Giovedì, 29 agosto, ore 15

PELLEGRINAGGIO ALLA RICERCA DEL SENSO

partecipano:

Renzo Casali,

Mirella Bocchini,

Bernardo Cervellera.

Per la seconda volta, gli amici della Comuna Baires partecipano al Meeting e il titolo dell'incontro ne spiega la ragione. Molto più che una tavola rotonda, vuole essere l'incontro tra chi, con sincerità, cerca di andare al fondo della propria umanità, alla ricerca di quel comune denominatore che è la verità dell'uomo. Come in questo caso, può succedere che la stessa ricerca conduca ad amici comuni: allora vi si aggiunge la gratitudine per la strada che insieme si va percorrendo e sperimentando. Questo è il senso della testimonianza che Renzo Casali rende al Meeting, a nome suo personale e del gruppo teatrale, insieme a Mirella Bocchini e Padre Cervellera che, certamente non a caso, sono stati tra i primi ad incontrarli sulla strada che porta alla fede.

R. Casali:

... Noi proveniamo da un'area culturale laica e di sinistra, nella quale abbiamo vissuto per tutti questi lunghissimi anni e dove abbiamo trovato dei maestri che non rinneghiamo: fra questi c'è il vecchio Geddes, un antropologo irlandese che, mandato dall'impero britannico in India in principio di secolo per costruire le case a favore dell'impero inglese, rimase catturato dalla cultura orientale perché scoprì allora la coerenza che c'era tra il ragionare e il sentire. Questa coerenza ha fatto di Geddes uno dei miei maestri, e a questo proposito vorrei leggervi una favola: "All'ombra di una vecchia quercia al fine di un giorno di mezza estate, il giovane Geddes cercava di scolpire nella sua memoria la soave saggezza del maestro. Ruskin, il suo maestro, un altro antropologo. Diceva Ruskin: "Non si educa un uomo dicendogli ciò che non sa ma facendolo divenire ciò che non è". Il giovane Geddes alzò gli occhi verso il sole, che era una forma tutta sua di guardarsi dentro, e decise di inventarsi il coraggio di completare il pensiero del vecchio maestro"... Tutto è già stato fatto, ed è per questo che siamo qui. Che tutto è già stato fatto, lo scoprimmo un giorno, e ce ne siamo semplicemente dimenticati. Noi resistiamo, ci ribelliamo all'idea della felicità. Forse abbiamo paura di ciò che sentiamo, e quindi rifiutiamo di essere ciò che intuiamo che dovremmo essere. Ci rifiutiamo di agire l'intuizione, consapevoli che la nostra pubblica immagine potrebbe frantumarsi: sapete, confessare ciò che uno sente, a volte significa perdere i vecchi amici, frantumare questa immagine pubblica che uno ha dato e venduto per tantissimi anni. Resistiamo quindi a credere che in noi, nella nostra cultura, che io chiamo la vecchia cultura, vige il potere dell'opinione altrui, che condiziona i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, la nostra stessa identità. Come giustamente diceva S. Tommaso, l'opinione è l'atto dell'intelletto che si porta su una parte della contraddizione con la paura dell'altra... L'opinione altrui fa dell'uomo un individuo infelice e scisso, povero di personalità e di principi, cioè un pezzetto di legno in balia delle onde del mare, dei capricci dei venti, del succedersi delle stagioni. Dipendendo dall'opinione altrui, noi rinunciamo alla libertà, ci impediamo di conoscere la verità, scegliamo il contorto cammino dell'infelicità. Nella dipendenza dalle opinioni altrui, noi rifiutiamo un rapporto vero con un altro essere umano, scegliamo di privilegiare la bestia che è in noi, la rincorsa all'avere, il tradimento dell'essere, l'efficienza senza una dimensione umana. Dipendendo dalle opinioni altrui, noi transitiamo il cammino della vita senza un ideale, qualsiasi esso sia, come se non esistesse niente al mondo più grande di me, niente per cui valga realmente la pena di vivere e lottare, amare, costruire, comprendere e solidarizzare: come se l'altro uomo realmente non ci fosse, senza neanche capire che l'altro uomo sono anche io. E’ così che scivoliamo sulla vita, sulla superficie del significato, sulla pelle degli altri esseri umani, estranei a una partecipazione reale e drammatica al teatro della vita. Ma