Uguale per tutti, più uguale di tutto,

giustizia e rivoluzioni

Mercoledì 23, ore 16.30

Relatori:
Fabio Roversi Monaco,
Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Bologna

Gustavo Villapalos,
Assessore di Educazione e Cultura della Regione di Madrid, già Magnifico Rettore dell'Università Complutense di Madrid

 

Villapalos: Forse l'unico modo per affrontare un tema così vasto e complesso, è quello di fare un breve e schematico excursus sull'idea di giustizia dal mondo antico ad oggi.

Nel mondo greco, il concetto di giustizia si inserisce nella più generale concezione del cosmo e della vita che la cultura greca ha tramandato come patrimonio perenne nella civiltà occidentale. Per il greco, l'uomo giusto è colui che si protende verso ciò che costituisce la sua essenza, che lo definisce all'interno dell'ordine naturale. La legge (nomos) coincide con la natura (physis): viene così messa in luce un'armonia che è religiosa, politica, morale, perché è la manifestazione dell'ordine cosmico in cui brilla la luce del divino.

Dio si manifesta veramente nel cosmo. Per l'uomo la possibilità di ritrovare se stesso consiste nell'innalzarsi a Dio, fondamento, meta e forma di ogni essere. Nel cosmo brilla la bellezza dell'ordine assoluto che è la forma ideale in cui si manifesta la giustizia.

Tuttavia il cammino verso la giustizia, che è il cammino dell'uomo verso quest'ordine assoluto, non è piano e meccanico, ma si esprime con i connotati altissimi della tragedia greca in cui viene descritto il contrasto tra l'ordine ideale riconosciuto e l'indifferenza di quest'ordine rispetto al destino della singola persona.

L'antichità più tarda, forse spaventata dalla tragicità del problema umano, ha risolto e stemperato l'idea di giustizia in una sorta di adattamento alla realtà che tutto abbraccia nonostante tutto e al di sopra di tutto. Nello stoicismo infatti Dio non traspare tragicamente nel cosmo ma si identifica direttamente col mondo, e la giustizia inizia a perdere quell'alone mitico e tragico insieme che la legava a un ordine misterioso e totalizzante per diventare misura umana. Il diritto naturale delle genti viene a coincidere sempre più con il diritto imposto dal potere romano, la giustizia assume un significato retributivo. "Suum cuique tribuere", dare a ciascuno il suo: è questa la definizione che Cicerone offre della giustizia. Il "suum", ciò che spetta ad ogni uomo, per i Romani è rappresentato essenzialmente dall'utile. Si tratta dunque di una giustizia tutta formale che non entra nell'intimo della persona e non coinvolge per nulla l'essenza dell'uomo.

L'avvento del cristianesimo offre all'esperienza umana una percezione totalmente nuova del rapporto col divino e col cosmo. Nella rivelazione cristiana è Dio che si apre all'uomo, e gli si propone attraverso la persona di Cristo come via praticabile all' assoluto: "Ciò che voi adorate senza conoscerlo io ve l'annunzio" dice S.Paolo ai greci sull'Areopago. Al suo apparire il cristianesimo si presenta come compimento supremo dell'uomo antico, adempimento di ogni "ricerca di Dio". E della cultura antica la teologia medievale recupera l'amore alla realtà che ne caratterizzava la cosmologia, l'enorme coraggio di affermazione dell'essere sotto ogni sua forma, l'eroica volontà di cogliere il bello e il giusto anche là dove l'apparenza della realtà non esibisce che drammatiche dissonanze.

Nelle varie definizioni di giustizia e di diritto che la cultura medievale seppe suggerire, ritroviamo le stesse esigenze e persino le stesse formulazioni dell'antichità valorizzate e trasfigurate in un significato nuovo.

S. Tommaso riprende letteralmente la definizione ciceroniana di giustizia: "Iustitia est suum cuique tribuere", la giustizia è dare a ciascuno il suo. Ciò che cambia è la concezione del "suum" che si approfondisce e si illumina alla luce della rivelazione cristiana. Cosa significa per S. Tommaso a ciascuno il suo? In base a cosa esiste un suum che qualcuno ha il diritto di rivendicare e che chiunque ha il dovere di concedere?

