Testimonianza: Sua Ecc. Mons. Josip Bozanic

Lunedì 24, ore 15

Relatore:

Josip Bozanic

Josip Bozanic, nato in Rijeka nel 1949, ha studiato Teologia e Diritto Canonico a Rijeka, a Zagabria e a Roma (Università Gregoriana e Lateranense). Ordinato sacerdote della diocesi di Krk (Veglia) in Croazia il 29 giugno 1975. E’ stato viceparroco, segretario del Vescovo e Vicario Generale prima di essere nominato Vescovo coadiutore di Krk il 10 maggio 1989 e consacrato il 25 giugno dello stesso anno.

Dal 14 novembre ‘89 è Vescovo della diocesi di Krk.

Professore di Diritto Canonico nel Seminario Maggiore di Rijeka, Presidente del Consiglio per i Laici della Conferenza Episcopale Croata, Vice Presidente della Commissione Iustitia et Pax della Conferenza Episcopale Croata.

Bozanic: Desidero presentare una testimonianza relativa alle vicende della Chiesa in Croazia e nelle altre parti della ex-Jugoslavia in veste di Vescovo e Pastore della Santa Chiesa di Dio. Il tema cui voglio accennare si può forse esprimere così: "Le ragioni della speranza" e fa riferimento alla morale e alla vita sociale del mio Paese. Mentre dappertutto, nel mondo, si parla di demilitarizzazione, di disarmamento, di pace, mentre si sta tentando di costruire un’Europa nuova, casa comune dei suoi popoli e nazioni, abitazione pacifica di tutti gli Europei, in una sua parte, nei Balcani, ormai da mesi infuria una guerra intestina strana e sporca, guerra la quale uccide persone, fa campi di concentramento, produce profughi, distrugge senza misericordia città, paesi e villaggi, rade al suolo, danneggia istituti di beneficenza e monumenti storici e sacri, ospedali, ricoveri per handicappati, scuole, monasteri, chiese, cimiteri. Perché tante stragi, quali sono le radici e le cause della guerra, che, stando alle finalità a cui mira, appartiene piuttosto al passato, guerra istigata e condotta da ideologie e visioni del mondo che credevamo scomparse per sempre? Nel momento in cui l’Europa proclama i diritti dell’uomo e del cittadino, ratificandoli con le Carte internazionali che ben conosciamo tutti, nel momento in cui viene accolto con euforia il crollo del comunismo, la Comunità Europea e Internazionale, ci pare, ha mostrato una certa debolezza nei confronti della situazione jugoslava.

