John Dewey: la natura senza destino

Venerdì 25, ore 18.30

 

Relatore:
Elisa Buzzi,
Insegnante e Ricercatrice

 

 

Buzzi: Innanzitutto, vorrei chiarire perché può essere interessante parlare oggi di un pensatore come Dewey, al di là di un interesse culturale erudito e anche di un interesse rispetto ad una attualità culturale, dato che (come vedremo più avanti) Dewey è ai nostri giorni oggetto di una rivalutazione.

I motivi di interesse sono soprattutto due. In primo luogo, Dewey ha sviluppato una riflessione sistematica, piuttosto complessa, intorno a temi e parole che hanno una qualche affinità con certe posizioni tradizionali; cristiane ed anche "cattoliche". Pensiamo a parole che sono centrali nel pensiero di Dewey, come "esperienza", "natura", "ambiente", "società", "educazione", "democrazia". Nel pensiero di Dewey, l'educazione occupa un posto assolutamente centrale: rispetto a molti filosofi contemporanei, è questa decisamente un'eccezione. Inoltre, Dewey, come del resto tutto il pragmatismo, instaura un forte legame fra il pensiero teorico, e l'azione.

Tutti questi elementi spiegano il fascino, l'attrazione che Dewey ha esercitato anche su pensatori che non condividevano le sue posizioni fino in fondo, come i pedagogisti cattolici. D'altro canto, Dewey è sicuramente uno degli esempi più lucidi e coerenti di un pensiero che, in tutta la sua struttura globale e in ognuna delle sue posizioni particolari, cerca con un impegno singolare, di sradicare e cancellare dall'interpretazione dell'uomo e del mondo ogni minima traccia di senso religioso, di senso del Mistero.

Il secondo motivo, più specifico, riguarda la cultura contemporanea ed il peso che un filosofo come Dewey ha avuto in tale cultura. Dopo qualche anno di oblio, verificatosi dopo la sua morte, oggi egli è oggetto di una rivalutazione, e viene riproposto come un punto di riferimento per gli intellettuali, non solo in America ma anche in Europa.

John Dewey nasce nel 1859 nel Vermont e muore nel 1952. È stato definito da Bertrand Russell (un suo avversario filosofico) "il filosofo americano più notevole del XX secolo". Oggi, uno dei suoi seguaci contemporanei, Richard Bernstein, lo considera come l'ideatore di una concezione che rappresenta "l'espressione intellettuale più caratteristica della cultura americana", che si potrebbe indicare con il nome di "Umanesimo democratico".

Nel corso della sua lunghissima esistenza, Dewey ha avuto un impatto enorme sulla cultura d'oltreoceano, intervenendo ad ogni livello, dalla filosofia alla logica, dalla pedagogia alla politica, con autorità indiscussa. Ad esempio, una serie di suoi articolo pubblicati tra il '29 e il '30 sulla rivista d'avanguardia New Republic, ha praticamente lanciato, dal punto di vista culturale ed ideologico, il "New Deal" di Roosevelt. La sua produzione è sterminata, e va dagli anni che precedono la I Guerra Mondiale al secondo dopoguerra. Ma Dewey non si è solo limitato a filosofare, è intervenuto attivamente anche nella vita politica internazionale. Ad esempio, nel 1937, ormai quasi ottantenne, non esitò ad affrontare un viaggio in Messico molto faticoso come capo di quella commissione d'inchiesta che doveva verificare se le accuse lanciate contro Trotzkji nei processi di Mosca da Stalin erano giuridicamente fondate o meno.

Tra i capiscuola storici del pragmatismo, Dewey è certamente quello che ha avuto una formazione filosofica più tradizionale, più solida. Dewey aveva studiato filosofia, apprezzava il pensiero greco, Platone e soprattutto Aristotele, e per un certo periodo era stato molto attratto dal pensiero di Hegel, che in seguito abbandonò, influenzato soprattutto dalla psicologia funzionalista. Dell'insegnamento di Hegel, trattenne lo storicismo, la temporalizzazione della razionalità, l'idea che il contesto storico e culturale ha un'importanza fondamentale nel giudicare il pensiero dell'uomo, e la definizione della filosofia come "il proprio tempo appreso nel pensiero".