Secondo S. Tommaso, è con la creazione che l'uomo inizia per la prima volta ad avere qualcosa di proprio: il suum diventa il compimento della natura umana che Dio ha donato a ciascuno. Giusto è allora chi opera per realizzare sé, la perfezione della propria natura. La giustizia si fonda solo sull'esser giusto di chi opera.

Ma chi è l'uomo giusto? "Il giusto vive di fede", dice la Bibbia. E S. Agostino aggiunge: "La giustizia è ciò che rende l'uomo giusto". L'incapacità di giustizia da parte dell'uomo, in quanto compromesso dal peccato originale, è salvata dalla grazia.

Questa è la concezione cristiana che ha profondamente influenzato tutto il pensiero occidentale sul diritto, nel senso di riconoscere che l'opera dell'uomo sulla giustizia è sempre incompleta, recuperando in tal modo tutto il valore della concezione formale del diritto che avevano i romani. La nuova giustizia è dunque carità, rapporto con un tu. Tutti i Padri della Chiesa lo sottolineano riprendendo i termini del discorso biblico. La giustizia di Dio è la manifestazione della sua volontà salvifica di misericordia e di perdono. A ciò deve cooperare il tentativo di giustizia dell'uomo. Tale tentativo è indirizzato a preparare la via perché l'uomo diventi sé stesso.

La via alla realizzazione dell'uomo che Cristo compie è introdotta da un rapporto leale con la realtà. In tale rapporto la realtà stessa fa emergere gli elementi costitutivi che fondano le leggi. Tali elementi vengono riconosciuti non innanzitutto per convenienza, ma per la tensione con cui la ragione e la volontà sono protesi al vero che dalla realtà traspare.

È nello stretto rapporto con la realtà che si chiariscono i concetti di diritto e di dovere. La dipendenza dell'uomo dalla realtà in quanto data definisce i confini dell'attività umana che costituiscono la sfera dei doveri e nello stesso tempo obbliga a rispettare tali confini come diritto inalienabile della persona.

Correnti significative della cultura attuale pretendono un'emancipazione dall'antropologia cristiana, ovvero da quella tensione all'unità, al significato, al destino che il cuore dell'uomo da sempre sente come sua prima domanda e a cui la civiltà medievale ha cercato di dare espressione.

La giustizia trova ancora fondamento nella realtà e nella natura dell'uomo ma queste due grandezze non hanno altro riferimento al di fuori di se stesse. Esse sono totalmente definite dalla ragione concepita come misura di tutte le cose.

Forte di una natura individuale considerata quasi divina, dimentico dell'essenziale incapacità di bene che lo contraddistingue, l'uomo cosiddetto "moderno" tende così ad interpretare ciò che lo costituisce essenzialmente, come forza naturale, come istinto e, nella sostanza, come potere personale.

Ma se questo è ora il suum che la giustizia deve rendere ad ogni uomo, come è possibile evitare la guerra, la lotta che oppone ogni individualità all'altra? La saggezza di Hobbes si profila all'orizzonte come l'unica possibile. Per evitare la guerra di tutti contro tutti è necessario che la giustizia sia garantita da un potere, quello dello Stato, in grado da incutere tanta paura da ricondurre l'uomo alla possibilità della convivenza.

Quell'unità giusta che Dio non potrebbe più garantire ora troverebbe garanzia nello Stato. Hegel, coerentemente, va oltre auspicando uno Stato che, proprio perché assolve funzioni che prima erano divine, deve essere sempre più interpretato come il Dio reale, il Dio che si manifesta nel mondo: lo Stato etico. Quelle di Hegel potrebbero sembrare affermazioni lontane da quello che l'uomo di oggi desidera, ma la storia del secolo che sta per finire ne documenta purtroppo la tragica realizzazione, forse anche aldilà di ogni immaginazione. Il rischio del totalitarismo è sempre presente, la divisione dell'unico potere dello Stato in poteri tra loro correlati e concorrenti non è di per sé la soluzione del problema. È infatti diffusa l'opinione, anche nella mentalità comune, che la giustizia consista unicamente nell'obbedienza alle leggi positive dello Stato: il diritto, anziché fondato sulla realtà che addita la legge del suo uso e della sua conoscenza, è in questo modo fondato sul Potere, ovvero, in ultima analisi, sulla forza di chi domina lo Stato. "Non essendosi potuto rendere forte la giustizia" dice amaramente Pascal "si è resa giusta la forza".