Come spiegare questo fenomeno così tragicamente perverso? Rimanendo sul piano umano, per cercare di capire alcuni meccanismi è bene rifarsi al contesto storico. Si tratta di una guerra fatta in Europa, nelle regioni balcaniche, praticamente nell’ex Illiricum, ossia nella prefettura illirica. Quindici secoli or sono, ai tempi del declino dell’Impero Romano, esse vennero divise per diventare in seguito le une parti integranti dell’Impero Romano d’Occidente, le altre dell’Impero Romano d’Oriente. Durante il Medioevo, nella porzione occidentale venne organizzato il Regno di Croazia e, in quella orientale, il Regno di Serbia. Il primo venne poi unito al Regno di Ungheria, nel 1102, e poi all’Impero austroungarico nel 1527. L’altro Regno, invece, quello della Serbia, durò sino al 1389, quando fu sconfitto e invaso dall’Impero ottomano in ascesa, dalle cui strette non si liberò se non nel secolo scorso, dando vita, in primo luogo, al Principato di Serbia e in seguito al Regno di Serbia, con capitale Belgrado. Va ribadito che l’Impero ottomano, impossessatosi della Bosnia ed Erzegovina nel 1464, ne restò padrone sovrano fino alla seconda metà dell’Ottocento. In questo contesto va sottolineato che l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, la cui tragica vittima fu Ferdinando, il Principe ereditario dell’impero austroungarico, scatenò l’uragano del primo conflitto su scala planetaria. Orbene, l’Imperatore d’Austria, il quale sino al 1918 fu contemporaneamente Re di Ungheria e di Croazia, con lo sfacelo della propria monarchia cessò di essere sovrano degli Sloveni, dei Croati e di altre popolazioni slave, le quali, in quell’istante storico, optarono per un altro assetto socio-politico. Infatti, il primo dicembre 1918, una delegazione ufficiale di rappresentanti sloveni e croati si presentò a Belgrado alla Corte del Re Alessandro di Serbia, invitandolo ad accogliere il Paese degli Sloveni e dei Croati, il quale cessava di far parte dell’Impero asburgico, in un nuovo Stato che assunse il nome di Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni e che, dieci anni dopo, sarebbe stato denominato Krajevina Jugoslavia, cioè Regno di Jugoslavia. Il nuovo Stato tentò di unificare in una nuova compagine politica la parte orientale, prevalentemente ortodossa, ed occidentale, in prevalenza cattolica. Sembrava essere stato gettato un ponte di collegamento, oltre la fatidica frontiera stabilita nell’antichità fra l’Impero Romano Orientale ed Occidentale, tra la civiltà bizantina, che contrassegnava la nazione serba, macedone e montenegrina e le regioni occidentali, anzitutto la Croazia e la Slovenia, formatesi per secoli nell’ambito della cultura latina. Gli operatori politici provenienti dalle parti ex-austriache ritenevano che la nuova entità statale jugoslava andasse strutturata secondo i principi di equiparità delle parti e delle nazioni di cui cominciava a sussistere lo Stato novello. La politica ufficiale serba, invece, si comportava come se la recente composizione politica non fosse altro se non l’allargamento del già esistente Regno di Serbia. L’equivoco era scontato. Queste concezioni diametralmente contrapposte presero, sin dall’inizio, a scuotere le fondamenta stesse del Regno di Jugoslavia. Molti Croati, decisi a difendere i diritti inderogabili della propria identità nazionale e culturale, diventarono vittime della repressione dello stato unitario: chi finiva in carcere, chi andava addirittura vittima del sopruso poliziesco. Il tragico trend raggiunse un punto culminante nel Parlamento, a Belgrado, nel 1928, allorquando vi furono assassinati tre cospicui rappresentanti croati: tra i quali il più famoso era l’onorevole Stevan Ravic, organizzatore e presidente del Partito Nazional Croato più numeroso. Con queste tensioni e contraddizioni interne, il Paese si trovò di fronte al secondo conflitto mondiale, nel 1941. In una decina di giorni l’esercito governativo sbandò e la compagine statale, non potendo regolare l’urto, si disgregò. Varie nazioni, le quali avevano sperimentato la Jugoslavia del primo periodo quale galleria di popoli, ritennero la sua decomposizione come un sollievo, anzi quale vera e propria liberazione. Ma l’assetto di nuove soluzioni politiche non si verificò se non con l’appoggio delle forze dell’Asse. In tali condizioni, ad esempio, fu programmato a Zagabria nell’aprile del ‘41 lo Stato Indipendente Croato, alla cui guida non si trovarono dirigenti politici democraticamente eletti dalla popolazione, bensì gruppi di partito, i quali godevano del sostegno delle forze esterne che facevano capo alla Germania di Hitler e all’Italia di Mussolini. La Nazione si vide in seguito coinvolta nella guerra civile che si rivelò estremamente atroce e crudele proprio sul territorio dello Stato Indipendente Croato. Allorquando la Germania, nel ‘41, dichiarò guerra all’Unione Sovietica, nel Paese si fece viva la guerriglia partigiana guidata dai comunisti, i quali si battevano per un progetto statale ispirantesi al modello sovietico. Ed infatti gli alleati occidentali diedero una mano ai partigiani capeggiati da Tito. Godendo del loro aiuto, questi assunsero nel ‘45 il potere, dando vita ad una seconda Jugoslavia, non più costituita dal Regno monarchico, bensì come Unità federale. In parte, la soluzione confederale era motivata dal tentativo di trovare una via d’uscita all’aggrovigliato problema nazionalistico; infatti alle singole Repubbliche federali, le quali, più o meno, facevano capo alle principali nazioni esistenti nell’ambito della Jugoslavia, venne riconosciuta un’entità politica a se stante, mentre sul livello unitario si cercava di far funzionare la loro cooperazione. Ma siccome il monopolio del potere veniva energicamente detenuto ed esercitato dall’oligarchia comunista in modo centralistico ad oltranza, il fallimento della democrazia e dei diritti umani fondamentali era scontato. Di conseguenza, il tentativo di una soluzione equa del problema nazionale in Jugoslavia si dimostrò una mera finzione. Con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale e centrale, negli anni ‘89 e ‘90, ebbero luogo anche in Jugoslavia le prime elezioni libere e segrete del dopoguerra. In quattro delle sei Repubbliche federali e cioè in Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia, si imposero partiti democratici di stampo nuovo, mentre in Serbia e nel Montenegro rimasero al potere formazioni centralistiche che si rifacevano al partito comunista, pur avendo assunto la designazione di Partiti socialisti. Nel periodo pre-elettorale i potenti quadri dirigenti delle Forze armate jugoslave si dichiararono decisamente contro le elezioni democratiche libere e, dopo le medesime, si schierarono con i Partiti socialisti, praticamente comunisti della Serbia e del Montenegro.

