Assemblea Nazionale della Compagnia delle Opere

Il Sud che funziona

 

 

Sabato 29, ore 11.30

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Relatori:

Angela Aglieri, della Parrocchia San Giovanni Galerno di Catania

Marcello Strommillo, Presidente del Centro di Solidarietà di Napoli

Sergio Monaco, de "L’Opera" di Foggia

Marco Vitale, di CONTSHIPITALIA

Roberto Napoletano, Responsabile Economia Italia de "Il Sole 24 ore"

Nicola Mancino, Presidente del Senato

Moderatore:

Giorgio Vittadini

 

Vittadini: Abbiamo pensato di affrontare, dopo tutto un Meeting dedicato a temi che hanno a che fare con la realtà, uno dei temi più cruciale, che è risuonato più volte in questi giorni quando si è parlato di Europa o quando si è parlato di lavoro: il tema del Sud. Il Sud perché è un simbolo che in Campania ci sia, a livello di disoccupazione giovanile il 66,8%, disoccupazione per i giovani con meno di 26 anni, che in Puglia ci sia il 45,8% di disoccupazione, che in Basilicata ci sia il 53,5%, che in Calabria ci sia il 65%, che in Sicilia ci sia il 60,1% di disoccupazione, che in Sardegna ci sia il 49,3% di disoccupazione a livello giovanile: è un simbolo che dice la situazione drammatica in cui siamo. Monti ha parlato di sciopero generazionale: noi lo sciopero generazionale lo stiamo facendo lavorando. Il nostro Meeting è uno sciopero generazionale, è uno sciopero in positivo.; è un tentativo di far sapere che tutto non va bene, ma che noi, di fronte al tutto che non va bene non siamo qui per fare denuncie, tirare sassi, ma per. impegnarci. Allora abbiamo voluto provocatoriamente intitolare questa ultima parte del nostro Meeting "Il Sud che funziona", per sentire brevemente alcune testimonianze di Sud che funziona, e per sentire l’augusta parola del Presidente Mancino affinché il nostro lavoro continui.

Aglieri: Ciò che desidero comunicarvi è solo un piccolo tratto di storia, di una storia quotidiana, quella storia che quando è vissuta con amore, qualunque sia il suo nome, il suo colore, acquista il sapore del bene e perciò è gradita a tutti e fa bene a tutti.

Quello che facciamo è l’espressione di quattro sorelle canossiane: siamo inserite nella parrocchia di San Giovanni Galerno, una zona abbastanza periferica alla città di Catania. In quanto periferia, ha diversi volti; è una zona che ha il volto dell’antico quartiere, con le sue abitudini e le sue tradizione; c’è anche però la zona residenziale, ma c’è anche quella dei grandi plessi delle case popolari, in particolare quella dell’estremo Nord, presso la quale noi ci siamo inserite. Essendo queste zone così particolari, portano il carattere di grande difficoltà. La parola classica che tutti usiamo è quella dell’emarginazione, ma dietro l’emarginazione ci sono tanti altri nomi. La nostra comunità vive da alcuni anni in questo ambiente, però ha fatto una scelta ben specifica, la scelta di viverci dentro; difatti le nostre sorelle, alcuni anni fa, inizialmente avevano cominciato a recarsi a san Giovanni Galerno risiedendo a Catania. Abbiamo capito che questo non funzionava: bisogna entrare nel cuore della realtà perché è entrando in mezzo alla gente che abbiamo scoperto il cuore della gente. Abbiamo cercato di capire queste realtà, di comprendere le persone, non soltanto a livello razionale prendendo semplicemente atto della situazione. Anche questo serve, però per noi è più importante capire con il cuore; è giungendo a questa dimensione che è possibile per noi, vivere la condivisione che è costituita soprattutto di ascolto, di riflessione, di affetto verso il volto di ogni fratello. La storia che noi quotidianamente viviamo, la riportiamo in preghiera, ed è dalla nostra vita di preghiera che prendiamo spunti per fare dei piccoli interventi, piccolissimi tentativi; sono piccoli passi, ma ci sembra che la vita quotidiana ci stia dicendo che sono piccoli segni di speranza.

