Jugoslavia: il dramma di un popolo,

frammenti di un esilio

Venerd

29, ore 11.30

Relatore:

Enzo Bettiza,

Scrittore ed Editorialista.

 

 

 

 

 

 

Il libro Esilio, che ho scritto un anno e mezzo fa, si impernia sul tema dell’esilio in maniera particolareggiata e autobiografica e al tempo stesso anche in maniera più ampia. Esilio non soltanto come mia, oramai felicemente superata, esperienza personale, ma esilio anche come una condizione umana del nostro tempo e, in particolare, di una porzione ben precisa di questo secolo che ha visto trasmigrazioni di massa da una regione all’altra del continente europeo e che vede tuttora, in nuove forme, non più politiche, ma più disperatamente economiche, le forme delle nuove immigrazioni che ci arrivano in Europa dal mondo africano, dal Medio Oriente e dal vicinissimo e dirimpettaio Adriatico.

Una delle condizioni dell’europeo in quanto tale oggi è quella di essere sempre più inospitalmente e drammaticamente estraniato dall’ambiente in cui è nato e in cui ha vissuto. Le maniere attraverso le quali l’esilio può manifestarsi in una persona sono infinite: uno può sentirsi esule a casa propria, nella propria famiglia per ragioni e traversie familiari, può sentirsi esule nel proprio ambiente religioso, può sentirsi esule, all’improvviso, nel proprio partito, quando non è più d’accordo con la linea politica...

L’erraticità, la mobilità interiore mescolata anche all’agitazione e alla disperazione è quindi un elemento costante della problematica modernità del nostro tempo. Il mio caso personale mi pare esemplificativo: prima dell’esilio ero un uomo di frontiera, costretto al termine della seconda guerra mondiale a venire via dalla mia terra, la Dalmazia, perché i profughi dalmati avevano passaporto italiano. Questa forma particolare di esilio intimo, di esilio immobile, di esilio esistenziale, l’ho vissuta, come tanti altri miei conterranei, istriani, dalmati, quarnerini, nel mio stesso ambiente familiare; col tempo, però, mi sono accorto del fatto che l’uomo di frontiera può essere tentato, nei climi soprattutto politici europei di questo secolo, di amputare una parte di se stesso, di espellere da sé una componente della sua personalità meticcia, della sua personalità composita. I nazionalismi, i fascismi portavano a questa specie di suicidio xenofobo all’interno della stessa persona nata in una zona di confine, così i triestini di origine slovena non volevano più parlare lo sloveno, moltissimi istriani o dalmati per metà slavi non volevano più parlare slavo o viceversa rifiutavano la parte italiana. Per la mia particolare formazione ho invece sempre cercato di mettere in moto delle forze centripete anziché delle amputazioni centrifughe; ho sempre cercato di raccogliere tutti gli elementi formativi e della mia famiglia e della mia persona, di tenerli raccolti insieme, giudicando il meticciato non un insulto, ma una forma di nobiltà e di ricchezza esistenziale.

A partire da questo filo conduttore dell’esilio ho cercato anche di ricostruire le radici e le origini del dramma nella ex Jugoslavia. Mai avrei potuto pensare che proprio in Jugoslavia, a cinquanta anni dalla seconda guerra mondiale, si sarebbe ripetuto in forma concentrata ancora più micidiale di quanto non lo fosse stato durante la guerra, lo stesso intreccio di orrori, di violenze raddoppiate.

Perché è accaduta questa guerra, che è costata dal ‘91 al ‘94 circa cinquecentomila persone, quante ne perdette l’Italia durante il primo conflitto mondiale?

Il primo responsabile è stato il comunismo: la Jugoslavia di Tito era uno scampolo meridionale degli imperi comunisti, che erano delle grandi ghiacciaie, perché i comunisti dicevano sempre di risolvere i problemi mentre in realtà li congelavano. Questi problemi, quando la crosta di ghiaccio comunista si è disciolta, sono riemersi con la virulenza di fenomeni compressi per troppo tempo, con una virulenza quindi decuplicata.

Il secondo responsabile è il capitalismo indifferente delle nazioni europee che hanno assistito a tutto questo senza prendere posizione, senza intervenire subito, come invece si sarebbe dovuto. L’unica persona che ha bene individuato il problema dei massacri interjugoslavi è stato il Papa, che ad un certo momento ha affermato che quando la malvagità degli scontri etnici supera il limite del tollerabile, è giusto intervenire per riportare la pace. La politica del Papa è stata sempre quello di far capire chi era l’aggredito e di difenderlo e chi era l’aggressore, ciò che invece non hanno fatto le maggiori diplomazie occidentali, che hanno sempre messo l’aggressore serbo sullo stesso piano dell’aggredito sloveno prima, dell’aggredito croato poi, e infine del più aggredito mussulmano. Hanno messo sempre tutti sullo stesso piano in una falsa asimmetria di responsabilità che non rispondeva nella maniera più assoluta alla verità, alla realtà della situazione.