Mercoledì 26 agosto 1981

"VERSO UN'ALTRA EUROPA: TESTIMONIANZE"

Partecipano:

Joan E. Jarque,

direttore della rivista spagnola " Catalunia Cristiana";

Gino Girolomoni,

fondatore di una Cooperativa agricola per il recupero dell'entroterra marchigiano;

Jean Malaurie,

antropologo, direttore della collana "Terre Humaine".

J.E. Jarque:

Amici, dunque, mi è stato chiesto in questa bella manifestazione d'amicizia fra i popoli di portare la testimonianza di una nazione: la Catalogna. Una nazione che ha saputo mante nere la sua lingua e la sua cultura nonostante tante vicissitudini avverse. Almeno due volte nella sua storia si è e cercato di distruggerla: nel 1714, e più recentemente, nel 1939 e ogni volta la Catalogna è riuscita a rinascere. Ritengo inutile spiegare cosa sia e dove si trovi la Catalogna, ma poiché dobbiamo esporre il fenomeno in realtà poco comune di una lingua e della cultura di una nazione piccola e secoli fa potente, conosciuta internazionalmente per la fama dei suoi figli - penso a un Pablo Casals -, per questo ritengo sia bene tener presenti alcuni dati. Oggi la Catalogna è riconosciuta dalla vigente costituzione spagnola come una delle nazionalità storiche di cui si compone la Spagna e gode di un ampio statuto di autonomia in via di applicazione. La sua lingua multisecolare è riconosciuta come ufficiale all'interno dei territorio catalano, accanto e a parità di diritti con la lingua castigliana. La sua cultura è ufficialmente protetta e comincia a svolgersi, si vedrà come lo abbia sempre fatto al calore nascente della libertà recuperata. Questa nazionalità ispanica, lasciando da parte la "querelle", per i catalani indiscutibilmente risolta positivamente, sul suo essere o meno una nazione, questa nazionalità ispanica ha un proprio territorio con delle frontiere amministrative chiare, cioè le 4 province di Barcellona, Tarragona, Lerida e Gerona. Ha dei limiti culturali e linguistici abbastanza definiti, dalle Baleari ad Alghero in Sardegna, da Salses nel Rossiglione, oggi francese, fino ad Elche in provincia di Alicante seguendo la costa mediterranea; il principato di Andorra, i territori orientali al di là del fiume Cinca, la provincia di Castellón e le pianure di, Valencia e di Alicante. Vi parlerò dunque della cultura e della lingua di queste terre e degli uomini e delle donne che lì hanno costruito una nazione con alterne fortune negli ultimi dieci secoli. Vi parlerò per quello che sono, cioè non come un esperto di letteratura e di storia, ma come un figlio appassionatamente innamorato del suo popolo, teologo per professione, universitario, viaggiatore frettoloso qualche anno fa per professione, e attualmente giornalista per volontà apostolica. Ascoltate quindi con benevolenza questa relazione necessariamente schematica e voi italiani perdonatemi se mi permetto di parlarvi in una lingua che evidentemente non è la mia e che voi penserete che non sia neanche la vostra. Dunque, il mio tema è la nascita di un popolo. La Catalogna nasce come popolo contemporaneamente agli altri popoli dell'Europa ed è uno dei primi a configurarsi come tale, nonostante le avverse vicissitudini di cui vi parlerò è uno di quei popoli che ha dimostrato maggior caparbietà nel conservare, nello stesso territorio, con la stessa lingua e cultura ed anche con le stesse istituzioni politiche, la sua specifica personalità. La nascita di un popolo non avviene in un istante, ma ha una gestazione secolare. Dopo la caduta dell'impero romano nel V secolo, nel mio paese cominciò a profilarsi un popolo che già i Romani avevano individuato costituendo la provincia "Terraconese". I Visigoti furono abbagliati dalla superiorità latina della nostra gente e piuttosto che sopprimerla tentarono di assimilarla. Gli arabi in Catalogna ebbero un minor influsso che nelle altre regioni della penisola iberica. Nella Catalogna definita come Vecchia, appunto per questa ragione il dominio arabo fu di breve durata. La sconfitta di Poitiers nel 732 fece retrocedere l’Islam al di là dei Pirenei. Gerona fu riconquistata nel 785 e Barcellona nell'803. La riconquista della Catalogna, portata a compimento sotto Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, dà l'avvio alla nascita di alcune contee che più tardi formarono la Marca Ispanica, frontiera dell'impero carolingio con i paesi dei Saraceni, cioè con il resto della Spagna. Questa posizione di frontiera fu utilizzata anche politicamente dai conti e dai marchesi catalani che alternavano a loro vantaggio l'alleanza con i Franchi contro i Mussulmani e con questi ultimi contro i Signori del Nord. Il secolo IX, mille anni or sono, fu il secolo del delinearsi della Catalogna come popolo diverso, con le caratteristiche fondamentali di una nazione; un territorio attorno ad un nucleo centrale, Barcellona; una propria dinastia come elemento essenziale poiché esprime, secondo i concetti feudali, la sovranità dell'uomo nato nel paese e attraverso di lui del popolo; una lingua, tentennante, elemento documentato di sovranità; e delle istituzioni politiche autoctone. La nostra lingua appare già documentata nel sec. XI con le Omelie d'Organyà . Il nome di Catalogna lo dobbiamo presumibilmente agli italiani, poiché appare nel "Liber maiolichinus" scritto dai Pisani nel 1115, dove si parla per la prima volta di Catalania, Catalani, Catalanenses. Grazie a questa testimonianza italiana sappiamo con certezza che nel sec. XII la Catalogna era già conosciuta come tale al di là delle proprie frontiere. Questo piccolo popolo sarà poi osteggiato, ma la sua tenacia gli permetterà di risorgere quando tutto avrebbe potuto far pensare che fosse condannato a scomparire, non soltanto politicamente, ma soprattutto perdendo gli elementi della sovranità fondamentale, secondo la felice espressione di Giovanni Paolo II all'Unesco, cioè la sua lingua e la sua cultura. La Catalogna, costituitasi già come popolo indipendente nel sec. X, afferma la sua personalità politica