Una tale formazione filosofica conferisce alla sua posizione — una versione molto radicale del pragmatismo, che egli stesso definì operazionismo o strumentalismo — un'ampiezza di respiro e uno spessore culturale tali da collocarlo tra i filosofi contemporanei che hanno formulato una critica profonda e totalizzante nei confronti della tradizione e della ragione occidentale, tanto è vero che oggi lo si paragona spesso a Nietzsche e a Heidegger. Tuttavia, rispetto a questi profeti del pensiero filosofico contemporaneo, l'americano Dewey ha un vantaggio notevole: è assolutamente "politically correct" (pensiamo, invece, a Nietzsche ed a certe sue posizioni sostanzialmente antidemocratiche, malgrado i tentativi di recupero di una certa ala della sinistra; pensiamo a Heidegger ed alla sua adesione al nazismo, così imbarazzante per gran parte della cultura contemporanea). Anzi, si può dire che incarni il prototipo dell'intellettuale progressista: democratico, impegnato, tollerante, ottimista e laico, cioè di sinistra-ma-non-marxista, secondo una dizione che rappresenta la quintessenza della laicità contemporanea. Vorrei far notare a questo proposito, che tutti questi aggettivi — tollerante, democratico, laico —, tendono, già nel caso di Dewey, a sganciarsi da quelle pratiche ed istituzioni storiche all'interno delle quali sono nate. La parola "democratico", ad esempio, non si riferisce più ad una certa forma di governo storicamente nata nella Atene del V secolo a.C., sviluppatasi secondo diverse forme nell'Occidente europeo e quindi anche negli Stati Uniti d'America. Tutti questi aggettivi tendono a staccarsi dai loro significati storici precisi e ad assumere un valore morale universale, con un impatto retorico immediato: richiedono, cioè, immediatamente il nostro assenso, hanno una carica emotiva e vengono così a designare i valori comuni, quelli che i neo-pragmatisti contemporanei chiamano le "nuove virtù socratiche" dell'Umanesimo democratico, post-filosofico e post-religioso.

Su un punto, però, Dewey aveva le idee chiare, più di molti suoi seguaci contemporanei americani: ammetteva, cioè, che una simile posizione implica inevitabilmente una certa visione dell'uomo, una certa, seppur elastica, "descrizione dei tratti generici dell'esistenza", come egli definisce quella che un tempo si chiamava metafisica.

 

L'uomo non è uno spettatore disinteressato: il mito della scienza

Per comprendere la posizione di Dewey, bisogna partire da quello che è l'asse portante del suo pensiero: la concezione dell'esperienza e dei suoi rapporti con la natura. A questo proposito si deve riconoscere che la riflessione di Dewey parte da un'istanza vera, giusta, quella di recuperare una definizione dell'esperienza più adeguata rispetto alle concezioni riduttive del soggettivismo e dell'empirismo sensista, che hanno dominato la cultura moderna e che, secondo lui, sono all'origine di tutti i dualismi irriconciliabili — mente/corpo, spirito/materia, io/mondo, pensiero/azione, visione scientifica della realtà/valori morali e religiosi... — attorno ai quali si è vanamente affaticato il pensiero filosofico. L'esperienza invece, secondo Dewey, comprende a pieno titolo un elemento affettivo, impulsi, desideri, interessi, azioni, per cui si può dire che il primo impatto con la realtà avviene ad un livello pre-conoscitivo, vitale. Perciò, l'uomo non può essere considerato uno spettatore disinteressato della realtà, o, in termini più filosofici, l'esperienza non può essere ridotta al puro momento conoscitivo della coscienza.

Questa è senz'altro una posizione, oltre che in partenza espressiva di un'istanza vera, molto affascinante, e questo fascino spiega in gran parte l'interesse da parte di un certo pensiero cattolico nei confronti di Dewey. Tuttavia, al di là del fascino, bisogna anche riconoscere il limite della posizione di Dewey, che è l'irrealismo, l'incapacità a mantenere un'osservazione intera, continua, appassionata del fatto reale — che è l'esperienza —, e la tendenza invece a sovrapporrvi uno schema che, nel caso di Dewey, è lo schema dell'organicismo biologico. La parola chiave di questa operazione è "transazione" o "interazione". Quando si tratta di definire quella realtà ricca, complessa, vitale, che è l'esperienza, Dewey sostiene che essa è costituita da una serie di interazioni organiche, di transazioni che sussistono fra un essere umano e il suo ambiente. Ha un lato attivo, che è un fare, un provare qualcosa, e un lato passivo, che è un subire: fare e subire, manca completamente l'idea del comprendere il senso dell'esperienza, manca totalmente l'idea di un criterio originale in base al quale l'esperienza venga giudicata. Anzi, un criterio esiste: sono le conseguenze; pragmaticamente, il significato dell'esperienza si identifica con le conseguenze verificabili di una certa azione.