senza la presenza dell'altro non c'è dramma, non c'è teatro, non c'è la possibilità del gesto. Dice un tizio che conosciamo molto bene, Giussani, che siamo chiamati a guardare tutte le cose con una presenza dentro lo sguardo: parole terribili, queste, poiché, avendo dentro l'occhio questa presenza, non mi si riduce il campo visivo, che ha come oggetto l'altro, ma si attua un diverso ed esauriente modo di vedere tutto l'altro. Senza questa presenza cos'è l'uomo? E cieco, sordo, insensibile, effimero. Togliere la vista, l'udito, la sensibilità, significa trasformare l'uomo in un minerale, un essere senza dolore e senza gioia, un individuo senza senso...Tutto questo era già stato detto, ma noi non avevamo voluto ascoltarlo, non avevamo potuto o non c'eravamo ancora incontrati con quel gesto più grande di noi capace di scuotere le pietre, resuscitare i deserti, ricondurre gli uomini alla sorgente originaria. Ecco, in questa nostra lunga, affascinante, agrodolce avventura con il teatro, abbiamo sempre e comunque rincorso il senso di ciò che facevamo insieme, di ciò che eravamo, di ciò che volevamo divenire. Abbiamo sempre e comunque praticato il teatro come un vero apostolato di verità...Credevamo sufficiente la coerenza etica di come e con quali gesti il cammino veniva da noi percorso. L'incontro con Giussani ha fatto scattare la scintilla mancante, l'anello perduto del senso. Così la particella di vuoto che era in noi veniva colmata, nasceva per la prima volta, in questi anni di vita, il sentimento nuovo della pienezza. Abbiamo sempre affermato, come singole persone e come gruppo, che il teatro per noi è la fabbrica dei rapporti. Ma l'incontro con Giussani ci ha aperto le porte a un rapporto con il vero. Non basta creare rapporti, l'essenziale sta nel creare rapporti veri: questa è stata per noi una scoperta. E fu allora che iniziammo questo pellegrinaggio alla ricerca del senso, con la coscienza che l'incontro con un rapporto vero determina inevitabilmente l'incontro con il vero. Nel mio caso personale questo rapporto vero e questo incontro si chiama Giussani: faccia a faccia, intuisci un altro volto, l'eternità ci viene offerta dall'infinito sentimento di pienezza...Questo significa scoprire che il vero spessore di una esistenza piena, lo si può trovare nel costante interscambio tra gli opposti: interno, esterno, idea, azione, immagine, essenza, mente, corpo, cioè nella coerenza quotidiana. Come se dicessimo semplicemente "tornare a casa" mentre si sta andando all'incontro col mondo, oppure volgersi un attimo mentre si cammina verso...Scoprimmo anche che l'incontro con ciò che chiamo "qualcosa più grande di me" e di tutti noi messi insieme, avviene tramite l'incontro col volto e col corpo di un altro essere umano, che ci permette di intuire il corpo e il volto di un altro ancora, cioè l'Altro. Nel teatro, noi abbiamo seguito Artaud, un teorico francese, uno studioso del teatro, un cristo del teatro, più semplicemente un uomo di teatro, come chi segue il proprio maestro di vita. Grazie ad Artaud, abbiamo intuito la crisi di questa nostra civiltà, abbiamo vissuto sulla nostra pelle le contraddizioni, le privazioni, le ingiustizie e anche i peccati. Abbiamo abitato la solitudine di chi cerca di vivere con dignità i propri sogni, i propri principi etici, morali e artistici. Ne abbiamo pagato il prezzo. Diceva Artaud: "Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura quando è la vita stessa che ci sfugge. E c'è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura, che non ha mai coinciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura - continua - voglio rilevare che il mondo ha fame e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame. La cosa più urgente non mi sembra, dunque, difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall'ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame. Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere - ciò che proviene dal fondo misterioso di noi stessi non deve continuamente riversarsi su di noi in un travaglio volgarmente digestivo. Voglio dire che se è essenziale per. noi tutti mangiare subito, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell'unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice atto di avere fame. Se il segno dei tempi è la confusione, vedo alla base di tale confusione una frattura fra le cose, e le parole, le idee, i segni che le rappresentano". Queste parole oggi, qui, acquistano un'altra dimensione. Se da un lato ci danno ragione sul cammino seguito fino ad oggi, dall'altro ci proiettano con determinazione nella ricerca di quel senso di cui stiamo parlando: che ci è stato donato gratuitamente, come gratuito è il gesto d'amore. Nessuno di noi può scappare così facilmente. Noi siamo i figli diretti di questa vecchia cultura, che è la cultura della malattia, siamo figli e vittime di una cultura morta, o, se volete, figli e vittime della cultura della morte, le cui radici non si perdono nel tempo, ma sono lì a portata di memoria, di coscienza, di storia, di vissuto personale e soprattutto di onestà intellettuale per chi le vuole cogliere, accettare e comunicare. Queste radici appartengono a quella singolare follia positivista che ci ha fatto meschini, indegni, disumani e soprattutto menefreghisti. All'ombra di tanta follia si nascondono i fantasmi di Cartesio e di Calvino, tra tanti altri fattori di questa umana meschinità, falsi padri li chiamo io, falsi profeti. Ascoltate questo piccolissimo brano di follia, di squisita follia, sono parole di Cartesio: "L’uomo è malato e la cura della vera malattia dell'uomo deve partire dal dominio razionale delle passioni, una sorta di medicina morale per mettere freno e fine ai vizi distruttivi dell'emotività, dell'affetto e delle debolezze del cuore". Dette brutalmente, "senza ombra di dubbio", malgrado la teorizzazione del dubbio, quale presupposto di conoscenza, di scienza, e di ininterrotto processo umano, costituivano la guida teorica e pratica per il raggiungimento di una nuova civiltà dell'uomo. Questa che noi oggi viviamo, subiamo, nella quale nuotiamo come pesci impazziti. Una civiltà senza foreste, senza le vecchie querce come Geddes, senza sogno e soprattutto senza padri; una civiltà di orfani, una civiltà di cemento armato che si alza però su fondamenta di cristallo. Con Cartesio nasceva la piattaforma programmatica della follia, il "cogito ergo sum" che ancora oggi ci trasciniamo appresso, come un invisibile virus, come la peste di una attività auto-distruttiva. Questo virus l'abbiamo nella architettura stessa del nostro pensiero, nelle nostre scelte quotidiane, anche in quelle più infime e modeste, nei modelli dei rapporti sociali e interpersonali tra padre e figlio, tra donna e uomo, tra vecchio e giovane, tra sano e malato, l'abbiamo anche e soprattutto nel linguaggio quotidiano, che chiamiamo relativistico: relativismo proiettato quasi a categoria filosofica, come dire che il dubbio è, paradossalmente, il dogma dell'insicura sicurezza … Continuamente ci ripetiamo, con una balbuzie ossessiva, che siamo effimeri, casuali, transitori, mortali, insignificanti, che niente possiamo aggregare o togliere alla storia dell'uomo e a quella del mondo. Con Cartesio e Calvino muore la domanda, e al suo posto viene eretto il tempio della risposta: oggi abbiamo a disposizione risposte per qualunque cosa; ma non abbiamo una sola domanda che ci faccia ricordare che siamo uomini vivi … Questa vecchia cultura merita un bel funerale ed è compito della cultura stessa. Non farlo significa continuare a morire, posticiparlo implica che al posto della vita ci sarà il sentimento della sopravvivenza, che è quello che ci attanaglia tutti. Ed è per questo funerale mancato, per questa vecchia cultura ormai morta, che l'uomo di oggi continua a scivolare sui propri sentimenti, continua a rimuovere le proprie intuizioni, rifiuta il cammino del senso; cioè transita come un treno espresso l'arco della propria vita senza abitarne né lo spessore, né la dimensione, né l'essenzialità del gesto comune, quello che ci accomuna' tutti in un comune destino. Siamo figli quindi di una falsa luce e il nostro più grande