Testimonianza

Incontro con Giuseppe Berton

Domenica 22, ore 15.00

Relatore:

Giuseppe Berton,
Missionario Saveriano
in Sierra Leone

Berton: La Sierra Leone dovrebbe essere conosciuta per i recenti fatti; in realtà, la guerra in Sierra Leone è cominciata nel ’91, anche se solo dopo quasi dieci anni ci si accorge di questo disastro. Una guerra in cui è stato coinvolto tutto un paese in crudeltà indicibili. In questi giorni, dopo il Kosovo, la televisione mostra le immagini della Turchia: per questo ero incerto nel raccogliere l’invito di parlare della Sierra Leone, perché c’è molta attenzione per una nazione come il Kosovo e molto disinteresse per la Sierra Leone. Questa mia osservazione è dettata dal fatto che forse sono fuori ambiente, sono vissuto lontano dall’Italia troppo tempo per valutare veramente di cosa si debba parlare o di che cosa non si debba parlare agli italiani.

Quello che mi ha incoraggiato a non trascurare così tanto tanta sofferenza è stato un articolo scritto da Jesse Jackson, il quale, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, aveva visitato sia il Kosovo che la Sierra Leone. Le sue parole e la sua esperienza mi incoraggiano. Jesse Jackson racconta infatti di aver incontrato a Lomè, nel Togo, il presidente della Sierra Leone ed il capo delle forze rivoluzionarie del medesimo paese, che si stanno ormai combattendo da oltre otto anni. In questa guerra sono morte più di 600.000 persone – corrispondente alla cifra di persone morte durante la prima guerra mondiale in Italia –, e più di un milione di uomini (donne, bambini e vecchi) sono stati forzati all’esilio. Facendo visita agli ospedali della zona, il politico americano racconta di essersi reso conto dell’orrore della situazione: bambini con i piedi tagliati all’altezza delle caviglie, donne con seni amputati, altre, incinte, con il ventre squarciato. Ad alcuni erano stati asportati gli occhi. Pazienti che avevano perso le mani, le dita, gli orecchi: tutte brutalità causate dai soldati per incutere terrore.

Dopo aver visto tutto questo, dichiara Jackson: "La guerra in Sierra Leone è la più lunga, la più sanguinosa e brutale guerra degli ultimi dieci anni. Nonostante questo è un guerra combattuta all’oscuro di tutti. In sostanza è stata ignorata dal governo degli Stati Uniti". In occasione della sua visita, dopo dieci ore di colloquio, il presidente di Sierra Leone e il capo del Fronte Unico Rivoluzionario di Sierra Leone, giunsero all’accordo di cessare il fuoco il 24 maggio, dopo otto anni di guerra.

Nonostante l’importanza di questo accordo, i mezzi di comunicazione non diedero ad esso alcun rilievo.

Nello stesso periodo, verso la fine d’aprile, Jackson, mosso dal medesimo interesse che lo aveva spinto in Sierra Leone, si recò nella Jugoslavia martoriata dalla guerra. Scopo della missione era incontrare il presidente jugoslavo Milosevic e trattare la liberazione di tre soldati americani. Dal giorno di questa fortunosa missione, le cineprese incominciarono a girare e non si fermarono più. Jackson alla fine di queste due visite notò la straordinaria similitudine delle circostanze in Kosovo in Sierra Leone: entrambi paesi con conflitti interni, conflitti con uccisioni e distruzioni devastanti, un gran numero di cittadini forzati a vivere lontani da casa. L’amara considerazione finale fu però che le due nazioni, pur così uguali, sono trattate diversamente: l’impressione è che non valga la pena di rischiare la vita per salvare degli africani. Mentre ci esponiamo a difendere i kosovari, la NATO e l’America trovano giusto lasciare gli africani in situazioni intollerabili.

Ci sono delle ragioni economiche che incentivano gli sforzi perché si finisca di combattere in Jugoslavia. Quando la guerra sarà finita, gli jugoslavi potranno prendere in mano chiodi e martello per darsi alla ricostruzione: avranno i soldi per costruire la strade, i ponti, le scuole e gli ospedali. Ai sierraleonesi invece non sarà dato niente, guadagnano di più a combattere che a dedicarsi agli studi; così non avranno né libri né un posto di lavoro. La gioventù della Sierra Leone purtroppo non è incoraggiata finanziariamente ad agire per la pace piuttosto che per la guerra. L’inviato speciale delle Nazioni Unite in Sierra Leone, Francis Okelo, ha ribadito questo concetto il 29 luglio del 1999: "Se una frazione delle risorse donate al Kosovo fosse diretta in Sierra Leone, ne avremmo più che a sufficienza per mettere termine a tante tribolazioni. Oggi, in Sierra Leone, l’ONU riceve solamente il 15% di quanto è richiesto dalle nostre operazioni".