Va segnalato che non molto dopo la morte di Tito, avvenuta nel 1980, ebbe inizio in Serbia un movimento a favore della costituzione di una grande Serbia. Il che si poteva realizzare unicamente alle spese dei territori di altre Unità federali, in primo luogo delle Croazia, della Bosnia e ancora più del Kosovo e della Voivodina. Il concetto di tale Serbia veniva elaborato in un documento semi-ufficiale, redatto a cura dell’Accademia di Scienze ed Arti della Serbia, con sede a Belgrado, nel 1985. In seguito ad un progetto del genere, alcuni anni dopo venivano soppresse le regioni autonome della Voivodina e del Kosovo ed i loro rispettivi territori integrati in quello della Serbia. La popolazione albanese, che rappresenta il 90% della popolazione del Kosovo e che detiene la terza posizione in Jugoslavia, essendo preceduta solamente dai Serbi e dai Croati, venne a trovarsi in condizione di grave e discriminante disparità, vedendosi privata dei fondamentali diritti nazionali, culturali e umani. Come è risaputo, la Jugoslavia del dopoguerra era composta da sei Repubbliche, le cui frontiere e le corrispondenti capitali sono ufficialmente determinate, vale a dire la Serbia con capitale Belgrado, la Croazia con Zagabria, la Slovenia con Lubiana, la Bosnia-Erzegovina con Sarajevo, la Macedonia con Skopje e il Montenegro con Titograd o Podgoriga. In quattro di queste Repubbliche, cioè in Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina, ebbe luogo un referendum tramite il quale le rispettive popolazioni furono invitate a dichiararsi a favore di uno Stato indipendente e sovrano da realizzarsi nell’ambito delle rispettive Repubbliche. Fu quest’ultima alternativa che risultò suffragata dalla stragrande maggioranza delle popolazioni interpellate. In Croazia a favore dello Stato indipendente e sovrano si dichiarò il 92% degli elettori (mentre per lo Stato federale jugoslavo non si pronunciò che il 5,3%), i quali rappresentavano il 74,3% della popolazione complessiva della Croazia. In Jugoslavia si avverte una tendenza notevolmente diffusa verso il perseguimento dell’indipendenza delle varie popolazioni. Solo nella Serbia si registra la tendenza all’occupazione di territori altrui, con le conseguenti modifiche degli attuali confini interni tra le varie Repubbliche. Gli sviluppi separatisti e centrifughi che si avvertono presso le singole nazioni esistenti nell’ambito dell’ex Jugoslavia federale hanno le loro radici nella tutt’altro che gradevole convivenza delle popolazioni slave-meridionali con le altre dello Stato, venutasi a creare all’indomani della fine della prima guerra mondiale.