nei secoli seguenti. Raimondo Berengario III il Grande conquista le Baleari con l'aiuto dei Pisani nel 1115 e arriva alle porte di Valencia. Queste sono conquiste di effimera durata, ma danno slancio alla marina e alle relazioni con la Sicilia, indicando così ai catalani la via della futura espansione e della loro forza. Su questa base politica (è arduo sapere perché al contrario i frutti dello spirito si manifestano più lentamente) la Catalogna dà l'avvio nei secoli seguenti ad una splendida cultura servendosi di una lingua armoniosa e ricca. Diciamo qualche cosa di questa lingua. Ci troviamo certamente fra latini e fra persone colte, che conoscono che cosa sia il Catalano. Purtroppo non è raro che questa lingua venga ignorata e perfino di sprezzata. Mi si permetta di sollevare il caso degli auguri natalizi e pasquali del Papa; bene, in questi auguri si direbbe che la Segreteria di Stato non possa nemmeno trovare un piccolo spazio fra una quarantina di altre lingue per la lingua catalana. L'estensione totale dei territorio dove si parla il catalano, territorio già indicato un momento fa, è di 56.000 kmq. e la sua popolazione supera attualmente i 7.000.000 abitanti in un'area più grande di quella di cinque stati europei: Danimarca, Svizzera, Olanda, Belgio, Albania; è più popolata della Norvegia, della Svizzera, della Finlandia, della Danimarca, dell’Irlanda, dell'Albania e della Islanda. Si tratta di una lingua di derivazione latina, chiaramente diversa da altre simili per il suo vocabolario ricco e pieno di sfumature, per la sua fonetica vicina all'italiano, come vedete per me pronunciare l'italiano non è tanto difficile. Per la sua grammatica è distinta, non soltanto dalle lingue neolatine, ma anche dalle lingue più affini come sono in quest'ordine l'occitano, il portoghese, il castigliano e il francese. Servendosi dunque di questo strumento la Catalogna ha sviluppato fino dall'alto medio evo una splendida cultura. Il romanzo, in prosa e in versi, i racconti, gli apologhi, la storia, la didattica popolare e i temi religiosi furono già coltivati nel sec. XIII. Traduzioni della Bibbia circolavano già da prima dei 1234. Si scrissero libri di matematica, di medicina e anche un lessico generale catalano-tedesco fu stampato già nel 1487. Una delle prime grammatiche e forse la più antica conservata di una lingua moderna, fu scritta da Raimon di Besalù nel 1160. L'uso letterario della lingua raggiunse tutti gli ambienti della nazione; vi parteciparono tutte le classi, tutte le professioni e ambedue i sessi; conserviamo delle orazioni scritte dai re catalani, fra queste per esempio il canto virile di re Pietro il Grande che chiama alle armi il suo popolo per respingere l'invasione francese. Il Principe Giacomo di Maiorca è stato un poeta così costante da tentare durante la prigionia, di tradurre in versi catalani tutto Boezio. Durante il Medio Evo divennero famose delle scrittrici catalane, rarissime d'altra parte nella letteratura dell'epoca, come per esempio Costanza di Maiorca, che compose versi di una gran tenerezza rammaricandosi per l'assenza del marito e suor Isabella di Viliena che scrisse dei trattati mistici. Ma il fatto più importante da questo punto di vista, in una letteratura medievale, è la grande abbondanza di scrittori laici e borghesi. Le figure più rilevanti come Bernat Metge, Desclot, Muntaner, sono figlie della classe media; né loro, né i filosofi o i teologi come il Leull o il Vilanova appartengono al clero e non invano il catalano fu una delle poche lingue in cui fu tradotto il Corano. Nel secolo XV il catalano arriva al suo apogeo come lingua letteraria. Consumata l'unione personale con la corona di Castiglia tramite il matrimonio di Federico d'Aragona con Isabella di Castiglia, nel seguente secolo comincia il tramonto. Ma lo fa lentamente. La letteratura catalana perde non tanto in quantità, quanto in qualità. L'uso della lingua rimane vivo dappertutto, non soltanto in famiglia, ma anche nella vita pubblica e amministrativa, nel diritto e negli affari. I libri di storia e di diritto continuano ad essere scritti in catalano per tutto il seicento, fino al tardo ottocento. E viene la prima oppressione. Nel 1714, una volta sottomesse le terre catalane dagli eserciti centralisti, dopo un'interminabile guerra, la guerra di successione europea c tutti conoscete, Filippo V, il primo Borbone di Spagna, aiutato da un potente esercito francese, impone alla Catalogna sottomessa la legge del vincitore. I castigliani tentano di imporre la loro lingua con qualche successo nel settore pubblico ma nel campo del diritto e nei tribunali il catalano riesce a difendere le sue posizioni con un certo esito. Nell'istruzione pubblica sopravvive fino al punto che l'insegnamento in catalano non fu abolito che nel 1858. E' interessante sottolineare come gli industriali e i commercianti continuano ad usare ostinatamente la lingua del paese. Nella vita privata il catalano rimane la lingua scritta e solo più tardi cade in disuso. E' doveroso ancora fare così come nella predicazione e nella vita religiosa in genere, nella canzone e nella poesia fare l'uso del catalano si sia mantenuto sempre vivo. In una parola non c'è nessuna e nella storia della lingua letteraria e di conseguenza nella cultura catalana, ma solo la mancanza di libertà politica; e questo nonostante la volontà decisa di distruggerla da par castigliani dopo la sconfitta dei 1714. Vediamo adesso il risorgimento catalano e quel italiano. Dopo più di cento anni d'oppressione il risorgimento bussa alle porte. Il nostro risorgimento comincia nel sec. XIX, e precisamente nel 1833, data in cui Aribau, il nostro nazionale, scrive la sua ode alla patria. E, poiché non scrive in un idioma plebeo impoverito e barbaro ma in una vera e propria lingua letteraria, ci mostra sino a che punto è re continuità di cui abbiamo parlato. Immediatamente la poesia ritorna al suo splendore, la prosa letteraria, più tardi gli