I primi passi compiuti sono proprio aver preso dimora in questo ambiente. Abbiamo trovato questo angolo della periferia molto degradato, sporco, sembrava impossibile che lì ci potessimo vivere; piano piano con le persone abbiamo creato una sensibilizzazione affinché l’ambiente fosse reso ordinato e avesse il volto della abitabilità dell’uomo. La sensibilizzazione ha ottenuto una grande attenzione da parte di tutti, e l’ambiente ha cambiato volto. Abbiamo cercato di ottenere anche un locale, perché non si può sempre stare sulla strada; il parroco della parrocchia inizialmente ci ha affittato due botteghe, ma con il susseguirsi delle attività e degli incontri non bastavano. L’anno scorso un gruppo di giovani - ragazze e mamme - ha insistito perché si realizzasse un corso di taglio e cucito: così, ci siamo preoccupate di liberare con loro una bottega che era colma di rifiuti. Pur avendo fatto nel contempo richiesta all’Istituto case popolari di darcela in affitto, mentre aspettavamo la risposta noi ci siamo messi all’opera e l’abbiamo sistemata, abbellita, con il contributo dei volontari e anche delle persone del luogo. Sono gesti semplici come questo quelli che facciamo, ma che per noi hanno il carattere della comunione e dell’amore.

Viviamo di rapporti semplici, però molto caldi, primari. La nostra disponibilità all’amicizia e allo scambio profondo con queste persone ha cambiato e lentamente cambia il volto; ciò che ci preme non è tanto l’agire, ci preme di più l’ascoltare, prima del servizio viene la condivisione, la partecipazione. Scegliendo la strada della condivisione abbiamo scelto di fare piccoli passi, ma che fossero compiuti insieme con gli altri; non prendiamo in delega nessuno, ma impariamo piano piano ad alzare il capo insieme. Pensiamo che nessuno di noi possa avere il diritto di giudicare o di fermarsi alla denuncia: vogliamo vivere per il cambiamento non per la denuncia. E questo cerchiamo di viverlo quotidianamente con queste persone.

Raccontare quello che facciamo mi sembra come impoverire la nostra vita, perché essa è oltre ciò che si fa, è ciò che si è, è ciò che si crede, che si prova, si sente dentro il cuore e si comunica. Essa è impregnata di sentimento, di intese, di scambi, di aspirazioni: quante lacrime raccogliamo, quante confidenza, ma anche quanti tentativi di vivere bene.

Come canossiane in questa esperienza ci troviamo bene, perché corrisponde al nostro stile di vita semplice, al nostro modo di vivere: riteniamo che essere quotidianamente con i poveri e vivere con loro sia un grande dono dello Spirito e crediamo profondamente che, pur nella sua semplicità, questa sia la strada giusta e possibile per migliorare la nostra vita personale, quella della famiglia e anche quella della società. È una piccola esperienza quella che viviamo, però è una piccola scintilla per dire che anche nel Sud si può vivere bene e che anche il Sud può funzionare.

Strommillo: L’iniziativa del Centro di solidarietà nel rione Sanità nasce in continuità con il carisma dei padri vincenziani

La casa dei padri vincenziani del quartiere Sanità sorge sul finire del XVII secolo per il riscatto morale e religioso di una città che in un’epoca diversa viveva drammi non dissimili da quelli odierni. Non abbiamo inventato niente, partiamo da una tradizione, da una storia, da una presenza di carne che c’era in quel posto e che noi vogliamo continuare: l'opera dei padri fu quella di far crescere e sviluppare l’evangelizzazione, la cura dei poveri e la formazione dei giovani. Oggi, nello stesso quartiere, continua l’opera sociale, è la stessa presenza di carità attraverso le possibilità, discrete ma ferme, offerte dal Centro di solidarietà della Compagnia delle Opere. Queste possibilità consistono nell’aiuto ai minori a rischio, e ai giovani: dal centro sono stabilmente seguiti cinquanta ragazzi nel concreto svolgersi della loro giornata. In questo lavoro da circa un anno si è attivata una collaborazione con l’Assessorato alla dignità del comune di Napoli, per attivare il progetto "Linee di intervento per l’attuazione del progetto di affido diurno". Il Centro di solidarietà, insieme agli assistenti sociali del quartiere, elabora programmi di intervento che prevedono una serie di obiettivi riguardanti l’organizzazione della quotidianità del giovane - seguito da un volto preciso nei vari luoghi in cui si sviluppa la sua giornata ed aiutato nei compiti scolastici -, l’orientamento dei comportamenti familiari, la riscoperta e il consolidamento delle potenzialità familiari. Inoltre il centro cura l’accoglienza di cento ragazzi delle scuole medie superiori a cui viene offerto un luogo educativo e costruttivo di condivisione dei bisogni. Da questa attenzione ai bisogni dei ragazzi è nata una associazione "da famiglia a famiglia", che ha dato vita ad un asilo nido per rispondere alle esigenze delle giovani famiglie del quartiere. È nato anche un consultorio medico a servizio delle famiglie più povere del quartiere che assicura la presenza stabile, ogni due giorni e nei casi di emergenza, di medici di varie specializzazioni. Il Banco di solidarietà cura la distribuzione gratuita di beni alimentari a circa cento famiglie indigenti. Attraverso la condivisione dei bisogni della gente del quartiere è stato possibile generare un arcipelago di rapporti e riscoprire il gusto di una compagnia, quel gusto educativo che attraverso il gusto della libertà fa rinascere un popolo.