In conclusione la domanda che ci poniamo oggi è se vi può essere ancora giustizia dove il relativismo distrugge ogni riferimento oggettivo. L'assenza di giustizia è negazione della libertà, della dote che rende l'uomo tale. Le rivoluzioni con la loro ansia di novità purtroppo finiscono sempre nel rafforzamento del regime amministrativo e poliziesco. Anche oggi la tentazione è la stessa. Sebbene nessuno attenda più palingenesi rivoluzionarie, il ritenere che felicità e giustizia possano scaturire dal semplice sforzo ideale o organizzativo, è mentalità diffusa. Anche le delusioni conseguenti sono mentalità diffusa. Queste però possono essere utili se non altro a farci guardare ancora una volta alla tradizione e alla concezione di uomo di cui siamo eredi e che spesso rifiutiamo solo perché non la conosciamo abbastanza.

Roversi Monaco: Si possono condividere molte delle osservazioni del professor Villapalos, ma credo che da me, come giurista, ci si aspetti qualcosa di diverso, cioè una riflessione sulla giustizia intesa come istituzione o, se preferite, come potere, nel momento attuale e nel nostro Paese.

Se la giustizia è intesa come ordine generale — come essenza di ciò che è giusto per l'uomo, un uomo consapevole di se stesso e allo stesso tempo degli altri, con i quali è collegato in un'armonia superiore, che giunge al trascendente —, se questa giustizia fosse possibile, della giustizia come istituzione e come diritto non vi sarebbe bisogno. In realtà non possiamo dimenticare come ben presto, fin dalle prime strutture sociali organizzate, la giustizia ha perso l'alone mitico che la legava a un ordine generale e trascendente per assumere nella società un ruolo retributivo per l'ordine e per la tutela della società medesima.

Il "cuique suum tribuere" va rapportato in tale contesto, non all'essenza dell'uomo, ai valori ultimi, ma alla società in cui esso vive, e quindi è necessariamente un concetto relativistico che può essere riportato ad assoluta unità solo se lo si inserisce a coronamento dell'opera di perfezionamento della propria natura, cui ogni uomo deve tendere e che richiede, in ultima analisi, l'intermediazione della fede. Ma il fatto è che questo ideale di giustizia non può esaurire le esigenze e le tensioni di strutture associative che son pur sempre fatte di uomini contraddistinti, ora più che mai, da una marcata incapacità al bene.

La convivenza implica la necessità dell'autorità: lo Stato incarna il potere, anche se noi ci rifiutiamo di vedere nello Stato, come invece vorrebbe Hegel, il punto di riferimento di tutte le nostre urgenze, quelle umane, culturali, morali e collettive. Anche se ragioniamo in questo modo dobbiamo recuperare dalle istituzioni quanto esse possono e devono darci in termini di libertà, di diritti e anche di doveri come cittadini compartecipi di una o più comunità. Se non ci soddisfa in assoluto il fatto che la giustizia si incarni nella corretta interpretazione ed applicazione delle leggi dello Stato, se ci riconosciamo in ulteriori valori trascendenti, rispetto a quelli della società in cui viviamo, questa correttezza nell'interpretazione della legge che spesso si estrinseca nel rispetto di pure ma importanti forme, è quanto dalle istituzioni dobbiamo aspettarci, ben consapevoli però che così non raggiungiamo la giustizia piena.

Comunque interpretata, la giustizia è nella società organizzata l'insostituibile veicolo e strumento di garanzia per la libertà dell'uomo. Infatti, l'uomo contemporaneo, immerso in una società avente compiti sempre maggiori e quindi caratterizzata dal punto di vista istituzionale da una quasi insostenibile complessità e nello stesso tempo dalla mancanza di spiritualità, vede la giustizia in termini soggettivi ed egoistici e sempre più spesso corporativi. Non è questa del "tutto a tutti" la giustizia che noi sogniamo. Certamente il "suum cuique tribuere" che si legava originariamente all'esigenza primaria della tutela di una comunità organizzata, diviene nella società contemporanea così complessa, qualcosa di inafferrabile, poiché la specificità individuale deve essere compatibile con quella degli altri e con la complessità della società e delle sue regole e, ancora, con la limitatezza delle possibilità e delle risorse.