Di fronte a una situazione come questa, si corre ora un pericolo enorme: le due fazioni, da una parte i ribelli, dall’altra i nigeriani, una specie di NATO, non vogliono arrendersi l’una all’altra. I ribelli hanno dichiarato di essere disposti a consegnare le armi, non vedono l’ora, ma non lo vogliono farlo di fronte ad una forza internazionale che possa garantire maggiore neutralità. Per il Kosovo sono stati stanziati 13 miliardi, e altri 60 miliardi per i bombardamenti, con la promessa di collaborazione per la ricostruzione; per la Sierra Leone sono stati stanziati 13 milioni, non miliardi, di dollari. Queste sono le differenze; quel che mi fa pensare e sbalordire è il timore che la sofferenza dei neri sia considerata meno della nostra.

Gli orrori mostrati in TV sono solo una minima parte di quelli che in realtà si verificano. Ve ne darò un piccolo esempio. Una volta ho dovuto portare all’ospedale un uomo che aveva messo un piede su una mina. Di solito, quando vogliamo andare a trovare i padri di un’altra parrocchia, non ci lasciano passare, in questa occasione invece ci hanno consentito di portare quell’uomo all’ospedale perché dovevamo salvarlo. Ad ogni curva però dovevamo domandare se più avanti avremmo trovato i ribelli, e il più delle volte la milizia regolare, senza averne alcuna certezza, negava questa possibilità; eravamo soli con il nostro camioncino sulla strada per arrivare all’ospedale: la popolazione civile era sparita e ai lati c’erano solo militari.

Quando si vedono questi orrori, non si sa come ridimensionare le idee, non si sa vedere dove è la colpa, dove la soluzione, tanto meno si sa vedere cosa si potrebbe fare. È una situazione davvero disastrosa, e quello che più fa soffrire è la situazione dei bambini. Quando ritornerò in Sierra Leone – sono dovuto tornare a casa per motivi di salute – continuerò a lavorare coi ragazzi-soldato: le storie che questi ragazzi raccontano sono incredibili, non si possono immaginare.

Un giorno era venuto a trovarci un rappresentante dell’ONU, e ci incoraggiava ad iniziare una campagna per distruggere le armi; mi arrabbiai perché quel funzionario pensava di risolvere il problema e invece non faceva che incrementarlo: distruggere le armi non fa altro che dare un nuovo impulso a questo mercato che dovrebbe invece essere combattuto radicalmente e all’origine. Quello stesso giorno ascoltavo alcuni ragazzi, dai dodici ai quindici anni, che parlavano delle armi; come i ragazzi italiani parlano di calcio, di motociclismo, di musica, loro parlavano di armi. La competenza con cui definivano le caratteristiche tecniche della Beretta era sbalorditiva. La facilità con cui questo popolo abbraccia le armi non può essere combattuta dai missionari, ma dai governi e dagli organismi internazionali: i missionari infatti non hanno la possibilità di chiudere la fabbrica "Beretta".

La nostra missione si confronta con la cultura del posto, una cultura che ha fatto fuggire i giovani dai villaggi, dalle strutture tradizionali: è in queste strutture che noi possiamo lavorare. Nella cultura tradizionale quel che predominava era la figura del padre-padrone; i giovani non accettando più questa autorità sono diventati incontrollabili strumenti di corruzione. La Sierra Leone è una tra le nazioni più ricche dell’Africa: ha diamanti, oro, rutilo, bauxite per l’alluminio, legname, pesca abbondante... Eppure, è la 174° nazione in linea di sviluppo, tra le 174 considerate ufficialmente nel mondo.

Questa è la contraddizione: se voi avete un diamante grezzo non ve ne fate nulla a meno che non ci sia chi ve lo taglia; se avete oro dovete trovare chi ve lo commercia. Le materie prime possono essere usate solo ad alti livelli, la gente comune al massimo è sfruttata da una specie di mafia che fa tutti i tipi di contratti. Durante la mia prigionia, un giorno, invitai un tenente ad abbandonare le armi per continuare la sua professione, visto che era maestro. Lui mi disse: "Padre per trent’anni ci hanno imbrogliato con la penna, con contratti che andavano in tasca a coloro che sono in alto, ora non c’è più tempo per correggere le cose pacificamente, noi non sappiamo fare quelle cose, siamo troppo deboli. Con la mitraglietta metteremo a posto le cose, stiamo arrivando in fondo".