Questo servire il popolo non nasce per noi da un progetto, ma dal rinnovarsi quotidiano di uno stupore di fronte alla realtà, che ci commuove e ci ripropone, attraverso le facce dei nostri ragazzi che bussano alla porta della nostra casa, la domanda "A chi appartiene la nostra vita?". Come dice un proverbio napoletano: "Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi". Non è per una analisi sociale che con baldanza ingenua possiamo, tra mille contraddizioni, imboccare tutte le mattine la strada che porta a scuola, e riproporre ai ragazzi ed ai giovani della nostra città una dimora stabile alla quali essi dopo un po’, con entusiasmo, invitano anche i genitori, vivendo l’incontro fatto come una possibilità di dilatare la carne della nostra famiglia. Per i ragazzi infatti l’incontro con noi e con il movimento di Comunione e Liberazione è l’incontro con una famiglia che si dilata, con una carne.

Questa comunione di amici ha fatto dire, ultimamente, a un assistente sociale, attento ai segni del rione Sanità: "Capisco perché voi durate, lì dove altri fuggono o si esauriscono, perché voi avete alle spalle una compagnia che vi sostiene in una ipotesi positiva". Attraverso il carisma di Comunione e Liberazione noi ritroviamo e rinnoviamo la carne del nostro popolo: comprendiamo così il miracolo di san Gennaro, che esprime sinteticamente la genialità di un legame carnoso e familiare che si rinnova.

Monaco: L’idea de "L’Opera" nasce nel 1986 come una sfida fatta da un insegnante insieme ad alcuni studenti di istituti tecnici, i quali aderivano all’esperienza di Comunione e Liberazione e a cui si presentava il dramma di trovare un lavoro. La sfida di cui sto parlando si concretizzò con la presentazione di un progetto per la legge 44, finalizzato alla realizzazione di due regie mobili - a livello tecnologico il top del settore televisivo - per offrire un servizio di riprese televisive e collegamenti via satellite per i grossi network. Tutto questo a Foggia, nel bel mezzo del tavoliere delle Puglie - il network più vicino dista circa 450 chilometri -, dove il mercato della televisione si articola al massimo in piccoli spot o in qualche diretta di elezioni politiche. In questa sfida per fortuna non eravamo soli, eravamo continuamente incoraggiati ed aiutati da un gruppo di amici più grandi di noi - gli amici della Compagnia delle Opere - che prima di noi avevano rischiato avventure imprenditoriali simili: ci hanno aiutati soprattutto a mutare il nostro attaccamento al posto fisso in una passione per il nostro lavoro. Abbiamo vinto la scommessa: nel 1988, dopo due anni di torture burocratiche ci viene comunicato che il nostro progetto era stato approvato e che da lì a poco sarebbero stati erogati i finanziamenti per costruire le regie. "L’Opera" era nata.