Dewey dice infatti: "Il significato di ogni esperienza è costituito dalle conseguenze verificabili delle azioni che si compiono". La parola "conseguenza" — tipica di tutto il pragmatismo — in questo contesto è la versione indebolita e rarefatta di un termine che esistenzialmente è più pregnante, cioè "corrispondenza". La verità e il significato di un'esperienza sta nella corrispondenza che quest'esperienza ha rispetto a certe esigenze fondamentali. Il termine "corrispondenza" implica e indica il riferimento a un criterio oggettivo, a una esigenza oggettiva, ultimamente non misurabile, non manipolabile, mentre la parola "conseguenza" esprime tale riferimento in maniera molto più labile e soggettiva. Le conseguenze sono per loro natura esiti di un'azione, e quindi sono misurabili, manipolabili e immediatamente verificabili. Su questo Dewey non ha nessuna esitazione: le conseguenze che a lui interessano sono quelle che indicano un'efficacia vitale, quelle che indicano un miglior adattamento all'ambiente.

Questa idea di esperienza si fonda su due premesse: una metodologica, conoscitiva, che è l'identificazione nella scienza dell'unico tipo di sapere valido, e l'altra "metafisica": il naturalismo.

Come molti della sua generazione, Dewey nutriva una sorta di reverenza nei confronti del sapere scientifico; è compito della scienza dirci la verità sul mondo; la scienza è "la realizzazione delle implicazioni logiche di ogni conoscenza". Anche quando è disposto ad ammettere che la scienza non sia l'unica forma di approccio alla realtà, egli insiste però che ogni sapere debba assumere l'atteggiamento tipico, che egli chiama "empirismo sperimentale" (per distinguerlo dall'empirismo classico): nel suo ambito, la realtà non è mai un oggetto da accogliere, constatare, contemplare con meraviglia, ma un problema da risolvere, un dato da reinterpretare. Si capisce allora il senso del pragmatismo strumentalista — la definizione che Dewey preferiva per la sua posizione —: le idee sono strumenti, "piani d'azione", e il pensiero non altro che "un processo continuo di riorganizzazione" del mondo.

La natura cessa di essere qualcosa che si deve accettare, cui ci si deve sottomettere, qualcosa da subire o da godere: è invece qualcosa che si deve modificare e intenzionalmente controllare. Non è il cosmo degli antichi, ma un materiale plastico sul quale agire e da trasformare in un nuovo oggetto che risponda meglio ai nostri bisogni. I nostri bisogni sono totalmente soggettivi, possono essere — per fare un esempio attuale — quelli di manipolare geneticamente il grano per poter meglio sfamare le popolazioni del terzo mondo, oppure quelle di manipolare geneticamente il concepimento per permettere a una donna di 65 anni di avere un figlio. La realtà che emerge nell'esperienza non è il dato in senso classico, cioè qualcosa che innanzitutto c'è, indipendentemente da me, ma il dato in senso scientifico, un elemento in sé neutrale, intercambiabile che deve essere interpretato per poter impostare in maniera corretta un problema e risolverlo.

Il pensiero, l'intelligenza, la ragione, sono forme altamente specializzate di quell'istinto di sopravvivenza attraverso l'adattamento all'ambiente, che costituisce la molla dell'evoluzione naturale. In questo senso, secondo Dewey è senz'altro meglio abolire il termine "ragione", troppo legato all'idea di un ordine immutabile del reale e alla ricerca di un significato stabile, certo, e sostituirlo con il termine "intelligenza", che significa ricerca della sicurezza anziché della certezza, attraverso il controllo del corso mutevole degli eventi, l'organizzazione dei mezzi e degli effetti per costringere la realtà a mantenere, in qualche modo, "le sue premesse precarie di bene".

 

Esperienza e natura: il mito della complessità

Questa "naturalizzazione" dell'intelligenza che Dewey propugna come l'esito di una nuova e definitiva "rivoluzione copernicana", poggia evidentemente su una visione antropologica ben definita: Dewey è l'interprete più radicale e coerente del naturalismo moderno. Non solo l'intelligenza è parte della natura, "la natura che realizza le proprie potenzialità", ma tutto l'uomo, tutta la sua esperienza e cultura, sono in totale continuità con la natura e si esauriscono completamente in essa. Non ci sono salti, differenze ontologiche, ma solo forme di organizzazione sempre più complesse man mano che le funzioni di complicano in risposta a specifiche condizioni ambientali. "La distinzione tra fisico, psico-fisico e mentale è così una distinzione di gradi diversi di complessità crescente e di mutua azione reciproca tra gli eventi"; perciò si può dire che "alcuni corpi hanno anime in modo eminente, come altre hanno fragranza, colore e solidità".