L'esigenza di giustizia è divenuta soprattutto esigenza di beni materiali, con ciò il concetto più nobile di libertà ha ben poco da spartire, poiché la libertà stessa è manipolata, in nome di esigenze e interessi collettivi che lo Stato o sue parti individuano come prevalenti e troppo spesso prevaricanti, con il pretesto di fare gli uomini liberi e in questo modo la società più giusta. Ed è difficile così per il singolo far valere la propria idea di giustizia e contribuire al suo raggiungimento. Subentrano allora, per i moralmente più forti, la solidarietà, la carità e spesso con esse la fede, che restituisce al singolo varie ragioni di vita e di speranza. Ma le istituzioni non chiedono questo; esse quasi negano la solidarietà e la carità individuali per enfatizzare l'esistenza di diritti ben diversi da quelli di libertà, aventi per lo più un interlocutore unico, vale a dire lo Stato, anziché gli altri uomini e la società nelle sue articolazioni. E tutto nel nome della giustizia sostanziale e della spinta al riconoscimento di tutte le libertà, soprattutto di quelle connesse al soddisfacimento di bisogni materiali. L'essenziale capacità dell'uomo al bene può essere corretta e indirizzata da uno Stato che, nell'ampliare l'ambito dei suoi compiti, per la migliore realizzazione della personalità dei singoli, vuole gestire esso stesso, direttamente, il bene sostanziale, il bene e il giusto per tutti.

Voglio ricordare a questo proposito l'articolo 3 della Costituzione, il così detto principio di uguaglianza e l'interpretazione che ne è stata data nel tentativo di far divenire l'uguaglianza sostanziale uguaglianza formale delle norme. Giustizia ed uguaglianza non sono la stessa cose. Che cosa vuol dire uguaglianza per tutti in un società in cui l'esistente disuguaglianza è richiamata dalla stessa costituzione sia pure al fine di superarla? Perché questo esempio? Perché è un esempio che diviene importante in quanto nel tempo l'obbiettivo dell'articolo 3 della Costituzione è stato talvolta considerato come raggiungibile direttamente attraverso i giudici, a prescindere dall'intermediazione della legge. Si è dato così un forte contributo alla tendenza, per altro già largamente presente, volta a porre i problemi in termini di valori sommariamente enunciati, addirittura erogati e consapevolmente conquistati, per relegare nell'ambito delle pure forme, procedimenti che invece sono stati il frutto di una lunga evoluzione di civiltà.

Interviene a questo punto il concetto di giustizia in senso tecnico e il potere giudiziario; lo Stato gestisce separatamente i poteri anche se voi sapete che questa definizione va intesa in senso largamente generico e al potere giudiziario attribuisce la realizzazione e la garanzia di obiettivi definiti giusti dagli uomini in momenti talora felici della loro storia, attraverso l'esercizio del potere legislativo.

Ma lo svuotamento del sistema politico italiano, che è passato attraverso lo strapotere dei partiti e delle corporazioni e che ora passa attraverso il loro almeno apparente rifiuto da parte della società, ha portato ad un corporativismo dell'ordine giudiziario che spesso mira ad eludere i principi scomodi della giustizia — si tratterebbe dunque di conseguire una "giustizia sostanziale", filtrata dalla corporazione, di cui già esistono, per autoinvestitura rivoluzionaria, i paladini —.

Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione, anche se c'è chi dice di no, e dice che si tratta, finalmente, di una corretta applicazione della legge. Se fosse così credo che molti di noi vorrebbero che la legge fosse cambiata; è fin troppo facile esemplificare: le scarcerazioni o le situazioni privilegiate in carcere per imputati o condannati mafiosi; la vicenda di Moro, la riduzione delle pene, la semi libertà per coloro che in quella vicenda furono coinvolti; i 30 mesi di galera del dottor Contrada; gli 8, 9 mesi di galera e forse più dell'onorevole Mannino; la situazione di privilegio in cui si vengono a trovare personaggi coinvolti come spettatori ma certo indifferenti in vicende delittuose; le retribuzioni di magistrati aumentate per atto della magistratura con un auto coinvolgimento improprio nell'iniziativa legislativa; il continuo passaggio di magistrati alle file dei partiti e così via.