desiderio è quello di essere definitivamente meschini, soggetti desideranti, pragmatici, interessati. Ci interessa il "rapporto" con un altro uomo se quel rapporto frutta qualcosa, se equivale ad un investimento. Ma come comunicare che un rapporto vero è sempre un gesto gratuito, un gesto d'amore? Se vogliamo cominciare a vivere, dobbiamo uscire da questa cultura della morte, ma per uscire vivi da questa cultura della malattia è necessario morire prima, perché solo morendo è possibile rinascere a una nuova vita. Ciò spezza, fa male, crea dolore, frantuma immagini e ricordi, rompe antichi rapporti, ci fa sprofondare nelle tenebre e nella solitudine, in qualche maniera ci fa ripercorrere una Via Crucis. La mia personale Via Crucis è durata nove, lunghissimi mesi, durante i quali ero convinto cioè vinto, di essere morto, vegetale e pietra allo stesso tempo, senza più un passato a cui aggrapparmi, senza più un vecchio amico, senza la speranza di un futuro, senza uno specchio dove guardarmi in faccia. Per questo parlo di dolore prima della gioia, di morte prima della rinascita, perché la vera compagnia non la si può liberamente scegliere, siamo sempre scelti...Accorgersi che solo un rapporto vero ci può qualificare come esseri umani è il primo obiettivo della coscienza e non c'è cura graduale alla follia cartesiana, non esiste una terapia logica: l'unica salvezza possibile sta nel cambiare cultura subito, in un solo gesto, come chi cambia spinotto. Didì e Gogò sono due personaggi di un famoso spettacolo chiamato Aspettando Godot e sono vivi dal 1949: due personaggi che tutte le mattine tornano in una piazza vuota aspettando Godot, che non sanno chi è, se arriverà, né da dove, né come, né perché...Questi due pagliacci sono un simbolo della nostra epoca: sono europei. Assieme alla crescita economica dell'Europa, si sono ingigantiti i tessuti adiposi di tutti gli spettatori di questo mondo e anche degli attori...Didì e Gogò, questi due pagliacci della vita, erano mossi da un credere, per questo ritornavano sul posto in attesa del miracolo. Mentre loro arrivavano tutte le mattine, lo spettatore si svuotava lentamente, e di qualsiasi credere e di qualsiasi domanda: il raccordo fra Didì e Gogò, fra Godot e lo spettatore, si faceva impossibile. Tra Didì e Gogò cresceva il vuoto seminato dallo scetticismo generalizzato. Ma la resistenza al credere non favorisce la crescita della persona, anzi superficializza qualsiasi nostro gesto...Sono passati tanti anni, l'Europa, il pianeta intero si è scosso, ma è come se non fosse cambiato assolutamente niente; il Frankestein, nato dal relativismo cartesiano e dal moralismo individualistico di Calvino, continua ad essere il cieco irresponsabile bamboccio del gioco o massacro. Ci divertiamo ad invecchiare, tutto lì, a morire forse, illudendoci con l'inevitabilità di un non senso che crediamo ormai irreversibile e generalizzato...Per noi, ieri Giussani lo diceva, per noi che veniamo dal teatro, forse il cammino verso Cristo è più facile, visto che viviamo una vita concepita drammaticamente; e infatti a noi non basta credere. "Credere a che cosa', ci domandiamo. "A noi stessi"... Il dramma di questo tempo è impostato sul non credere più a niente, non esiste la memoria, né come esperienza storica dell'uomo, né come vissuto personale; l'antropologia del credere presuppone un appartenere a qualcosa di più grande di noi. Credere significa, quindi, appartenere e l'appartenenza non si coniuga con il dubbio, bensì con la consapevolezza della necessità dell'altro da cui dipendo. Servire l'altro in compagnia di un altro simile, significava per noi il pellegrinaggio alla ricerca del senso; se c'è la consapevolezza dell'altro, allora non basta l'onestà umana, non basta l'onestà intellettuale, così come non basta l'onestà dell'attore. L'onestà può offrirci, al massimo, il traguardo del verosimile, ma non della verità; il verosimile, però, è un insulto alla condizione dell'uomo… Se uomini e donne come noi del nostro gruppo, provenienti dalle più svariate esperienze culturali, politiche e ideologiche, sono