Tutta la differenza tra il materialismo classico e il naturalismo dinamico — come gli studiosi chiamano la posizione di Dewey — è racchiusa nel termine "complessità", una specie di traduzione laica e immanentistica del termine Mistero, l'appiattimento della profondità del mistero in una sola dimensione, quella temporale dell'evoluzione.

Mentre il materialismo classico tende a ridurre tutta la realtà ad un solo tipo di interazione che è quella fisico chimica, per Dewey esistono diversi tipi di transazione naturale con qualità e comportamenti caratteristici del loro livello di organizzazione. L'intelligenza è il comportamento tipico del nostro livello di organizzazione umana, e non c'è nessuna necessità di introdurre un fattore non naturale, un fattore eccedente per spiegare questi livelli di complessità, e per render conto della diversità caratteristica dell'umano. La natura come luogo di rapporti obiettivi entro i quali si sviluppa l'esperienza, non richiama la coscienza umana all'affermazione — o almeno alla ricerca — di un significato unitario. Questo significato unitario è la natura stessa.

Il termine complessità costituisce appunto il perno sulla quale si snoda questa operazione di riduzione immanentistica. La natura non rimanda a nulla, non sottende nulla oltre a sé: è' un processo continuo e autosufficiente di attività che si autodifferenziano e si specializzano mediante l'evoluzione; un processo aperto, quindi, senza fine, senza destino. E anche senza cuore, perché se "l'abitazione dell'uomo è la natura... i suoi propositi e i suoi scopi dipendono dalle condizioni naturali... separati da queste condizioni, diventano sogni e vani abbandoni della fantasia". Bisogni e domande sono "naturali" nel senso che indicano uno squilibrio d'energie che deve essere ricomposto nella soddisfazione. Il desiderio non è altro che un impulso la cui immediata esecuzione in qualche modo è impedita e differita. Gli aspetti affettivi dell'esperienza, dalla semplice emozione fino all'intuizione estetica, hanno un'immediatezza assoluta, "consumatoria", sono "estasi mute", non indicano niente oltre a sé, non sono segni, perciò sono ultimamente "inutili... (anzi) quando vengono trattati come segni recano danno al pensiero".

Richard Rorty — un filosofo contemporaneo, anzi bisognerebbe dire un post-filosofo, perché secondo lui la filosofia è morta... e scrive dunque libri di post-filosofia — nella sua personalissima ma molto lucida interpretazione delle conseguenze del pragmatismo, osserva: "Ciò che lega Dewey e Foucault, James e Nietzsche è il senso che non c'è nulla nelle profondità di noi stessi (deep down inside us) se non ciò che noi stessi abbiamo messo; non c'è criterio che non abbiamo creato noi, istituendo delle pratiche; non c'è criterio di razionalità che non sia un appello a tale criterio (relativo); non c'è argomentazione rigorosa che non sia obbedienza alle nostre convenzioni. (Essi hanno contribuito a creare una cultura) in cui uomini e donne si sentono da soli, puramente finiti, senza alcuna legame con qualcosa di Oltre... hanno imparato a fare a meno di Dio".

Le conseguenze più clamorose di una simile concezione si verificano a livello della definizione dell'io. Paradossalmente, proprio quell'unità che Dewey voleva recuperare contro tutti i dualismi intellettualistici, finisce per dissolversi in un miraggio. L'io si consuma completamente in un'attività che non ha un fine ma solo un termine naturale; non ha un destino ma solo progetti, scopi limitati (ends in view). L'unità di quest'io naturalisticamente ridotto è il mito di un passato naturale o l'utopia di un futuro perfettamente integrato: nel presente l'unica unità possibile è quella funzionale dell'intelligenza che controlla l'impulso — questo è il significato della libertà: autocontrollo —, della mano che tiene saldamente in pugno l'aquilone del desiderio che vibra in cielo finché una forza estranea glielo consente. L'io non è un dato originario, deriva dalle interazioni naturali, la sua coscienza nasce dalla pressione sociale che "penetra tutta la nostra vita come l'aria che respiriamo". Ma se l'individuo esiste "sia mentalmente che fisicamente" solo in relazione al suo ambiente, è inevitabile che egli non possa riconoscere per morale se non ciò che è imposto dalla pressione sociale, dalla "urgenza delle richieste altrui; dalla efficacia delle altrui esigenze".