scritti scientifici e tecnici e finalmente il catalano in campo delle attività governative ed amministrative. "Risorgimento" è una parola che soprattutto in Italia richiede un chiarimento. In qualche modo si può dire che il risorgimento italiano e quello catalano seguono vie contrapposte; ambedue hanno uno sfondo comune: le idee romantiche, nazionaliste e liberali, figlie rivoluzione francese, ma nelle due sponde del Mediterraneo le correnti scorrono in senso contrario per ragioni diverse. Politicamente in Italia, la libertà può essere acquistata soltanto al prezzo dell'unità. Gli stati italiani, disposti come un mosaico spezzato fra diversi sovrani più o meno stranieri e più o meno assolutisti, tendono irresistibilmente alla fusione poiché è l'unica via per far trionfare le idee liberali. Per gli italiani dei risorgimento, la patria è indiscutibilmente l'Italia, che si intravede come il casato comune di tutti i popoli della penisola assetati di libertà. La cultura quindi e la lingua saranno uno strumento in più per ottenere l'ambita unità. Nella nostra sponda le cose si svolgono diversamente. Il paese certo vive le lotte dell'epoca fra l'assolutismo e il liberalismo, che tutto sommato non fanno che indebolire la coesione interna dello stato centrista e unificatore. La Catalogna, che nonostante la decadenza nazionale degli ultimi due secoli aveva conservato non solo i propri caratteri distintivi, ma anche la spinta per resistere all'oppressione, comincia impercettibilmente il suo risorgimento nazionale approfittando la debolezza dello stato centrale. Nella Catalogna la lingua ritrovata e l'amore per la propria cultura sono coltivati come strumenti preziosi per affermare la personalità catalana. La libertà è ricercata soprattutto come mezzo per riacquistare le istituzioni politiche del paese un giorno sovrano e glorioso, che gli furono strappate "manu militari" nel 1714 come abbiamo visto. Per i catalani del risorgimento la patria è indiscutibilmente la Catalogna. Ho detto che il nostro risorgimento nel 1800 inizia impercettibilmente, ma questo è il nostro modo di essere, è la saggezza di un popolo che ha imparato la caparbietà durante i cento anni di oppressione. I giorni della vendetta catalana sono lontani. La Catalogna intuisce l'anima di un popolo, la sua cultura e la sua lingua costituiscono la sua sovranità fondamentale, cito ancora una volta Giovanni Paolo II: Il nostro risorgimento avrà certo i suoi movimenti politici, ma questi si poterono appoggiare sempre sulla base inesauribile dell'amore di un popolo verso tutte quelle realtà che, oltre ad alimentare il ricordo del passato, aiuti ad affermare la propria identità. E' per questo forse che il movimento di ripresa catalana secolo scorso, ebbe un marchio sentimentale non capito da molti. "L'estetica vi rovina" avrebbe detto Unamuno. Non soltanto la lingua fu coltivata ardore, ma anche l’archeologia, l'amore per il paesaggio, il folklore, e tradizioni popolari, ecc. Il ballo della Sarzana per esempio, peculiare nel nord del paese diventò ed è ancora la danza nazionale, ballata religiosamente come un rito patriottico. Il carattere sentimentale o romantico del nostro risorgimento fu tuttavia accompagnato sempre al senso pratico della nostra gente. "Figli di una razza diritta e forte che unisce il buon senso alla forza, dice un nostro poeta. Mescolanza di buon senso, di saggezza, di caparbietà e di pazienza, di praticità e amore per il rischio calcolato, si è detto che siano i caratteri distintivi del nostro temperamento. Questo spiega forse perché lo sforzo per la ripresa nazionale della Catalogna si sia appoggiato, soprattutto agli inizi di questo secolo, in quegli aspetti della vita collettiva, non i più appariscenti, ma certo i più efficaci a lungo andare. All'inizio del XX secolo si riprende l'iniziativa nel campo dell'insegnamento lasciata nelle mani dello stato nel secolo scorso. A quello della scuola elementare fece seguito il rinnovamento dell'insegnamento tecnico, professionale e dell'università. Non voglio stancarvi con l'elenco delle scuole e degli istituti creati in quegli anni. Citerò soltanto "l'Institut d'Estudis Catalans", fondato nel 1907 da Prat de la Riba, un po' come il padre della nostra patria, presidente della deputazione di Barcellona e del governo di tutte le deputazioni catalane. E' un istituto che sviluppò un'attività urgente, portando la ricerca scientifica catalana ad un livello internazionale di cui ancora oggi rimangono i frutti e che fece del catalano una lingua d'uso scientifico. La qualità e la quantità delle sue pubblicazioni, assai conosciute dagli studiosi, ne fanno fede. Mi sia permesso ancora di dire, senza cadere nello sciovinismo, che in un non francese sarebbe imperdonabile, fino a che punto è sorprendente la cultura di questo piccolo paese, che in quegli anni non aveva ancora degli organi di governo autoctoni. Infatti nei primi decenni del secolo, anticipando tante altre culture che godevano di piena libertà, la Catalogna ebbe tre traduzioni moderne della Bibbia; la fondazione Bernat Metge intraprese la pubblicazione dei classici della letteratura catalana nella collana "Los nostres classics" e avviò l'edizione dei classici greci e latini in testo originale e traduzione in catalano, di alta qualità critica e letteraria, conosciuta da molti studiosi, che pone la nostra cultura in una posizione avvantaggiata rispetto a tante altre lingue, che pur avendo una maggiore libertà non hanno raggiunto questo traguardo. Il risveglio e l'affermazione culturale della Catalogna non potevano non riflettersi nell'unico mezzo di comunicazione di massa dell'epoca: la stampa. Fin dai primi anni del XX secolo, la stampa in catalano è abbondante, sia nel numero dei giornali, sia in quello dei settimanali e abbraccia tutti gli aspetti della vita catalana. Se nell'anno 1876 troviamo soltanto sette pubblicazioni periodiche, nell'anno 1933 l'elenco sale a più di un centinaio. Allo sviluppo