qui oggi, fra di noi e con noi, lo dobbiamo al nostro teatro della testimonianza, il quale concepisce l'uomo come mezzo e fine allo stesso tempo, lo spazio drammatico come luogo della coscienza, della conoscenza, della testimonianza e dell'incontro con gli altri esseri umani. Concepire il ruolo dell'attore come un apostolato di verità significa già una prima conversione in direzione dell'altro. Il teatro nella sua finzione si dispiega sempre in un rapporto di verità, perché la verità è un rapporto. In questo senso il teatro è anche lo strumento, il luogo della preparazione a quella appartenenza, lo spazio di rapporti gratuiti, di rapporti d'amore. Antropologia del senso significa quindi concepire il teatro dello spazio, dove giocare equivale a giocarsi, dove vivere significa viversi, abitare significa abitarsi...Ma il teatro ci insegna anche che è possibile abitare il tempo, abitare l'inverno così come abitiamo l'estate. Abitare le ore del maledetto orologio così come abitiamo l'eternità di un istante...Non so perché ho paura, mi dico, ma in realtà ho paura perché non conosco l'oggetto della mia paura, cerco un rifugio che sia il più lontano possibile dalla coscienza, perché conoscere l'altro fa paura e fa paura perché conoscere l'altro mi fa dipendere per sempre dalla solidarietà. Accedere quindi alla conoscenza dell'altro vuol dire abbandonarsi all'intuizione, incontrarsi con lo sguardo posto sul rapporto tra me e l'altro, tra me e il pianeta, tra me e l'intero universo, tra ciò che si vede e ciò che non ci è dato di vedere, perché intuire è osservare dentro. Conoscere l'altro significa scoperchiare il baratro della paura, sondare il bunker delle false sicurezze e dei dubbi velenosi ... Queste sono alcune schegge del nostro pellegrinaggio, della nostra storia singola e di gruppo, particelle dolorose, sofferte, ma anche testimonianza di una forza immensa che si chiama speranza. La speranza per noi è il coraggio di dire si, la via d'uscita dall'angoscia. Antropologia del senso è cambiare cultura...L'impoverimento simbolico è segno di barbarie e in un certo senso questa cultura stravecchia ha raggiunto l'ultimo stadio della barbarie. Personalmente ho iniziato il cammino del teatro 27 anni fa in un altro continente, dove la fame acquisiva altri significati. Come gruppo, il percorso ebbe inizio 18 anni or sono. Abbiamo fatto un lunghissimo viaggio e oggi possiamo dire con tutta tranquillità di essere finalmente approdati all'inizio della giusta strada. Senza però rinnegare niente, perché tutto ciò che allora abbiamo immaginato, agito, pensato, ci ha permesso di camminare comunque in una giusta direzione, in compagnia dell'umano...Giussani ci ricorda ancora: "diventare sempre più veri significa cambiare la nostra falsa coscienza di essere padroni di noi stessi e arrivare alla consapevolezza di appartenere totalmente a un altro". Noi ci riconosciamo in queste parole come in uno specchio, perché ci dicono della dimensione drammatica della vita e dei rapporti col mondo e nel mondo...Siamo agli inizi di una conversione radicale nel pensiero, nello spirito, nella mente e nel corpo... Grazie all'incontro con Giussani e con le singole persone del movimento, stiamo uscendo da una dimensione tragica della vita per entrare finalmente in una dimensione drammatica del rapporto: ... ... come singole persone noi abbiamo scelto per anni di appartenere al teatro cioè a qualcosa di più grande di noi. Oggi, con milioni di persone diverse, in diversi momenti del processo di conversione, decidiamo di appartenere, con il teatro, a qualcosa di infinitamente più grande... Il nostro compito nell'appartenenza che oggi pubblicamente dichiariamo è quello di continuare a creare per poter vivere il presente di tutti i tempi. Dal porto dell'intuizione che ci ha portato fino a qui, l'uomo parte per l'avventura umana della creatività e si tratta di un porto antico, come antica è la presenza dell'uomo sul pianeta. La persona è il nocciolo della situazione drammatica, punto di partenza di questo viaggio alla ricerca del senso e punto di arrivo...