Nel 1990 le due regie ci sono state consegnate: la prima volta che sono salito sui due mezzi, che in seguito mi sarebbero diventati più familiari di casa mia, mi sembrava di essere su una astronave, con tasti e leve dappertutto. Dopo il corso di formazione svolto in azienda leader nel nostro settore, grazie ad accordi stipulati dalla Compagnia delle Opere, abbiamo cominciato a fare le prime riprese, non senza qualche difficoltà. Perfino alcuni tecnici che ci facevano il corso di formazione ci dicevano che, nonostante la buona volontà dei singoli, non ce l’avremmo fatta a causa dell’inesperienza che aveva il gruppo, in un settore sempre più esigente dal punto di vista qualitativo. Invece nel giro di un anno siamo arrivati a gestire produzioni complesse di Rai, Mediaset e diversi network stranieri. Abbiamo realizzato eventi quali concerti in mondovisione, come il "Pavarotti International" per Rai Uno, mondiali di pugilato, finali di Coppa dei campioni, concerti alla Scala di Milano, vari tipi di sport e soprattutto la Formula 1. Abbiamo infatti girato per più di tre anni - Portogallo, Inghilterra, Germania... - per realizzare l’integrazione della Formula 1 per il gruppo Mediaset, utilizzando quelle che sono le ultimissime tecnologie del settore. In un ambiente come il nostro infatti, inevitabilmente ci si trova a confrontarsi con colleghi di tutto il mondo e bisogna assolutamente reggere il confronto. Lo abbiamo retto, e non lo dico solo io, lo ha detto il responsabile della Redazione motori di Mediaset in un servizio televisivo interamente dedicato ai ragazzi de "L’Opera".

"L’Opera" oggi offre lavoro a quindici persone a tempo pieno ed a circa una ventina di tecnici specializzati che periodicamente vengono assunti per realizzare le produzioni in esterna. Oltre a questi ci sono una decina di ragazzi che ha acquisito una professionalità presso la nostra azienda, che oggi esercitano questa attività non solo per "L’Opera" ma anche per altre società del nostro settore. Posso inoltre dichiarare con grande soddisfazione che la nostra azienda, superati gli anni di crisi che tutti abbiamo conosciuto ed avendo restituito sempre e puntualmente al Ministero quanto doveva, chiude con il bilancio in attivo.

Anche questa esperienza ci ha insegnato che lì dove l’avvenimento della vita, Gesù Cristo, si rivela, tutto può essere salvato, anche le esigenze del lavoro e tutto viene salvato con una modalità talmente imprevedibile ed affascinante - la nostra azienda ne è sicuramente la prova - che mai potrà essere stata farina del nostro sacco. La farina che possiamo trarre dal nostro sacco è al massimo quella di seguire quell’avvenimento che sempre ci stupisce e ci rivela dove è la verità e la felicità della nostra vita: costruire il Regno di Dio. Ciò che continuiamo a sperare, nonostante tutti gli errori o le incoerenze che sempre ci costituiscono, è che questa opera con l’aiuto di Dio possa diventare uno strumento per mettere anche solo una pietra di quel regno e, attraverso la condivisione di quella grande esigenza dell’uomo che è il lavoro, testimoniare al mondo la presenza di Cristo.

Vitale: Negli ultimi cinque anni il mio impegno verso il Sud è diventato sempre più intenso: non sono impegnato solo a Gioia Tauro come amministratore del Gruppo Mirogolio, sono impegnato anche in Abruzzo, in Basilicata e in Puglia, dove abbiamo creato una fabbrica tessile di primissimo piano che dà lavoro a circa 1000 persone, quasi tutte giovani. Sono anche membro del Consiglio di amministrazione della legge 44, che oggi si chiama "Società per l’imprenditoria giovanile". Infine, come mia passione civile, sono impegnato gratuitamente a dare una mano ad alcuni sindaci di centri minori del Sud che giudico "eroi civili" perché stanno facendo operazioni di rinnovo e di guida al rinnovo delle loro comunità assolutamente straordinario, quasi sempre in una enorme solitudine.

Per inquadrare la nostra esperienza, utilizzo due citazioni brevissime degli anni Cinquanta, l’epoca in cui è partita la politica meridionale tuttora operante nel nostro paese. "In un paese sovrappopolato [il Mezzogiorno] nel quale la popolazione non occupata prende coscienza del suo stato di minorità rispetto alla popolazione restante, l’iniziativa privata [la società civile, la società di cui parlate molto opportunamente in questo incontro] non può avere che una funzione complementare rispetto all’iniziativa pubblica". Queste sono parole di Pasquale Saraceno, il teorico e l’ideologo della politica meridionale degli ultimi cinquanta anni: questa è stata la politica, questo è stato il pensiero che ha animato tutti questi anni. Non era l’unica via, perché nella discussione parlamentare del ‘52 in cui si dibattevano questi temi, c’erano altri che dicevano: "La via per la soluzione della questione meridionale non è quella di un intervento dall’esterno o dall’alto a mezzo di un ente speciale. La via è un’altra: la via di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento e il progresso economico di quelle regioni e promuovere lo sviluppo delle forze produttive [è il rovesciamento, il principio di sussidiarietà] promuovendo, rimuovendo con una svolta politica dello Stato verso il Mezzogiorno, e non solo con l’esecuzione di opere pubbliche, le cause di carattere politico e sociale che hanno dal 1860 in poi determinato il formarsi di una questione meridionale". Si tratta di due vie: noi in Italia abbiamo imboccato la prima via, la seconda via ha perso; nella fase attuale però, attraverso le opere e sotto la spinta della necessità, stiamo, sebbene in ritardo, riprendendo la seconda via, l’unica via corretta.