 

Democrazia e educazione: il mito dell'organizzazione

In questa prospettiva si comprende pienamente il senso di questa definizione deweyana: "L'educazione è la ritessitura costante del tessuto sociale", e anche di una delle tesi centrali del suo pensiero: l'identità perfetta di educazione progressista e processo democratico; entrambi si fondano su un topos classico dell'utopia moderna, l'organizzazione. Educazione e democrazia rappresentano il vertice e il centro della filosofia di Dewey, anzi, a suo avviso, della filosofia in quanto tale. La democrazia è la forma di vita che nella sua partecipatività, mobilità, plasticità e dinamismo, riflette a livello sociopolitico le caratteristiche del metodo sperimentale: come quest'ultimo tollera una certa pluralità di opinioni di partenza, purché queste convergano nel consenso su una serie di valori comuni; la comunità democratica come la comunità scientifica è il luogo dei valori condivisi. Nella loro struttura, poi, processo democratico e metodo sperimentale riflettono la natura del processo evolutivo, in cui la variazione individuale è tollerata, anzi è funzionale al meccanismo della selezione. L'educazione progressista è lo strumento principale di quella continua ricostruzione e riorganizzazione dell'esperienza che è l'ideale della società democratica. Il suo obiettivo è lo sviluppo dell'intelligenza come "efficienza sociale", come capacità di controllo e autocontrollo e capacità critica, cioè come libertà dell'intelligenza, "l'unica che abbia un'importanza durevole". In questa prospettiva risulta anche evidente la ragione del rifiuto dell'autorità, del passato.

Poiché l'individuo umano non è propriamente un io nel senso classico del termine, non è un dato originario, non è libero nel senso di capace del suo destino; poiché ciò che unisce gli individui non è altro che il sostrato naturale, l'ambiente con cui interagiscono e, dall'altro capo del processo evolutivo, il complesso dei valori comuni, come estrema forma di organizzazione dell'esperienza, evidentemente il contesto educativo e sociale di un tale individuo non può essere un altro io: un tu, un'autorità, una tradizione, un popolo. Il contesto educativo e sociale di un individuo non è mai ultimamente una compagnia umana, ma un ambiente organizzato, di qualsiasi tipo, dalla scuola alla fabbrica, dall'associazione religiosa al club delle vacanze: questa è certamente l'idea deweyana che più capillarmente ha permeato la cultura contemporanea.

 

Anche i laici hanno una fede: il mito del progresso

L'epoca in cui Dewey è vissuto non giustificava in alcun modo il suo ottimismo progressista. Eppure, dopo aver identificato la religione con un atteggiamento del tutto soggettivo e, in fondo, poco importante, egli non esita a professare quella che definisce "pietà naturale" e a barattare la certezza, "perversione compensatoria", con una fiducia nel progresso dichiaratamente immotivata e storicamente poco plausibile. "Quando abbiamo usato il nostro pensiero al massimo e abbiamo gettato sulla mobile e non ben equilibrata bilancia delle cose la nostra debole forza, sappiamo che, se anche l'universo ci distrugge, possiamo aver fiducia, perché il nostro desiderio fa tutt'uno con quello che c'è di buono nell'esistenza... Chiedere di più di questo è puerile, chiedere meno è una viltà".

Il male non è una possibilità inerente ad ogni azione o situazione umana, limite paradossale e misterioso, inevitabile e frutto della libertà, ma è caos incontrollato, assenza di organizzazione e di metodo. Certo, Dewey riconosce che anche il progresso scientifico nelle sue applicazioni tecniche e industriali non ha dato subito gli effetti sperati: è diventato strumento di nuovo potere e di più crudeli forme di oppressione, ha prodotto il capitalismo, anziché un "umanesimo sociale".

Tuttavia, a questo e ad altri "problemi imbarazzanti", come la pazzia, la povertà, la malattia, è l'intelligenza come metodo dell'organizzazione sociale che può dare una risposta. "Poiché l'intelligenza è il metodo critico... per costruire beni più liberi e sicuri... essa è l'oggetto ragionevole della nostra fede più profonda... il fondamento e la base di tutte le nostre ragionevoli speranze. Fare questa affermazione non significa indulgere ad una idealizzazione romantica. Non significa asserire che l'intelligenza dominerà il corso degli eventi e che ci salverà dalla rovina e dalla distruzione. Si tratta di una scelta e la scelta è sempre una questione di alternative... La fede in un trionfo totale è pura fantasia. Ma un procedimento deve pur essere tentato, giacché la vita stessa è un seguito di prove".