M. Bocchini:

Ho dato un sottotitolo al mio intervento: "1ettura di un incontro" Gli eventi che non vengono letti rimangono effimera casualità, destinata a suscitare un attimo di meraviglia distratta, ma non trasformano i cuori. La storia vera nasce dalla tensione della coscienza: per questo cerco di riandare a quanto ho reimparato nell'incontro con la Comuna. Appartengo a CL, la mia conversione avvenne nel '58 dopo alcuni anni, pochi ma intellettualmente molto deliberati, di adesione alle posizioni laiche, con le quali mi identificavo per tradizione, gusto e scelta. L'incontro e la resa alla ragionevolezza totale di Cristo, era venuta, per me come per Renzo, attraverso la persona di Don Giussani, mio professore al liceo "Berchet"...Come ho conosciuto la Comuna Baires? Parecchi anni fa, era un primo maggio, a Milano si svolgeva la consueta grande manifestazione dei lavoratori a cui anche noi di CL e di MP stavamo partecipando. In mezzo alla gran folla, tanti militanti di varie organizzazioni, come al solito, distribuivano giornali e volantini. Un giovanotto riccioluto, tutto nero e arruffato, vendeva anche lui il suo giornale, ma in un modo stranissimo, così diverso dal modo un po’ torvo e militaresco della solita gente di sinistra che mi sono messa ad osservarlo. Era pieno di letizia, si fermava a parlare con le persone, spiegava il suo giornale con convinzione e candore, così come noi vendiamo 'Il Sabato" o come dovremmo venderlo. Ho visto che anche i suoi compagni facevano come lui. Il giornale era 'La tribù", cioè quello della Comuna Baires, che io conoscevo solo vagamente di fama. Mi accostai a quel giovanotto e gli feci delle domande...L'anno dopo, altro primo maggio, altra manifestazione, e in mezzo a milioni di persone che sfilavano, lo reincontro. Terzo primo maggio, l'ultimo a cui abbiamo partecipato, perché ci hanno bastonato e aggredito quelli del PDUP e di DP. Reincontro lo stesso Jorge e a quel punto gli dico: "Ma che senso ha che ogni anno ci vediamo, ci sentiamo umani, e poi finisce lì? Vieni a casa mia a parlare. Ti avverto che sono di CL." Jorge non esitò neanche un istante, e così siamo diventati amici. Cominciai a frequentare la Comuna, gli spettacoli e i dibattiti. Cercavo di guardare e capire il loro teatro con la massima serietà. Li ascoltavo parlare con sommessa fierezza della loro ipotesi culturale, della loro vita, di ciò che costruivano insieme. Ero mossa da un grande desiderio di capire. Dall'interesse, passai quasi subito ad un fortissimo stupore, perché era evidente nei membri del gruppo una donazione, così totale da parere incredibile, della loro vita: corpi e menti all'ideale...Mi stupivano anche tanti giudizi culturali coincidenti singolarmente con la nostra esperienza...In particolare fui come richiamata dalla recitazione di Renzo, dalla grande originalità e forza delle sue interpretazioni ... : un maestro nel deserto devastato nel fetore di cadaveri della cultura italiana, quell'orrore e quel fetore che avevano straziato gli ultimi anni di Pasolini...Seppi che aveva conosciuto Don Giussani e che era avvenuto qualcosa di serio, ma non sapevo che cosa. Un giorno, durante uno spettacolo, provai una percezione acutissima di urgenza, di necessità e di fretta: la coscienza improvvisa che l'esperienza della Comuna e di Renzo erano arrivate al