È in questa ottica che vi voglio parlare dello straordinario caso di Gioia Tauro: negli anni Settanta, gli anni della rivolta di Reggio Calabria, lo Stato per fare qualcosa di importante, delibera un grande centro siderurgico a Gioia Tauro, nonostante i pareri contrari di molti tecnici. Si scava un grande porto canale di tre chilometri e mezzo, con 15 metri di profondità e circa 80 di metri di larghezza, con due grandi bacini. Ma poi interviene la CEE, dopo la crisi, e dopo avere spianato aranci e ulivi tutto resta semplicemente così, dal 1977 fino al luglio del 1993.

A questo punto interviene un imprenditore, Angelo Romano, che coglie dei movimenti nuovi sui mercati, frutto dell’evoluzione tecnica: le navi stanno diventando sempre più grandi, e in particolare le navi portacontainer. Cogliendo questi sviluppi in atto, comprende che sta cambiando anche la logica della movimentazione, dei porti, delle merci, e va alla ricerca di grandi aree per un approdo su cui consegnare le merci che poi verranno riconsegnate e distribuite nella zona. Così, una domenica del luglio del 1993 andiamo a vedere Gioia Tauro, e vediamo che questo porto sembra fatto apposta. Non c’era niente, solo le pecore: luglio 1993.

Nel giro di tre, quattro giorni si decide, decidiamo e incominciano i discorsi - c’era bisogno di una concessione governativa -, nel novembre del 1993 abbiamo fatto l’accordo di programma e abbiamo cominciato a lavorare, a ordinare le gru e a preparare la formazione dei giovani. Il 16 settembre 1995 attracca la prima nave: meno di due anni. Questa velocità di realizzazione di un’opera così complessa è assolutamente straordinaria a livello di standard internazionale: questo perché in questa fase non c’è stata solo la volontà e la determinazione imprenditoriale, ma c’è stata anche una risposta straordinariamente positiva da parte della componente pubblica. Per realizzare il nostro progetto infatti bisognava mettere insieme e d’accordo tre o quattro ministeri, la regione, i comuni, la Comunità Europea... abbiamo avuto una risposta - allora era Presidente del Consiglio Ciampi - estremamente positiva, determinata dal fascino del progetto.

La prima persona con cui parlai di questo progetto a livello di governo, fu il senatore Mancino, che allora era Ministro degli Interni: cercammo lui perché ci rendevamo conto che anche il tema della sicurezza è importante. Siamo in una zona ad altissimo livello di pericolosità: tuttavia, il tema della sicurezza non va impostato come fanno molti imprenditori e associazioni, che vogliono la certezza della sicurezza. Questo è un modo assurdo di impostare il problema, perché è facendo che si cambia la realtà. Quello che noi andammo a chiedere al senatore Mancino, allora Ministro degli Interni, fu: "Noi siamo persone grandi e responsabili, abituati ad avere a che fare anche con tanti porti del mondo. Non veniamo a chiedere sicurezza, però, data la complessità della questione e dato l’ambiente dotato di una sua pericolosità, chiediamo a lei, come rappresentante dello Stato, attenzione, risposta, cura da parte di quegli esponenti dello Stato che nel territorio devono seguirci". E il Ministro degli Interni di allora mi rispose con estrema lealtà: "Ci sono parti del territorio in cui noi qualche volta non abbiamo la sicurezza del controllo; certamente però vi assicuriamo questa attenzione". Questa attenzione c’è sempre stata, ed è stata per noi un elemento di conforto; dobbiamo dire che abbiamo trovato e continuiamo a trovare uno Stato - nelle persone che lì lo rappresentano - serio, impegnato, attento. Attualmente siamo preoccupati perché da qualche tempo le persone sul campo ci dicono che si sentono abbandonate, e sole.