Per quanto riguarda l’aspetto interconfessionale, va menzionato che in Jugoslavia esistono, l’una accanto all’altra, specialmente in alcune regioni quale la Bosnia e il Kosovo, tre preponderanti religioni: la cattolica, l’ortodossa e la musulmana. Nelle Repubbliche della Croazia e Slovenia prevalgono i cattolici, in Croazia, stando ai dati dell’ultimo censimento del ‘91, questi costituiscono il 71% della popolazione complessiva. La confessione ortodossa prevale nelle regioni orientali, in Serbia, in Macedonia e nel Montenegro. In Bosnia-Erzegovina esse coesistono: i musulmani vi rappresentano la maggioranza relativa, seguiti dagli ortodossi e dai cattolici. Nel Kosovo i musulmani sono la maggioranza assoluta. Per quanto concerne la Chiesa cattolica, va ribadito che, mentre essa nel quadro della monarchia austroungarica costituiva la maggioranza degli abitanti, quando entrò a far parte del Regno dei Serbi, degli Sloveni e dei Croati, nel 1918, ebbe sin dall’inizio un’esperienza profondamente differente, poiché si vide raffrontata con la Chiesa ortodossa serba, religione di Stato. Le relazioni interconfessionali fra cattolici e ortodossi, dal punto di vista ecumenico, lasciavano a desiderare. Ciò venne simbolicamente confermato dal fallimento del Concordato tra il Regno di Jugoslavia e la Santa Sede; benché l’accordo fosse già approvato nella Camera dei Deputati e addirittura firmato da entrambi le parti nel 1935, non fu mai ratificato nel Senato. Il suo iter parlamentare venne bloccato sulle strade di Belgrado dalle dimostrazioni di massa, promosse dal clero della Chiesa ortodossa serba. A partire dagli anni ‘80, furono rivolti al Santo Padre degli inviti a far visita in Jugoslavia, invito che non si è potuto realizzare. Durante il regime comunista il fatto trovava questa interpretazione ufficiosa: le condizioni per una visita del genere non si ritengono ancora mature. Negli ultimi anni, da parte dei mezzi di comunicazione dei Serbi si assiste ad una serie di attacchi, talvolta violenti, nei confronti della Chiesa cattolica, della Santa Sede, del Vaticano e addiritttura della persona del Santo Padre stesso. Tale propaganda è abitualmente connessa con quella indirizzata contro le Nazioni croata e slovena e, generalmente, contro il cattolicesimo.

Le elezioni democratiche del ‘90 in Croazia, per esempio, con la susseguente trasformazione del sistema governativo del Paese, arrestarono il controllo e la dominazione esercitata sistematicamente dal regime federale di Belgrado nei confronti della Croazia. Il fatto però non poteva non irritare i vertici delle Forze Armate jugoslave, gelosi dei privilegi goduti anteriormente in base al monopolio monopartitico. In seguito ad una tensione del genere, in alcune regioni della Croazia ebbe luogo, a partire dalle elezioni del ‘90, una sorta di strumentalizzazione della popolazione di nazionalità serba, la quale cominciò a dichiararsi a favore degli interessi della Federazione jugoslava e, più precisamente, di quelli della repubblica della Serbia e delle Forze Armate federali. Resta però il fatto che i Serbi, in Croazia, non rappresentano se non una minoranza del 12%, la cui maggior parte emigrò in Croazia alcuni secoli fa, spostandosi dalle regioni balcaniche centrali, spinti verso occidente dalle invasioni ottomano-turche; in parte vi si stabilì in tempi più recenti, cercando migliori opportunità di vita.

Nell’ambito del crollo dell’ideologia marxista e del clima del nuovo assetto dell’Est europeo, era legittimo nutrire speranze per un futuro migliore. Invece, sulla speranza si è abbattuta la guerra.

C’è chi si chiede di quale tipo di guerra si tratti: guerra interconfessionale, guerra etnica, guerra civile od altro. La guerra in Croazia, prima, poi in Bosnia-Erzegovina non sarebbe stata assolutamente possibile senza l’intervento della Serbia e l’appoggio dell’Armata Federale. Non si può dire che si tratti di guerra religiosa o interconfessionale, benché da tutte le parti si battano, gli uni contro gli altri, gli appartenenti della tradizione ortodossa o cattolica o mussulmana. Si tratta praticamente di una guerra con le seguenti conseguenze: vi sono tanti profughi in tutta l’ex Jugoslavia, oggi se ne contano due milioni. La guerra mira a pulire i territori: per questo si manda via la gente, specialmente, nell’ultimo tempo, nella Bosnia-Erzegovina, dove si mandano via mussulmani in maggioranza e poi cattolici croati. Si deve sottolineare anche che i mussulmani rappresentano adesso un problema non solo nella Bosnia, ma anche nel Kosovo, dove rappresentano il 90%. I mussulmani, in Bosnia, sono di origine slava, invece quelli in Kosovo di origine albanese.