A mio parere, c'è d'aver paura e si può parlare di rivoluzione; coloro che obiettano a questo modo di vedere le cose dicono che si tratta soprattutto di iniziative dei pubblici ministeri, non di tutti i giudici, o che si tratta non di sovvertire la legalità — come vuole chi fa una rivoluzione —, ma di restaurarla, di applicarla, o, ancora, che non c'è violenza e dunque non è una rivoluzione.

In realtà, quelli stessi che dicono si tratta dei PM e non dei giudici, sono quelli che si oppongono poi alla divisione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici, fra magistratura inquirente e magistratura giudicante, gli stessi che si dimenticano della gravità attuale del fatto che ci sia un'assoluta intercambiabilità dei ruoli. Si parla di legalità ristabilita e si dimentica l'elaborazione giurisprudenziale almeno quarantennale sul concetto di costituzione materiale effettivamente vigente, attuata; si tace il fatto che vi sono parti intere della Costituzione e della legislazione internazionale che non sono applicate. Ci si dimentica poi che nell'uso della carcerazione preventiva risiede una potenzialità di violenza che non è certo inferiore a quella di altre vicende rivoluzionarie per ottenere semmai chiamate in correo, per ottenere confessioni, per ottenere testimonianze. È dunque in atto una sorta di rivoluzione del potere giudiziario.

Se concettualmente facciamo un riferimento di rito alla tripartizione dei poteri vediamo che questa rivoluzione senza ideali, a mio parere, e senza rischi certamente, corrisponde ad una evoluzione del ruolo del potere giudiziario che, in termini ben più corretti e rispettosi dei rispettivi ordinamenti, è in atto in altri paesi. Il passaggio dallo Stato liberal-borghese allo Stato sociale e all'attuale Stato post-industriale valorizzano il ruolo delle amministrazioni e quello degli organi di giustizia, in particolare di questi ultimi, perché la magistratura italiana aveva conservato una sua efficienza e professionalità, dimostrando di poter essere protagonista nell'evoluzione civile della nostra società.

La caduta di una classe politica orientata dal solo criterio della ripartizione del potere ha fatto il resto; la dittatura partitocratica non si è mai estesa alla magistratura, soltanto scalfita, non dipendente o condizionata, ed il suo venire meno ha aperto lo spazio sufficiente al potere giudiziario ancora abbastanza forte, abbastanza energico, abbastanza pulito, per colmare il vuoto lasciato dalle nostre forze politiche di regime prive di intrinsechi valori e quindi afflosciate su se stesse.

Così non siamo di fronte ad un movimento ispirato di ideali, ma ad un'ennesima fase patologica della lunga storia dell'attuazione del principio della separazione dei poteri intrisa tuttora di esigenze ideologiche e di perduranti spunti di rinnovati poteri partitici. Primi attori della vicenda rimangono comunque i magistrati, i quali hanno un potere che nell'attuale confuso scenario ha formidabili caratteristiche: da un lato una capillarità ed un'autonomia che non appartiene a nessun’altra articolazione dello Stato; dall'altro, una compattezza che deriva dall'essere uscito sostanzialmente indenne dal fascio delle istituzioni, e dalla capacità di aggregazione di una élite che unisce alla spregiudicata supplenza rispetto ad altri poteri, un'immagine di riscatto della corporazione. Oggi, quindi, i magistrati sono destinatari di un prestigio mai storicamente toccato. Un vero e proprio nuovo potere nella geografia della costituzione materiale del paese — al di là della legge come ogni potere —, che tende a non sopportare controlli, siano quelli (inefficaci) disposti dal Ministero di Grazia e Giustizia e presentati talvolta dalla stampa come delitti di lesa maestà, siano quelli richiesti da figure di imputati particolarmente combattivi e quindi giudicati talvolta aprioristicamente negativamente. E tutto ciò fino a riscoprire come potere intollerante gli strumenti più ideologicamente ispirati del codice Rocco, quelle ipotesi di vilipendio che la preistorica cultura giuridica di sinistra voleva espungere dal sistema.