Risultati: nel giugno 1995 arriva la prima nave; oggi a Gioia Tauro, questo posto che era noto solo per aspetti negativi, attraccano ogni anno 3000 navi, sono impiegati stabilmente 300 giovani calabresi di età media 27 anni, ci sono dirigenti di 29, 30 anni, arrivano 2.200.000 container all’anno. Questo per un totale, nel 1998, di più di 12 miliardi di profitti;: dopo il 1995 e il 1996, chiusi con 30 miliardi di perdita, nel 1998 avremmo dovuto chiudere in pari, invece realizziamo addirittura profitto. Il porto di Gioia Tauro è diventato il numero uno del Mediterraneo nel suo campo.

Il pericolo principale che oggi vediamo è l’incapacità da parte di componenti importanti della politica con cui enti come il nostro hanno sempre a che fare, di capire e valutare il significato positivo enorme di questa opera, che ha cambiato l’insieme dei traffici italiani, che ha cambiato il traffico dei container nel Mediterraneo, che ha fatto capire che si può vincere in Calabria una scommessa grande e complicata. Oggi purtroppo abbiamo a che fare con un governo che ci nega quella flessibilità sul lavoro che ha appena introdotto con il lavoro interinale: l’ha negata nei porti, dove il lavoro interinale è importantissimo, e l’ha negata per accontentare vecchi ruderi della CGIL, pensionati che non vogliono far lavorare i giovani. Questi sono i pericoli veri e grandi, non il problema della sicurezza, che pure esiste, ma come esiste in tante altre parti del mondo.

Noi andiamo avanti: abbiamo deciso di investire altri 100 miliardi, perché crediamo che questa opera abbia un grande significato, al di là del suo contenuto, come testimonianza che nel Sud si possano fare cose grandi, importanti e capaci di avere un effetto trainante.

Napoletano: C’è un Sud che funziona, che produce e che è anche poco conosciuto, e che quindi merita di essere raccontato.

L’inchiesta che abbiamo fatto al "Sole 24 ore" e che è ancora in corso, nasce dall’esigenza, di far conoscere questo Sud che funziona. Abbiamo individuato "le capitali nascoste" del Mezzogiorno e con un po’ di ambizione abbiamo detto che volevamo ridisegnare la cartina dello sviluppo del Mezzogiorno: per una volta, non parliamo di Bari, di Napoli, di Palermo, delle grandi aree metropolitane, dei grandi problemi di vivibilità che ci sono, ma parliamo delle scarpe di Casarano, delle magliette di Putignano o magari parliamo di Azzano, che qualcuno conosce per i temi sgangherati degli alunni del maestro Marcello D’Orta, ma non sa che ci sono aziende leader in Europa nel campo dell’imballaggio alimentare. Anche l’appena citata Gioia Tauro è un esempio di capitale nascosta.

La capitale più significativa tra queste è quella di Sant’Eramo in Colle, dove c’è un signore che si chiama Pasquale Natuzzi che ha la quinta elementare ma dà lavoro a 3.500 persone. Questo signore ha messo a sedere l’America: in una casa americana su due c’è un divano Natuzzi. Lo stesso Natuzzi in queste case è entrato una seconda volta, perché ha portato il suo titolo a Wall Street, e molti signori americani hanno comprato le azioni: Natuzzi è così entrato anche nei portafogli americani. Oggi ci sono aziende del Nord, la Chateau d’Ax di Bergamo, la Doimo di Treviso, che vanno a installare impianti produttivi a Sant’Eramo.La Brianza in qualche modo si è spostata in Puglia, perché i nipotini di Natuzzi, si sono messi in proprio e hanno fatto delle piccole aziende. Così, per fare lo stesso divano in Brianza ci vogliono quattro giorni e mezzo, a Sant’Eramo ci vuole mezza giornata: questo è un fattore competitivo molto forte, che ha fatto scattare un’attrazione di capitale, per una volta con un percorso contrario a quello solito.