della stampa segue necessariamente quello della radio, appena questa appare sullo schema delle comunicazioni. Nel 1920 veniva per la prima volta trasmesso un concerto grazie alle onde hertziane e quattro giorni dopo a Barcellona s'inaugurava una delle prime stazioni radio dei mondo e la prima assoluta della Spagna. Queste basi culturali furono l'appoggio naturale per ottenere delle strutture politiche proprie man mano che il clima di libertà lo permetteva. Dal momento in cui le idee liberali moderne cominciano a risvegliare la Spagna, quest'ultima si spoglia dall'assolutismo e avvia dei metodi di governo più democratici. I Catalani creano dei partiti politici nazionalisti e nelle elezioni alla camera dei deputati di Madrid vengono eletti politici catalani che richiedono autonomia per la Catalogna. Nel 1914, sotto la presidenza del già citato Prat de la Riba si stabilisce la Comunità della Catalogna, il primo ente pubblico regionale con un'esigua autonomia dal 1714, anno in cui, come è già stato detto, la Catalogna era stata vinta dai Borboni e spogliata delle sue istituzioni politiche. Dopo non poche vicissitudini politiche, fra le quali non furono meno importanti il terrorismo anarchico e l'agitazione sociale, ambedue provocate da Madrid per rompere la solidarietà del popolo catalano, nel 1932 la Catalogna ottiene dallo stato spagnolo uno statuto di autonomia, con un governo proprio e un proprio parlamento. La Catalogna continuò a svolgere la sua attività culturale dal 1932 fino al 1938, anno in cui un decreto dei generale Franco, firmato a Burgos, sopprimeva lo statuto. E' vero che i problemi politici furono gravi anche per noi in questi anni, la rivoluzione dei minatori delle Asturias e soprattutto l'inizio della guerra civile nel 1936. Ma tutte queste vicissitudini, che la storia giudicherà, non furono ostacolo per la Catalogna a continuare ad affermare la sua personalità. Lo slancio iniziato, come abbiamo visto, nel risorgimento del 1832, si sviluppò vigorosamente al riparo delle strutture autonome. Sarebbe noioso farvi adesso la relazione dettagliata dei risultati ottenuti in quei pochi anni di autonomia. Una parola può sintetizzarli: normalità. Le scuole catalane si stabiliscono in tutto il paese. Gli scrittori e i pensatori producono opere in tutti i campi della cultura e della scienza; lo sviluppo editoriale è notevole, venivano stampati giornali e settimanali in catalano di un'ottima qualità grafica in tirature non inferiori a quelle di qualsiasi paese europeo con caratteristiche simili al nostro. La radio trasmetteva normalmente nella nostra lingua e parecchie stazioni lo facevano esclusivamente in catalano. Furono girati con successo dei films in catalano, quando questa industria era forse solo incipiente nel resto della Spagna. L'architettura e tutte le arti recavano il sigillo del genio catalano. Chi non conosce, per citare soltanto i nomi più noti: Picasso, il quale nonostante sia nato a Malaga visse dall'età di cinque anni in Catalogna, Gaudy. Sert, decoratore del palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, Miloud, Dali, Gargallo e l'esimio Casals? Credo che sia necessario fare una menzione speciale dei carattere catalano della Chiesa del nostro paese, se non altro perché può aiutare a comprendere fino a che punto, dopo la vittoria franchista di segno interessatamente cattolico, si vuole combattere tutto quello che avesse un marchio di nazionalità perfino nel terreno della pietà e della vita cristiana. I cattolici catalani, permettetemi ancora un pizzico di sciovinismo, furono pionieri nel rinnovamento liturgico e biblico della pietà cattolica. Nell'anno 1915 ebbe luogo un fatto molto importante di risonanza universale per la Chiesa: il primo congresso liturgico di Monserrat e la pubblicazione dei Messale Romano, uno fra i primi, se non il primo nel mondo cattolico. Il gusto per il canto gregoriano, la pietà liturgica, la Messa celebrata di fronte al popolo con ornamenti di vera dignità estetica, ispirata alla nostra splendida arte romanica, erano già usuali in quegli anni. Però soprattutto la nostra Chiesa produsse un fenomeno chiave per comprendere la tragedia che più tardi sopravvenne. Mi riferisco alla Federazione dei Giovani Cristiani di Catalogna, un po' il nostro movimento Comunione e Liberazione, federazione concepita per la cristianizzazione delle masse attraverso la gioventù. Fu un movimento vivissimo che trascinò un numero considerevole di giovani, di tutte le condizioni sociali, offrendo loro un ideale di amore verso Cristo e la Catalogna. Nel loro inno cantavano: "Siamo cristiani e catalani che è come essere eroi due volte". Dopo cinque anni contava circa 300 gruppi con un migliaio di militanti e migliaia di giovani soci, estendendosi in tutto il paese. Era in definitiva il culmine di un processo di cristianizzazione che avrebbe situato la Chiesa catalana in prima linea nel rinnovamento del cattolicesimo europeo. Purtroppo la catastrofe della guerra civile, nella quale parecchi militanti resero testimonianza della loro fede con il martirio, impedì che questo movimento potesse avere una continuità. Paradossalmente e come il loro inno profetizzava, furono combattuti da tutte e due le parti, le brigate rivoluzionarie di segno più o meno marxista e anarchico fucilarono l’élite, i franchisti vittoriosi imprigionarono i restanti e con la connivenza della Chiesa spagnola impedirono purtroppo che, finita la guerra, si potesse riorganizzare il movimento. L'esempio della federazione dei Giovani Cristiani della Catalogna dimostra che la grande sconfitta della guerra civile spagnola fu la Catalogna. Si fece la penombra; più ancora, il silenzio assoluto dei cimiteri, con l'entrata delle truppe franchiste in Catalogna e con la loro vittoria sulla Repubblica Spagnola nel 1939. Dei trentotto anni che seguirono, soltanto ora si comincia a descrivere il lungo calvario; fu una vera resistenza, per una volta ancora condotta a