La Chiesa cattolica in Croazia e in Bosnia non propone soluzioni politiche proprie. La sua scelta è decisamente a favore della volontà ultimamente espressa dalle Nazioni. La Chiesa riconosce le autorità legittimate e democraticamente elette dal popolo. Così facendo, essa segue ed interpreta la dottrina sociale cattolica, in primo luogo quella che ultimamente è stata oggetto anche dell’insegnamento di Giovanni Paolo II.

La lotta in Croazia e in Bosnia ha avuto un enorme impatto su tutta la Nazione. In mezzo a tutte le sofferenze, come accade in altre forme di avversità, è cresciuta la solidarietà dell’intera società. C’è nell’aria anche un senso di rinascita morale. Come altri Stati esposti all’influenza profondamente corrosiva e corruttiva del dominio comunista, la Croazia era entrata nel post-comunismo moralmente indebolita, nonostante le manifestazioni individuali di virtù eroica ed anche di santità. Sotto la pressione comunista la corruzione è penetrata in ogni parte della società; ogni etica del lavoro precedente al comunismo era stata rimpiazzata da una inosservanza quasi totale di ogni obbligo professionale. La sottile corruzione operata dal comunismo è uno dei maggiori problemi cui vanno incontro i regimi post-comunisti dovunque in Europa. In Croazia, in Bosnia e nelle altre parti della ex Jugoslavia, le sofferenze sopportate da tutte le nazioni e le qualità messe in luce nell’affrontare la guerra hanno creato un forte clima di rinascita morale.

Uno dei sottoprodotti è stata una ancor più stretta amicizia fra la Nazione sofferente e la Chiesa, che soffre con lei, in Croazia. Questo è un elemento importante per il futuro, quando dovrà ricominciare la ricostruzione della Croazia. Ne beneficiano la Chiesa e anche la Nazione. Ci sono però nell’aria pericoli dai quali bisogna guardarsi. Il primo è uno spirito di vendetta, il senso di rivalsa verso la Serbia e quanto è ad essa legato, forse comprensibile in considerazione delle sofferenze inflitte alla Croazia e alla Bosnia-Erzegovina. La Chiesa cattolica continua a consigliare prudenza e tolleranza verso i Serbi. La vera prova verrà quando la guerra della Serbia finirà e la Croazia e la Bosnia-Erzegovina cominceranno a costruire il loro devastato sistema. Le Nazioni che hanno subito un trauma hanno bisogno anche della solidarietà e della comprensione internazionale. Uno dei modi per prepararsi ad un futuro che preveda rapporti di buon vicinato con i nemici di oggi è pensare a quello che si insegna nelle scuole, l’uno a proposito dell’altro. Questo è particolarmente vero nell’insegnamento della Storia. Nel passato le guerre venivano preparate negli anni, molto prima dello scoppio effettivo. Anche l’attuale aggressione contro la Croazia e contro la Bosnia-Erzegovina sono state preparate anni fa dall’espansionismo serbo degli intellettuali, che sognavano una grande Serbia costruita a spese della Croazia e della Bosnia-Erzegovina, senza curarsi minimamente di queste ultime. La verità è un eccellente antidoto e dovrebbe contribuire a migliorare il clima tra i Serbi, Croati e mussulmani, come è accaduto fra vecchi nemici quali Francesi e Tedeschi o fra Tedeschi e Polacchi. Quelle Nazioni, per esempio, hanno lavorato per anni a correggere congiuntamente i vari stereotipi e gli errori reciproci. La Chiesa deve instancabilmente lavorare nello spirito dell’ecumenismo, un ecumenismo dalle basi più ampie, che richiederà molta prudenza. La spaccatura si è allargata durante la guerra, un tentativo prematuro di colmarla potrebbe fallire.

