimi altri, invece, riescono a vivere ed a guadagnare cantando; altri numerosi sono uomini d'affari e altri ancora sono uomini politici. La lingua inglese è molto difficile, e gli italoamericani non sempre riescono ad averne la piena padronanza. Per aver la padronanza di questa lingua, noi dobbiamo fare in un certo senso uno sforzo di sovracomprensione. Penso che nella traduzione non sempre appaia chiaramente ciò che io intendo dire; come ho detto prima, è frustrante avere sempre questa sovrapposizione, perché non posso mai completare una frase, perché vengo interrotto dalla voce dell’interprete e quindi è difficile comunicare. Ma in termini molto semplici aggiungerò che lo scrittore, gli scrittori della mia generazione, sono quelli di un periodo di transizione. Vi sono pochissimi scrittori italoamericani letti da un largo pubblico, nella prossima generazione, la generazione dei nostri figli tanto per intenderci, cioè negli anni Novanta o nell’orizzonte duemila, vi saranno molti scrittori italoamericani che diventeranno famosi, ed è questo ciò che io mi aspetto e che attendo con ansia.

Domanda a J. Rao:

Sul problema del pluralismo. Non sono d’accordo su quello che a detto Rao, non mi sembra vero che negli Stati Uniti non esiste davvero un pluralismo, ad esempio che un cristiano non possa opporsi con tutti i mezzi che vuole, leciti ovviamente, all’aborto. Non mi sembra vero che sia una società che impedisce di pensare. Certo, se lei vuol combattere contro il materialismo incontra delle difficoltà. E questo capita anche in Italia, che pure è il paese più libero del mondo. Vorrei che mi precisasse il suoi giudizio sul pluralismo cosi come viene vissuto negli Stati Uniti.

J. Rao:

Come ho già detto, la libertà incontra dei grossi limiti in sede sociale, anche se risulta ampia e consolidata in sede istituzionale, politica. Certo, chi dissente dalle opinioni comuni non viola per questo la legge, come accade invece nell’Unione Sovietica (e in questo senso continuo ad essere ben convinto che vivere negli USA sia molto meglio che vivere nell’URSS). Non viola la legge; viola però delle norme sociali non scritte ma molto osservate e rigidamente sanzionate. Diventa perciò colpevole di un delitto che si potrebbe definire di ‘mancata integrazione’. Nessuno lo manda nei lager per questo; però la società lo emargina. La gente lo considera una specie di matto, non può aspirare ad alcun ruolo di tipo direttivo, difficilmente troverà un editore disposto a pubblicare un suo libro. Senza dubbio la situazione dei dissidenti è negli USA assai diversa da quella che si registra nell’URSS. Però la distanza fra le due situazioni è minore di quanto di solito si creda. Pur senza né incarcerare né fucila e negli Stati Uniti si può distruggere la vita e la carriera di un dissidente in modi molto efficaci anche se così sottili da essere difficilmente percepibili da molti osservatori europei.