nostro modo e pertanto centrata nella lotta per la nostra lingua e cultura. Malgrado la forte repressione generalizzata che colpì, oltre i politici, gli scrittori, i maestri, le scuole, gli universitari, gli uomini di cultura in genere, ci siamo organizzati rapidamente per la ripresa, il salvataggio e la difesa di quello che era considerato essenziale: la lingua e la cultura che la nuova situazione politica minacciava di far scomparire. Furono anni da catacombe nei cenacoli e nell'intimità delle case. Per voi significherebbe poco o nulla l'enumerazione delle lezioni di catalano presso i domicili privati, la riedizione con date arretrate di libri di poesie e di culto. Pensate che tutto era proibito e perseguitato. I catalani della mia generazione, che avevano frequentato la scuola elementare catalana, Montessori nel mio caso, sono giunti all'età adulta, fino a cinque anni fa, senza aver potuto leggere un giornale nella propria lingua, senza aver ascoltato una trasmissione radiofonica in catalano, senza aver visto un film in catalano; abbiamo assistito alla nascita di una televisione che si esprimeva esclusivamente in spagnolo, eccetera. Perché continuare? Le menti colte e democratiche di tutto il mondo seguivano il calvario del nostro popolo. Però, lasciatemi dire senza amarezza, non era infrequente vedere come la nostra volontà di non perdere e, un giorno, poter recuperare la nostra lingua, la nostra cultura, e la nostra libertà nazionale non erano compresi da coloro che si vantavano di essere amanti della libertà dei popoli. Realmente la propaganda franchista, presentando il problema catalano all'opinione internazionale come un fatto residuale e folcloristico alimentato da una minoranza di romantici con velleità separatistiche, penetrò profondamente in un'Europa purtroppo assai proclive alla concezione giacobina dello stato e troppo preoccupata dei suoi problemi per poter porgere una mano fraterna al popolo catalano che lottava per la sua sopravvivenza. Quelli che, come chi vi parla, passarono molti di quegli anni di oppressione lontano dalla Spagna, in esilio, a contatto continuo con le organizzazioni internazionali, hanno una lunga esperienza di questa incomprensione per i fatti culturali della Catalogna. Grazie a Dio quegli anni sono passati e la Catalogna, con l'avvento della democrazia in Spagna, riacquista a poco a poco il suo diritto all'autogoverno e la possibilità di ristabilire la normalità totale della sua lingua e della sua cultura. Non poteva essere altrimenti. Fin dagli ultimi anni di vita dei generale Franco, approfittando di qualsiasi evenienza, in Catalogna si reclamava, per vie legali se possibile, o attraverso azioni di propaganda clandestina, la libertà dell'uso della lingua, l'inserimento del catalano nelle scuole e soprattutto ebbe grande clamore la campagna per avere Vescovi catalani nelle Diocesi della Catalogna. Infatti, in conseguenza dei rinnovamento liturgico intrapreso dal Concilio Vaticano II e dell'introduzione delle lingue vernacole nel culto cattolico, in Catalogna era inconcepibile che il catalano non fosse considerato una lingua liturgica. La Santa Sede approvò i testi catalani liturgici e il governo spagnolo non poté opporsi al suo uso, quindi era da considerarsi normale che i Vescovi celebrassero nella lingua dei popolo. La nomina nel 1963 d'un Vescovo catalano a Barcellona scatenò una forte protesta che causò in un primo momento lo stupore della curia romana, ma fu più tardi capita ed accolta. Questo ed altri incidenti fecero sì che il problema catalano, così come il problema basco, fosse ben presente nell'animo dei politici, che alla morte del generale Franco dovettero tener conto dell'impegno delicato ed inevitabile di condurre la Spagna da un regime autoritario e centralista verso un regime democratico attento alle autonomie delle nazionalità e dei popoli della Spagna, come dichiara l'attuale costituzione. Bisogna citare qui, e ci è grato farlo, quale artefice qualificato di questa transizione pacifica e giusta il re Juan Carlos I. Ecco qui riassunta la storia di un popolo figlio di Roma e fratello di tutti i popoli europei, che solo ed armato soltanto della forza di un suo diritto e della sua verità è riuscito gradualmente a farsi riconoscere come nazione e che non ha altra aspirazione che quella di poter portare il suo contributo personale alla pace, alla concordia e al progresso di tutte e ciascuna delle nazioni, insieme agli altri popoli ispanici e a tutti i popoli liberi del mondo. Non vorrei concludere questa esposizione, mentre ringrazio gli organizzatori di questo Meeting per l'Amicizia fra i popoli per avermi concesso di pronunciarla e a voi per avermi ascoltato, senza far una brevissima considerazione sintetica e di fondo: che cosa spiega la nascita, lo sviluppo, la lotta acerrima per la sopravvivenza e infine il trionfo di un popolo come il catalano e quali sono pertanto le condizioni per non sbagliare nella scelta fra le diverse strade che si aprono dinanzi a noi? I popoli europei, la Catalogna quindi, sono figli di Roma segnati dalla croce di Cristo. La ragione profonda della nascita dei popoli liberi del Medioevo è la concezione cristiana dell'uomo libero in quanto figlio di Dio e redento da Gesù Cristo ed il principio della fratellanza degli uomini al di sopra della loro condizione sociale o linguistica. Da qui l'uomo, considerato come la fonte del diritto e della libertà, e lo Stato, considerato come strumento politico al servizio del bene comune affinché questo diritto e questa libertà dell'uomo possano svilupparsi pienamente. C'è da sperare che i nostri popoli e la Catalogna non dimentichino mai che sono stati creati come dei vasi preziosi, con la terra di Roma, l'acqua del battesimo e il fuoco dello spirito dei Vangelo. Sarei felice se questa esposizione avesse dimostrato che questa è l'unica e sufficiente condizione perché i nostri popoli non perdano mai la loro identità e la loro dignità. Grazie.