loro momento più alto e insieme al limite. C'era ormai un bivio dinnanzi a loro: il confronto diretto con Cristo oppure il vuoto, la follia dell'assenza di ogni parola. Perciò mi sono decisa. La volta successiva era un giorno di novembre dell'84: dopo uno spettacolo, mi piazzai nel punto dal quale uscivano gli attori e fermai Renzo prima che lo circondassero i suoi amici e discepoli. La conversazione si svolse così, parola per parola: "Renzo, devo farti una domanda: che cosa è più urgente per te in assoluto oggi" Era un po’ perplesso: "Vuoi dire oggi o in questo momento dell'esistenza?". Ho insistito: "Adesso, in questo preciso istante", e lui: "Intendi dire cosa è più importante per lo spettacolo o per la vita in generale" Fu il mio turno di essere un po’ stupita: "Ma scusa, se ho ben capito non è la stessa cosa per voi? "Allora Renzo mi guardò bene in faccia: "Hai ragione, hai capito giusto. La cosa più urgente di tutte per me è trovare Dio". Disse proprio "trovare", non qualcosa come cercare, porsi il problema di... Allora fui certa che quello era l'inizio di un'affidarsi reciprocamente alla nostra esistenza. E gli ho risposto: "Se è questo che desideri, io posso accompagnarti, se vuoi". Una settimana dopo cominciavamo insieme la verifica del fatto cristiano e con noi Jorge e alcuni altri della Comuna Baires. Nei mesi successivi, avvenne la commozione della scoperta della ragionevolezza e dello splendore di Cristo... A Pasqua il cammino matura e balza in avanti con Don Giussani. Ho dovuto ripercorrere questi fatti, perché sono racchiusi in essi molte schegge di verità...Le circostanze sono sul serio l'occasione della grazia; questo sgranarsi dell'infinito nell'istante è ciò che Manzoni chiama la Provvidenza...Quando l'incontro è con persone che attendono e che ricercano, la responsabilità è ancora più grande, non può occupare tutto lo spazio del cuore. E con stupore e trepidazione, con quel timore e tremore di cui parlava Giussani, il settimo dono dello Spirito Santo, che sono chiamata ad accostare questo Altro che sto cercando. La condizione perché l'incontro avvenga è un affidarsi totale ...Si è chiamati a rischiare alla lettera tutto di sé: cuore, intelligenza, tempo, lavoro, anzi, basta dire il cuore...Renzo, i suoi fratelli e io, i miei fratelli, stiamo imparando un'obbedienza sempre più radicale l'uno all'altro, in tutto ciò che è buono. Così, noi stiamo diventando reciprocamente autorevoli per la nostra vita e ci obbediamo...Infine ho riscoperto la stupenda magnanimità e saggezza del metodo conoscitivo cristiano: vagliate e setacciate tutto, dice S. Paolo, e trattenete il valore, ciò che è buono.... Ricordiamo il discorso dell'Aeropago fatto da S. Paolo agli ateniesi, tutto calato nella cultura pagana e razionalistica dell'ellenismo. Da questa adesione, più profonda di quella dei suoi stessi ascoltatori, alla loro tradizione, S. Paolo può lanciare la sfida della novità cristiana: il Dio Ignoto che attendevate, di cui parlano i vostri poeti e filosofi, proprio lui è venuto, è morto e risorto. Annuncio che drammaticamente coglie la nostalgia intrisa alla ragione greca e insieme la sconvolge. E’ proprio lo sforzo di ascoltare con tutta l'anima, con tutta la mente, come se l'uomo innanzi a me fosse il primo e l'ultimo al mondo che individua con esattezza il vero...