Basilare in questa direzione il contributo della stampa e degli altri mezzi di comunicazione e basta rilevare questo collegamento e le sue modalità per comprendere anche i limiti di questa rivoluzione. La stampa ha sottolineato la progressiva crescita del ruolo politico della magistratura, ma questo fenomeno di crescita del peso politico del potere giudiziario collegata al diffondersi di regolamentazioni sempre più estese ed analitiche dei comportamenti e dell'interazione nella vita economica e sociale, non ha trovato nel nostro paese quelle innovazioni, quei correttivi o quelle forme di stabilizzazione e di maggiore garanzia per il cittadino che si sono avuti invece in altri paesi. Occorre bene intendersi sulla differenza tra autonomia della magistratura e governo dei giudici; la prima, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, è sempre stata vista come garanzia della libertà e dei diritti dei cittadini, non come privilegio di un corpo che aspira ad agire come sovrano.

L'essenza "rivoluzionaria" consiste nel fatto che una parte dei magistrati vorrebbe ridefinire le regole stesse che essi come magistrati sono chiamati esclusivamente a ricevere e ad osservare, ad appropriarsi quindi dell'intero compito di definire il disegno politico generale. Esiste pur tuttavia e per fortuna un dibattito problematico sui rapporti tra forma e sostanza, come quello condotto da una rivista critica del diritto, attraverso gli scritti del professor Nobile, un collega dell'Università di Bologna.

Vorrei richiamare la vostra attenzione su questo, ricordando quanto sosteneva Robespierre nel processo a Luigi XVI: "Voi invocate le forme perché non avete principi". Intendeva dire che non si devono applicare al re le forme del processo penale perché esse implicano dubbi, richiedono prove, contraddittorio, e tutto questo non può essere concesso ad un re già deposto e carcerato poiché ciò che la nazione ha stabilito con una insurrezione non può essere l'oggetto di un processo. Tutto ciò implica una capacità legale di deroga dalle regole. Mi rendo conto delle radicali e basilari differenze che ci sono tra l'esempio citato e quelli attuali, ma non posso fare a meno di domandarmi come si pongano, rispetto a questa storia, i reiterati appelli sociali alla legittimazione o delegittimazione, a consensi esterni al procedimento, collegamenti tra indagini giudiziarie in corso e dibattiti contestuari articolati dagli schermi televisivi o dalle colonne della stampa? Su questo vorrei soffermarmi.

Il procuratore generale di Milano, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha sottolineato l'altissimo indice di ascolto delle telecronache dei processi di tangentopoli che "superano" di molto l'audience di altre trasmissioni televisive. È apparsa chiara così l'esigenza di continuare a dare spazio a questa pena accessoria in vigore per gli imputati di processi ad alto gradimento. La giustizia, gestita secondo il comune sentire o come la società si attende, trova un formidabile strumento per affermarsi sulla giurisdizione a bassa audience, gestita, quella, con ritardi enormi, con obsoleti strumenti e, purtroppo per i pubblici ministeri, con incerti risultati; la gente applaude invece a questi riti di giustizia preventiva e sommaria in cui il PM non parla solo al presidente del tribunale, ma si rivolge in modo indiretto al popolo con un nuovo linguaggio processuale.

Si potrebbe fare la storia e rievocare le origini dei processi di piazza: è stato rievocato dal Corriere della Sera, quale antecedente storico di questo processo di pubblico il piacere che portava le comari di Parigi a fare la calza sotto il palco della ghigliottina. Questo richiamo è interessante perché ripropone una delle giustificazioni classiche poste a fondamento delle più brutali reazioni positive dello Stato: come potrebbe la punizione avere forza dissuasiva verso i potenziali trasgressori se non fosse portata a conoscenza di costoro in maniera educativamente terrificante da cui l'innalzamento in piazza dei patiboli? Sotto questo profilo, c'è da chiedersi se lo spettacolo desolante degli ammanettati e dei torchiati in TV possa costituire un messaggio educativo per i futuri comportamenti. È interessante questo richiamo alle comari di Parigi, perché ci ricorda che gli attori che per primi calcarono il palco e la ghigliottina erano i protagonisti sconfitti della lotta politica al pari dei protagonisti che oggi sfilano davanti alle telecamere, ci porta cioè al tema affascinante del delitto politico, la cui storia e le cui evoluzioni marciano a pari passo con la storia della società.