G. Girolomoni:

Più di millenovecento anni fa una barca partiva dal porto di Cesarea con un carico di mercanzie e arrivava presso gli americani di quel tempo, i romani, la notizia di una grande speranza: si diceva che in Palestina ci fosse stato un grande Profeta che faceva camminare gli zoppi, vedere i ciechi e liberava la gente dal demonio e perfino dalla morte. Questo profeta aveva detto di essere il Figlio di Dio e perciò venne condannato a morte dal suo popolo con il beneplacito del potere di quel tempo. E' il seme piantato allora, che ha fatto nascere, attraverso i secoli, il mondo moderno. Ma quella vittoria sulla morte è diventata la vittoria sulla miseria attraverso il benessere del progresso industriale: per far camminare gli zoppi abbiamo costruito gli ospedali, per istruire gli ignoranti, intendo per ignoranza le culture tradizionali dei popoli, abbiamo costruito le scuole in serie dove si insegna quel verbo, né carne né pesce, frutto della cultura industriale. Da questa pubblica istruzione da catena di montaggio è nata l'Europa moderna, frutto della più grande utopia che sia mai stata concepita: quella del benessere per tutti, della fratellanza universale, della vittoria sulla fame, del regno della giustizia. Senza tornare a Stalin e Hitler, il riferimento ai quali è una questione di proporzioni, basta pensare al governo inglese che si rifiuta di riconoscere quei ragazzi prigionieri politici e li lascia morire di fame, o a quei "suicidi" nel più sicuro carcere tedesco avvenuti qualche anno fa, o al disprezzo degli svizzeri nei confronti degli stranieri dei quali fra l'altro hanno bisogno. Oppure a questi romani moderni che ci vengono a mettere i missili nucleari dappertutto e nessuno gli dice niente. Se li tengano a casa loro! A proposito di casa loro, non dimentichiamo che non è casa loro quella dove stanno, ma dovrebbero tornare tutti da Elisabetta e dal suo pargolo felicemente sposato, perché d'altra parte quella terra è di Alce Nero e dei suoi fratelli che invece stanno nei campi di concentramento. Noi in Occidente li chiamiamo riserve, così è più poetico e meno violento. Poi in questa grande utopia nasce il Mercato Comune, ultima trovata per continuare a mantenere la legge dei più forte e far scomparire definitivamente l'agricoltura italiana. Prima di questa trovata, l'agricoltore di Reggio Emilia, dal quale nel '74 comprai sei vacche da latte, quando vendeva in Germania il suo grano e il suo vino riceveva dei contributi per l'esportazione i quali seppur modesti erano sempre un incentivo. Quando nel '78 ho cominciato io a esportare il grano e la pasta in Olanda ed in Germania con la cooperativa Alce Nero invece ho dovuto pagare una tassa: tremila lire per ogni quintale e trentamila per ogni tonnellata di pasta! Cos'era successo? Il Mercato Comune. Un amico che invece vende da quelle parti macchine industriali mi ha fatto vedere l'ammontare dei contributi che riceve. Ancora una volta, dopo il furto dei contadini da parte della città e dell'industria e relativo lavaggio dei cervello con quello strumento di sterminio che è la televisione e la pubblica istruzione, si decideva che continuasse ad essere l'agricoltura a pagare ed in questo modo nel nostro paese ha ricevuto il colpo di grazia e non riesce più a produrre neanche il 50% dei fabbisogno nazionale: per comprarci da mangiare all'estero spendiamo una somma uguale a quella che spendiamo per il petrolio. E che dire dei francesi che ci vendono champagne finto a 20 mila lire la bottiglia e poi si permettono di distruggere i carichi del nostro vino? E gli olandesi che ci mandano il latte in polvere e noi non riusciamo a vendere il nostro? Per fare un incontro con Ronza, Jarque, Desroche e Malaurie non c'è bisogno del Mercato Comune. Poi come se di parlamentari, di consiglieri regionali, non ne avessimo abbastanza siamo andati anche a fare quelli europei. Vengono pagati dal lavoro dei contadini, degli operai e degli artigiani. Amici, prendete in un bosco alcune manciate di terra, mettetele in un vaso d'argilla e piantateci dei semi di lavanda e di basilico: quando verrà la primavera vi servirà per rallegrare il naso dalla putrefazione della Società fondata dalle multinazionali dell'ideologia: i partiti. Semmai un accordo politico ed economico si doveva fare con i popoli dei Mediterraneo, Francia esclusa, perché vuoi fare sempre il gallo del pollaio. Occorre interpretare i segni dei tempi per capire per quale strada incamminarsi e so che i presenti sono attenti. Io la miglior analisi della realtà dei nostri giorni l'ho trovata, pur essendo ancora nei mezzo del cammino della vita, tanti anni fa nelle Sacre Scritture, nei libri degli antichi profeti d'Israele. Se ve ne citassi uno solo farei torto agli altri per cui vi cito solo l'Ecclesiaste e vi suggerisco l'impareggiabile traduzione di Guido Ceronetti. Nel capitolo VII versetto 10 è scritto che è stolto pensare che il tempo passato era migliore di quello presente. E questo vale anche per quelli che verranno dopo di noi. Poco più di un mese fa, a Civitanova Marche, in un incontro a cui ho partecipato assieme all'ex Presidente della Giunta regionale delle Marche ed attuale Assessore alla Cultura, una ragazza chiedeva sul finire dell'incontro cosa si potesse fare oggi o domani, con una laurea in filosofia. La domanda non sono riuscito a dimenticarla e voglio provare ora a risponderle. Una laurea in filosofia può servire per piantare una vigna e poi con l'uva farci il vino senza avvelenarlo e nelle botti di legno conservarlo, Piantare il grano, aspettare che diventi grande, macinarlo a pietra e farei il pane e farlo avere a chi sì chiede oltre a cosa fare, anche cosa mangiare. A piantare le patate, i ceci e i pomodori; l'aglio e la cipolla. A fare con l'argilla una pignatta e con la lana una coperta; con un telaio intrecciare i fili e tirarci fuori una tovaglia. A fare con il legno delle sedie per sedersi sopra davanti al fuoco e parlare insieme a dei fratelli; e farci anche un gioco per i bambini. A passeggiare in cima a una collina e in mezzo a un bosco e starci dentro il più possibile. A far nascere dei figli e istruirli in un luogo ben preciso lontani dall'ossido di piombo e dal rumore della grande ruota dentata che manda avanti il tempo in cui viviamo, e insegnare loro la semplicità, ciò che è essenziale nella vita e la conoscenza dei Signore che per, lasciarci liberi ha rinunciato perfino alla sua Onnipotenza che possedeva fino da quando è riuscito a far nascere il mondo. A prendere quella scatola che ha per lato un vetro, toglierci tutto quello che c'è dentro e farci da una parte uno sportello e metterci alla sera le scarpe prima di dormire. Mi direte voi, a cosa serve una laurea in filosofia per tutto questo? Serve, serve per capire perché, dove, come e insieme a chi, fare queste cose. Altri diranno: non è egoismo pensare solo a se stessi? Intanto per non entrare nel merito dell'obiezione, dirò che proprio un anno fa ho sentito dire da Lanza del Vasto, appollaiato su una sedia: Come si può amare il prossimo come se stessi se non si è capaci di amare se stessi?". Io non lo so se ci può essere salvezza in questo mondo tra i milioni di bambini che muoiono di fame e la distruzione inesorabile di tutte le culture tradizionali dei popoli. Tra l'Armata Rossa da una parte e la VI Flotta che s'invita a pranzo a casa nostra. Io so solo che bisogna rimanere in piedi e continuare a camminare e lottare. E, per quanto mi riguarda, dopo dieci anni sto ancora combattendo per strappare ai mondo un territorio dove viverci con la mia famiglia, con degli amici e altri ancora che verranno dopo a piantarci insieme la Speranza. Ma è una lotta dura e forse dovrò cedere qualche provincia conquistata, intendo per provincia un campo di grano o di trifoglio, una casa o un bosco di carpini e di querce. "Tanto soffrire d'uomo sotto il sole che cosa vale? Venire, andare di generazioni e la terra che dura. Tutti i fiumi senza riempirlo si gettano nel mare. Tutto è vuoto, niente". E' una fame di vento" (dice ancora l'Ecelesiaste) "e una fame di giustizia". (aggiungo io).