Le mie considerazioni non giustificano certamente gli orrori e le sofferenze, ma tentano di chiarire almeno alcune ragioni di questa situazione. Certo è che l’uomo non ce la fa da solo, come si vede in Prometeo, come si vede nella situazione in Sierra Leone. Se la gente non si perdona, non sarà possibile fare un passo avanti. Che cosa può costare ad un padre di famiglia che cammina su un marciapiede in città vedere dalla parte opposta chi ha violentato e ucciso le sue figlie? Umanamente parlando, è possibile il perdono in un caso simile? Il perdono, la riconciliazione, è solamente un atto di Dio, non è possibile come atto umano, è solamente un atto di Dio. Come atto umano ci si può rimettere alla giustizia, come è avvenuto nel periodo, durato nove mesi di intervallo, tra i due governi regolari. Noi non predicavamo il perdono, predicavamo che ci fosse ordine, che fosse osservata la legge, che non ci fosse il linciaggio. Il perdono è un atto divino.

Non è un modo di dire, è l’unica possibilità in Sierra Leone. L’ultima ragazza che ho incontrato e che si è rivolta alle case-famiglia aveva quattordici anni. Le ho chiesto se era sicura che i suoi genitori fossero morti, perché spesso capita che le notizie siano inesatte. Lei era sicura perché era presente quando avevano sgozzato la madre e sparato al padre; un dipendente del padre lo aveva denunciato come collaboratore del governo ai ribelli: questo era bastato per l’esecuzione a cui lei sola era riuscita a sfuggire. Ingenuamente io le ho fatto questa domanda: "Qual è il tuo più grande desiderio adesso?" Speravo che mi dicesse che voleva andare a scuola. Rispose invece: "Vorrei essere uomo, aggiungermi ai ribelli, cercare colui che ha fatto ammazzare mio padre e mia madre e ammazzarlo; lo conosco, ha due figli e inizierei da loro".

Com’è possibile, umanamente parlando, raddrizzare una situazione come questa? Questo è solo uno dei tanti casi che mi capitano tutti i giorni. Sono andato a visitare, in una specie di ricovero per i vecchi, un ribelle che credevo recuperato. Mi guarda e fissando una vecchia a letto, che non si muove, dice: "Che ne facciamo di gente inutile? Ammazziamoli". All’inizio ho riso, pensando che scherzasse, invece era serio. La corruzione a cui era stato sottoposto il ragazzo per anni, rimaneva indelebile. I ribelli, infatti, avanzano in un villaggio, ammazzano chi incontrano, si portano via i bambini. Questi bambini vivono nei loro campi fino ai 10 anni facendo lavori agricoli; poi cominciano a portare le armi e le munizioni; a 10-11 anni sono in combattimento, non per sparare ma per aiutare chi combatte; a 12-13 anni sono parte delle truppe. Un adulto ha 7 o 8 ragazzi-soldato, li sguinzaglia come cani da caccia. All’ospedale ho sempre trovato solo adulti feriti dalle gambe in giù, il che vuol dire che per fermarli puntano ad una certa altezza. Non ho mai trovato un bambino ferito a quell’altezza: i bambini li prendono in pieno.

Come porre rimedio a questo è un’incognita enorme per il futuro, ci sono contraddizioni incomprensibili. Non ultima la firma, nel 1997, del trattato di pace tra il capo del governo e il capo dei ribelli riconosciuto, in questo modo, come forza legale. Dopo due anni, il capo dei ribelli è stato consegnato dai nigeriani al governo di Sierra Leone, è stato portato in tribunale e condannato a morte. Due mesi dopo, nuovo trattato di pace. Ora è stato eletto Ministro della Ricostruzione con pari dignità a vice presidente.

Termino con un’immagine che mi è rimasta in mente e che non riesco a cancellare: quando avevamo organizzato la fuga perché i ribelli ci tenevano prigionieri, all’ultimo momento, quando eravamo solamente a 100 metri dalle truppe di interposizione, i ribelli ci hanno fatto l’ultima imboscata, come un’onda ci sono corsi incontro sparando. Fortunatamente la gioventù del posto li ha rigettati a sassi e bastoni. Io mi sono nascosto in uno sgabuzzino che serviva alla gente per lavarsi, dietro una casa. Non sapendo se erano ribelli, se venivano per liberarmi o per prendermi ancora, stavo lì quieto. Fuori una mamma aveva perso il suo bambino, ne portava uno sulle spalle piccolino e continuava a correre di qua e di là, per recuperare l’altro, più grandicello. Dietro di me, nascosto con me, c’era un ragazzo; gli ho chiesto: "Quella è tua mamma?". Lui dice: "No". "Allora sta quieto qui, non muoverti". Dalla feritoia vedevo questa donna, era il simbolo per me della sofferenza reale di una nazione: gli uomini si ammazzano, le mamme cercano di proteggere gli ultimi. È una vera tragedia. Solo da quei piccolini potrà risorgere Sierra Leone.