Padre B. Cervelliera:

... La mia storia di missionario e il mio incontro con la Comuna Baires nascono nell'Università Cattolica, negli anni 70. Possiamo dire che ci sono delle analogie tra la mia vocazione e la loro. Loro parlano del teatro come apostolato e anche io parlo della mia vita come un essere apostolo. Questo apostolato, per loro e per me, coincide con il giocare tutto la propria vita per il senso che si è incontrato. Il mio incontro con la Comuna è avvenuto durante una rappresentazione teatrale che loro facevano sulla dittatura latino-americana: mi sono accorto che una ragazza, mentre recitava il dolore, si era messa a piangere. In quel momento ho capito che il suo recitare non era una maschera, ma era implicare tutta se stessa in quello che stava comunicando. Il teatro è una occasione propizia per domandarsi che ruolo si ha nella vita e per aderirvi... Molto meglio di me, von Balthasar, che è stato il grande ospite del Meeting dell'anno scorso, parla del teatro come di una preparazione all'Evangelo, cioè una preparazione alla rivelazione, una preparazione alla domanda vera sull'io, quindi una preparazione alla domanda vera su Dio. Questa ricerca, che è anche della Comuna Baires, li ha portati a superare qualunque posizione ideologica, maschera che velasse la verità:...quindi l'esperienza del teatro come inizio di un pellegrinaggio alla ricerca del senso. In tutti questi anni ho incontrato diverse persone che hanno cercato altri pellegrinaggi: negli anni '70, in India alla ricerca del Guru.... in Nicaragua dove stava nascendo l'esperienza nuova del sandinismo..., nella Cina di Mao... Il mio lavoro di missionario, nei confronti di queste persone deluse, stanche del borghesismo vuoto, dell'orientalismo esoterico, o dell'ideologia asfittica, la mia ricerca per offrire loro un senso, coincide con il lavoro di teatro della Comuna. In fondo, dalle più diverse costellazioni ideologiche e storiche, sono arrivate persone che hanno negli occhi lo stupore di Dio, del discepolo che vuole imparare, che vuole seguire. Oggi è iniziata veramente una nuova era: il pellegrinaggio alle radici del senso, all'incontro con Dio. In questo veramente il teatro diventa missione, apostolato. E’ molto buffo pensare a come S. Paolo parlava dell'apostolo, essere divenuto spettacolo non nel senso dell'applauso del mondo, ma nel senso del circo e del sangue del tempo, dell'antichità. Vivendo nella nostra redazione, a contatto con tutto il mondo missionario, possiamo dire che un altro dei segni dei tempi è quello di dare spettacolo, nel senso che la missione è vilipesa ovunque...Siamo divenuti spettacolo al mondo e agli uomini perché portiamo la domanda vera sull'uomo e la possibilità della risposta. Questa è un'altra cosa che ho imparato dalla Comuna Baires; l'essere missione abilita tutto il campo della mia espressività alla comunicazione. Attraverso il loro lavoro di teatro, ho imparato ad amare il mio lavoro di giornalista. Ci sono studiosi e anche grandi giornalisti, come Vittorio Messori, i quali dicono che non ci potrà mai essere un giornalismo cristiano perché la pretesa del giornalismo di incontrare la realtà e di giudicarla è illuministica. Ma l'incontro con la Comuna mi ha insegnato ad amare il mondo della comunicazione...L'esperienza teatrale vissuta come domanda sulla vita e come pellegrinaggio sul senso potrà ridare significato a tanta arte che adesso non ne ha, che è soltanto scetticismo o consumismo. Molto più profondamente, questa esperienza artistica della Comuna Baires e la nostra di comunità di amici che si incontrano attorno a Cristo dentro la Comuna Baires, può essere veramente il grembo da cui far rinascere tutta questa gioventù delusa da diversi pellegrinaggi, a Ovest o a Est, e che è rimasta però ferma. Ho letto l'augurio di Giussani: "Non state tranquilli": questo vuol dire cominciare il pellegrinaggio. Noi l'abbiamo cominciato.