J. Malaurie:

Cari amici dopo l’intervento notevole di Padre Jarque e di Gino Girolomoni, è un compito difficile attirare la vostra attenzione su questi popoli lontani, i popoli antichi. Direi dapprima, per non dimenticarlo, l'emozione che io ho provato durante queste giornate che io ho trascorso in seno alla gioventù italiana. Credo che in Francia non troveremmo una attenzione talmente ardente per problemi ardui e difficili e ringrazio gli organizzatori per questa notevole preparazione in condizioni di benevolenza che penso dovrebbe essere imitata ovunque. Siamo chiamati ad interrogarci sull'Europa, ieri abbiamo avuto il Presidente del Parlamento Europeo di Strasburgo, sentiamo critiche da un lato oppure persone soddisfatte da un altro. Vorrei dire subito la mia, questo affinché il corso del mio intervento sia chiaro a tutti. Dopo le tremende guerre europee e in particolar modo la guerra permanente fra la Francia e la Germania, una vera e propria guerra civile, noi europei possiamo gridare soltanto: "Viva l'Europa". Ma le grandi idee spesso creano la confusione. E' importante sapere quale Europa, in particolare per questa nuova lotta delle classi, costituita dalla difesa delle regioni sfavorite e delle minoranze. Vorrei evocare qui due idee che mi vengono da due menti. La prima, che secondo me riguarda, oltre gli individui, i popoli in pericolo: "Si diventa se stessi e non si può far altro che diventare se stessi", questa idea ci viene da Freud; l'altra la prendo in prestito da un grande pensatore romano: "Vendica tibi", vendicati per te stesso. Queste sono idee che devono essere il faro dei popoli minacciati, non tanto delle nazioni con dei passati come quello catalano, notevole, oppure la Sardegna, ma di piccoli, minuscoli popoli come quelli della Groenlandia che il caso della storia ha annesso all'Europa. Cinquantamila abitanti in questa immensa Europa separata da un immenso Atlantico. E la lingua, l'eschimese, separa totalmente. Come riflettere sullo sviluppo di questi spazi, di queste aree, nell’interesse di questi popoli e della nostra industria, cioè dal nostro livello di vita? E' questa la grande domanda che vorrei prendere in considerazione insieme con voi. Penso infatti che la prima sfida dell'Europa sia il modello economico che deve inventare per por fine, una volta per sempre, al Terzo Mondo a cui oggi si è aggiunto il Quarto Mondo. L'Europa non può essere semplicemente l'Europa di mercanti e di industriali, bensì un'Europa che porta un messaggio di sviluppo mondiale. Come sappiamo, quando si evoca il Terzo Mondo si dicono sempre delle belle parole, e quando con il passare degli anni le cose non funzionano, che cosa si fa? Un colloquio, una conferenza e quando questa è finita si crea una commissione per esaminare le condizioni di una revisione delle conclusioni della prima conferenza. Motivo per cui è necessario avere immaginazione, inventare quindi noi europei, un nuovo ordine economico mondiale, sennò un bel giorno saremo sommersi dai tre quarti del mondo rimanente, che soffre la fame e il cui livello di vita è il risultato senza dubbio di un concetto particolare dello sviluppo. Vorrei nel mio intervento riflettere su tre punti. Il primo è la nozione di scienza, una scienza che non deve essere particolare, censurata, bensì deve avere un'impostazione, un approccio globale, questa riflessione sarà sotto il segno delle utopie e delle escatologie. Poi vorrei che riflettessimo insieme sulla situazione di questi popoli artici o eschimesi. In altri termini cosa significa arcaismo? Forse ognuno di noi è arcaico rispetto all'altro e a lungo andare chi ci può dire se l'arcaico di ieri forse domani sarà un inventore? E infine, terzo elemento, lo sviluppo o meglio il non sviluppo dei popoli. E vorrei prendere esempio della Groenlandia, che nel febbraio dell'ottantadue voterà un referendum per decidere se rimane(e o meno nel Mercato Comune. Tutto lascia pensare che una maggioranza del popolo della Groenlandia lo voglia lasciare, cosa che costituirebbe il primo esempio di un paese che lascia il Mercato Comune. E' quindi una riflessione sugli effetti del Mercato Comune su Paesi di piccole dimensioni. Cos'è il Millenarismo, cos'è l'utopia, cos'è l'escatologia? E perché parlare di questi concetti qui, a proposito dell'Artico? Perché sul continente Artico si ha il privilegio di essere a Nord anche se questo può sembrare strano, e, come sappiamo tutti, i punti cardinali hanno un valore qualitativo e perfino affettivo. Il Nord in numerose civiltà, quali la civiltà occidentale e soprattutto quelle dei Medio Oriente e dei Mediterraneo, è sotto il segno dell'uomo, dei maschio, della creazione, della forza della luce, della innocenza verginale, e della giustizia. Il Meridione, essendo femmina, è matriarcale. Tutto questo ovviamente sotto il segno del mito. Ma il mito ha poteri a tal punto che il Nord è la notte, uno spazio di gestazione, un punto di partenza, e il Sud è il giorno, la fine di una traiettoria. E' strano che andando dal Nord verso Sud si dia un senso al destino e alla vita. Queste idee le ritroviamo presso numerose civiltà, in India per esempio in un villaggio il bramino è sempre nella zona nord e la fine della sua vita avverrà sulle montagne sempre a Nord; in Cina, nella Cina tradizionale, imperiale, l'imperatore è il Polo Nord, dovunque c'è l'imperatore c'è il Polo; è attorno ad esso che tutto gira e sul carro imperiale la bussola indica sempre il Sud. Potremmo moltiplicare gli esempi, ma qui non resisto alla tentazione di fare l'esempio di una civiltà etrusca in cui lo spazio era suddiviso in quattro punti, il Nord era sempre considerato come soggiorno degli dei. Queste idee non sono rimaste senza conseguenze pratiche, perché hanno fatto riflettere da un punto di vista escatologico e dal punto di vista utopico numerose menti. Nel Medio Evo una grande mente ha considerato il Polo come uno spazio particolare, quest'uomo si chiamava Guillaume Postel, era del