Fino a metà gennaio del 1992, cioè fino al riconoscimento della Croazia e della Slovenia da parte della Comunità Europea, il mondo parlava ancora della Presidenza Jugoslava, del Governo Federale Jugoslavo, dell’Armata Federale Jugoslava, della Jugoslavia Federale che, di fatto, non esisteva più dopo il golpe silenzioso fatto a Belgrado dal blocco serbo nella presidenza slava, nell’ottobre del ‘91. I metodi della Comunità Europea, con la Conferenza per la pace, con la moratoria di tre mesi, con il "cessate il fuoco" e la tregua proclamata tante volte e non rispettata, ci pare abbiano, da una parte, sortito l’effetto di rassicurare l’Armata e la Serbia sul fatto che nulla di serio si faceva per fermare le distruzioni di beni culturali e civili e soprattutto di vite umane in Croazia e in Bosnia-Erzegovina. Non si comprende perché molti firmatari della Carta dell’ONU, nel caso di Croazia e Bosnia-Erzegovina, tacessero e lasciassero che decidesse il più armato e il più forte. Non si comprende perché molti politici, in posti di responsabilità, che si appellano agli Atti di Helsinki o alla Carta di Parigi, nel caso di Croazia e Bosnia Erzegovina tacessero e facessero sapere che l’assurda aggressione contro la Croazia e contro la Bosnia-Erzegovina costituiva un affare interno della Jugoslavia.

La cultura europea è caratterizzata dal tema ricorrente della doppia identità, cioè una realtà culturale, che viene chiamata Europa, e le sue parti costituenti Nazioni e Madrepatria. La Nazione (insieme alla democrazia politica rappresentata dal Parlamento, la Comunità urbana, l’Università e la Cattedrale), è un’istituzione europea per eccellenza. Le Nazioni, come forma di organizzazione sociale, nacquero proprio in Europa. L’esperienza europea nella costituzione della nazione è estremamente ricca e dimostra una grande varietà di forme. L’Europa è una famiglia delle Nazioni. Per questo l’Europa di oggi, ormai liberata dal giogo comunista, sta assistendo al completamento di un processo iniziato nel secolo scorso e cioè alla conquista dell’indipendenza da parte di alcune Nazioni finora forzatamente integrate negli Stati ufficiali. Il Santo Padre ha detto nel 1980 all’UNESCO: "Non ci sono forse sulla carta d’Europa e del mondo delle Nazioni che hanno una meravigliosa sovranità storica, che proviene dalla loro cultura e che sono tuttavia allo stesso tempo private della loro piena sovranità"? Non è questo un punto importante per l’avvenire della cultura umana, importante soprattutto nella nostra epoca, quando è tanto urgente eliminare i resti del colonialismo? L’etica del Cristianesimo evidenzia il diritto di ogni Nazione di preservare i diritti fondamentali della propria cultura e di mantenere la propria sovranità culturale. E’ stato appunto il Cristianesimo a sottolineare fin dall’inizio il diritto di ogni Nazione alla preservazione della propria identità culturale. E per questo la specificità culturale d’Europa va ricercata nella consapevolezza che essa è, di fatto, una pluralità di culture sovrane e la sovranità culturale di una nazione un requisito per l’indipendenza politica.

La fondamentale sovranità culturale delle Nazioni è strettamente connessa con il patriottismo. Questo va ben distinto dal nazionalismo. Le radici del patriottismo vanno ricercate nel periodo iniziale della vita umana, cioè nella natura dell’uomo. Il Papa ha detto: "L’amore per la madrepatria non ha nulla in comune con il nazionalismo in senso stretto e con lo sciovinismo. Esso è un diritto del cuore umano". Il problema della nazionalità nei Paesi post-comunisti è un banco di prova per la nuova Europa. Ciò che era nascosto sotto la copertura di un internazionalismo artificiale adesso riemerge con tutta la sua forza. Il futuro dell’Europa dipende in buona parte anche dal modo di risolvere tale problematica. Gli uni temono i disordini e i conflitti nazionali, gli altri invece rilevano il diritto dell’autodeterminazione come base dell’ordine internazionale. Possiamo porre la domanda se un tale ordine e la giustizia si escludano a vicenda in Europa, oggi. Si deve mantenere artificiosamente lo status quo che non ha un avvenire? Gli Europei sono chiamati oggi a determinare con responsabilità, con sufficiente realismo ma anche con coraggio, il cammino d’Europa. La Chiesa protegge e proclama il diritto delle Nazioni, delle minoranze nazionali e degli emigrati. La Chiesa dei Paesi ex comunisti mi pare sia chiamata, in particolare, ad essere un luogo di riconciliazione, poiché l’ideologia è vanificata ma sono rimasti in piedi i suoi portatori ed operatori feriti, delusi ed ingannati. Non dobbiamo mai cessare di perdonare e di chiedere il perdono a quanti si sono sentiti offesi.