La "rivoluzione" ha portato nuovi rapporti di forza; questi ultimi hanno decretato, per motivi che dovranno essere pur una buona volta analiticamente esaminati, l'intollerabilità delle regole vigenti fino all'inizio di questo decennio, dell'antico mercato di favori e privilegi tra imprenditori e pubblici poteri, ed è da sottolineare che questo mercato si sia pubblicamente svolto con un controllo discreto e tollerante delle opposizioni. La rottura di questo collaudato equilibrio ha fatto cadere ogni ostacolo all'intervento repressivo della magistratura, la cui apparente attività destabilizzante si è trasformata, grazie alla condizionante collaborazione dei mass-media, in un congegno di conservazione e di stabilità.

In che modo? In realtà, la forza d'urto si è mostrata sul piano sociale priva di effetti dirompenti; la collettività di fronte alle crepe apertesi nel palazzo — sia perché oppressa dai problemi della crisi economica, sia perché diseducata all'idea della creazione di aggregazioni politiche portatrici di nuovi programmi e di nuove idee — ha confermato il rifiuto della politica attiva e la volontà di delegare alla parte meno compromessa della vecchia classe partitica le scelte di fondo. La consacrazione ufficiale della corruzione dell'area governativa e della connivente negligenza di gran parte di quella dell'opposizione, è sfociata soltanto in una paralizzante voglia di processi, di gogna, di condanne spettacolari; la gente è rimasta inchiodata sotto il palco della moderna ghigliottina incantata davanti all'esecuzione in piazza e le moderne comari parigine fanno la calza abbracciate al televisore, fanno un tifo nell'arena giudiziaria in cui vengono infilati onorevoli, ministri boiardi dell'economia pubblica e privata. Mentre applaudono a tutto ciò e incitano quasi alla violenza non possono rimanere insensibili al messaggio di rassicurazione e di fiducia che viene da questo spettacolo giudiziario.

Per una sorta di astuzia della storia del potere, l'azione della magistratura, da strumento di disgregazione della fiducia di cittadini, si è trasformata in strumento di rassicurazione e conservazione. Lo Stato e l'imprenditoria si dimostrano infatti capaci di far pulizia al loro interno, di disinquinare la produzione di leggi e di decreti, di beni e di servizi dal fango delle illegalità. Il dissenso si mantiene così nell'alveo istituzionale grazie alla vitalità di un potere dello Stato che gestisce una posizione nuova in virtù di una procedura sostanzialmente rapida e giusta; si potrebbe dire "tutto bene, la rivoluzione ha ripristinato la legalità o una legalità", ma così ragionando si dimentica il prezzo patito dagli imputati, il venir meno delle garanzie di difesa, la violazione dei diritti di libertà e viene da domandarsi la funzione assegnata alla custodia cautelare. Essa rientra tra le "sublimi operazioni della giustizia" di cui parlava già Robespierre, o invece è proprio l'appropriarsi indebito da parte dei giudici del compito di definire il disegno politico generale?

Come è stato detto da molti, i fatti sono davanti agli occhi di tutti, ed è evidente la funzione deviante assegnata alla custodia cautelare come sollecitazione alla confessione-collaborazione. Non ci si saprebbe altrimenti spiegare perché ci sono durissime opposizioni delle corporazioni anche alle modifiche puramente interpretative volte a collocare l'istituto della carcerazione preventiva nell'ambito dell'eccezionalità e, ancora, una opposizione radicale ad ogni soluzione politica che non passi attraverso forme di patteggiamento allargate. La magistratura conquista così una incontrastabile legittimazione come soggetto che definisce le linee generali di intervento e su di esse plasma il sistema penale. Ma esistono ancora elementi di incertezza, perché tutto ciò non è codificato, non è contenuto nelle leggi; ecco allora che la troika coercizione-confessione-liberazione, guidata spesso spregiudicatamente, ha consentito i noti successi, e sente però l'esigenza di un'investitura cogente per tutti e per sempre al riparo dalle oscillazioni della pubblica opinione e delle critiche che sono sempre più numerose. Deve essere tradotto in legge: questo è a mio parere un obiettivo cui parte della magistratura tende e questo sarebbe, se dovesse riuscire, il compimento effettivo di una reale rivoluzione.