Sec. XVI, e la visione utopica-mistica di Postel, amico di Calvino, situava il Paradiso al Polo, idea questa che ha toccato altri pensatori. Ma finora siamo sempre nell'utopia, l'utopia a volte è la realtà di domani. Fino al 1860, Peter Mann e la geografia europea ufficiale credevano che al Polo Nord ci fosse un mare caldo e tutti gli sforzi delle spedizioni americane e anche di quelle anglosassoni sono stati di ricercare oltre al ghiaccio dei continente della parte subartica, il mare libero del Polo. Quindi questa è un'utopia che ha una certa forza. Ma ci sono utopie più pericolose, c'è tutta una tradizione secondo cui a Nord, in ciò che è chiamato l'Hyperborea, vive un popolo primordiale. Questo pensiero è stato confortato da numerose religioni, quella greca in particolare, con Apollo dio del Nord, e in altre religioni più vicine, come la religione ebraica, fondamento della religione cristiana. In Genesi capitolo vi leggiamo che c'erano giganti sulla terra, perché dopo che i figli di Dio si furono uniti con i figli degli uomini nacquero bambini che diventarono potenti, uomini illustri nei tempi che furono. Questo pensiero è ripreso in seguito nella Bibbia quando gli Ebrei, non sicuri di giungere alla terra promessa, mandarono degli esploratori. Questi quando tornarono dissero: "Abbiamo visto dei mostri, i figli di Enoc discendono dalla razza dei giganti e noi siamo delle cavallette di fronte a loro". Sono testi importanti, difficili, ma che hanno alimentato una intera letteratura fino al XVIII secolo. Fra l'altro in Scandinavia, in cui una mente illustre ha visto quella Hyperborea nella. Svezia. Queste idee importanti sono state talmente incomprese e mai capite che sono diventate la base addirittura delle teorie nazional-socialiste, in cui gli ariani dei Nord dicevano di discendere da questo popolo primordiale che sarebbe vissuto prima del diluvio. Ho voluto fare questo esempio per mostrare come e quante idee complesse, mitiche, devono essere sempre riviste con una scienza sempre più interdisciplinare e globale. Non c'è scienza senza critica e dobbiamo proscrivere qualsiasi ideologia che censuri la scienza e qualsiasi terrorismo intellettuale. Credo che in questa ottica dobbiamo arrivare a questo incontro etnografico con i popoli. E' chiaro che l’etnografia, la storia dei popoli tradizionali, è una delle più grosse conquiste della fine del XIX secolo, ci ha fatto capire che i popoli arcaici erano popoli di complessa civiltà, che popoli dal pensiero selvaggio, come dice Lévi-Strauss, sono popoli dal pensiero più o meno uguale ai nostri pensieri. Tutta la difficoltà risiede, per noi occidentali, nel riflettere su società le cui utopie, nei limiti e nelle strutture, sono totalmente diverse dalle nostre. Parlavo a mezzogiorno con il prof. Zinov'ev su questo problema e nozione di arcaismo. Ora i popoli tecnicamente possono apparire arcaici, mentre con il loro pensiero, senza che lo si sappia, hanno fatto un passo oltre. Basta pensare a Teilhard de Chardin, mente illustre, quando dice che bisogna vedere la storia nella sua durata, nei secoli, nell'avvenire, e chi ci dice che nella filogenia dell'uomo non ci sarà tale o talaltro ramo che andrà oltre, che sarà un "relais" dell'altro? E se ho dedicato tanto tempo della mia vita a questi popoli artici è perché ho imparato molto da loro e, ne sono convinto, questi popoli del passato possono essere i popoli del futuro. Farò ora parecchi esempi. Dapprima farò l'esempio della foro organizzazione, un'organizzazione complessa chiaramente comunalista, caratterizzata quindi dall’egualitarismo; tutti i beni appartengono al gruppo, tutto ciò che è prodotto viene subito condiviso; la famiglia vive sotto il segno del gruppo, dato che un bambino su tre, nella tradizione era dato a un'altra famiglia in adozione, infine il pensiero è un pensiero di gruppo anch'esso, dato che ognuno cerca di pensare attraverso il gruppo e si iscrive così in un pensiero comune. Si tratta ovviamente di società che vivono sotto il segno della ripetizione. Avrei potuto prendere come esempio lo sciamanismo, cioè il rapporto intimo dell'uomo con la natura. Ma ciò che è più strano in questi popoli è quella visione geopoetica che hanno con la natura e con il mondo, grazie alle foro facoltà sensorie che sono intatte, mentre da noi sono profondamente compromesse. Ma ciò che mi interessa è parlare dell'avvenire di questi popoli. Davanti alla mondializzazione delle economie, la loro probabilità di sopravvivenza è molto scarsa. Siamo tutti convinti della pluricultura, siamo tutti convinti che questi popoli sono i popoli di domani, ma come agire in modo che si possano mantenere nel sistema economico che li divora sia in un regime socialista, sia in un regime di economia capitalista? La Groenlandia per due secoli è stata una riserva, dal 1955 conosce lo sviluppo, ma il sistema economico, nonostante la buona volontà del Mercato Comune e della Danimarca, necessariamente nella sua logica di industrializzazione distrugge, assorbe tutto ciò che è debole economicamente. In questo modo si è potuto assistere a un vero e proprio furto, economico prima e culturale poi. Ma questa è storia di ieri perché la Groenlandia dal primo maggio '80 ha acquisito la sua autonomia regionale. Ciò che è auspicabile per questi popoli minuti che si scontrano, con una brutalità incredibile senza alcun esempio nel passato, contro l'industria del petrolio, che si scontrano con lo sviluppo più rapido, è che abbiano il tempo per formare le loro élites. Come ricordava Padre Jarque la difesa di un popolo comincia con la sua lingua, ma anche con la scienza, ed è chiaro che questi popoli si difenderanno soltanto nella misura in cui potranno inventare, con una università artica ad esempio, un modello specifico di sviluppo, rifiutando ciò che è loro avulso e prendendo ciò che può farli progredire. Il progresso può significare tornare indietro, non dimentichiamolo mai, un popolo ricco può essere senza cultura. Grazie.