Le capitali nascoste che stiamo raccontando messe insieme esportano 40 mila miliardi, il 10% dell’esportazione nazionale. Nel Mezzogiorno abitano 21 milioni di persone, un terzo della popolazione italiana: oggi ci sono due Mezzogiorni, un Mezzogiorno esportatore, che si misura con le regole del mercato, il Mezzogiorno della grande svolta e un Mezzogiorno che vive ancora con il reddito fisso e con trasferimenti pubblici, con un regolare impiego nell’area pubblica.

Siamo entrati in Europa ed abbiamo due vincoli: l’eredità del passato, il debito pubblico, e i nuovi parametri di Maastricht. Siamo entrati in Europa, ma il paese deve riprendere ad investire in sicurezza e in infrastrutture. Investire in infrastrutture non significa fare assistenza, significa invece portare le strade dello sviluppo vicino a quei poli di eccellenza che già ci sono. Gioia Tauro ad esempio è una strada per lo sviluppo anche per Natuzzi, perché può imbarcare alcuni suoi prodotti: ma allora ci vuole l’interporto, ci vuole l’autostrada. L’altra spinta fortissima non può che essere il fisco e la flessibilità, puntando su due elementi forti: la risorsa giovanile e i tanti Natuzzi. Come abbiamo visto con la legge 44, i giovani hanno studiato, e soprattutto hanno voglia di intraprendere, di mettersi in proprio: non chiedono più il posto fisso o perlomeno non in misura prevalente. E i Natuzzi, se non sono il Mezzogiorno, però ci sono, e si può pensare di far rinascere il Mezzogiorno proprio da loro.

Si parla molto di nuova programmazione: se la nuova programmazione serve a garantire procedure certe e trasparenti, a spendere e investire, ben venga; ma se per caso si dovesse cedere alle pressioni che vengono magari da Bertinotti, se si dovesse pensare a fare nuovi carrozzoni e nuove agenzie pubbliche, allora la partita fra i due Mezzogiorni, il Mezzogiorno esportatore e il Mezzogiorno del passato, non avrebbe più storia.

Mancino: Nell’analisi e nella interpretazione della situazione meridionale, prevalgono toni indistintamente pessimistici, cui fanno da contrasto le riflessioni fatte alla luce della esperienza degli amici che mi hanno preceduto. La situazione negativa del Mezzogiorno è certamente preoccupante e noi non possiamo ritenere che anomalie positive sul piano territoriale possano essere immaginate improvvisamente come estendibili all’intero territorio del Mezzogiorno, saremmo all’interno di un sogno che la situazione economica del nostro paese e dell’Europa e la globalizzazione dell’economia non consentirebbero.

C’è una strategia oggi che può soccorrere in direzione del nuovo patto sociale, di cui ha parlato il Ministro del Tesoro, persona autorevole e prestigiosa alla quale si può intestare l’accordo di luglio 1993 che ha consentito quel movimento di tipo culturale, oltre che economico, sociale e sindacale, che ha portato il nostro paese alla soglia delle regole di Maastricht e successivamente all’ingresso nella moneta unica.

Questo nuovo patto sociale potrebbe andare bene se mette sotto controllo i profitti unitari naturalmente e consente più investimenti, più possibilità di sviluppo. È su questo che dobbiamo discutere se vogliamo superare le angustie di un dibattito che è fatto più di toni minacciosi che di analisi approfondite da offrire al confronto sul piano generale, fra forze politiche, sociali, imprenditoriali e sindacali. Noi non abbiamo ancora sufficientemente valutato, la politica dei redditi che è strettamente collegata con l’accordo di luglio 1993, e la flessibilità, che deve essere al centro di un confronto fra il governo e le forze sociali, sin dall’inizio del mese di settembre e in occasione della predisposizione degli strumenti finanziari che interesseranno il fine secolo, 1999, 2000 e 2001.

La tendenza che si registra sul piano generale è una tendenza Ovest-Est; si è parlato a lungo di Nord-Sud, anche limitato sul piano del territorio del nostro stesso continente, ma la politica dell’Unione Europea è in direzione dell’allargamento verso il Centro-Est, con i punti interrogativi che naturalmente si pongono oggi, soprattutto in presenza di una crisi profonda che sta investendo la nazione più importante del Centro-Est europeo, cioè la Federazione russa. Gli interventi prioritari dell’Unione Europea pongono comunque al primo posto infrastrutture in direzione di una attenzione verso il Centro-Est europeo. Chiaramente, la politica che ci interessa più da vicino è quella del Mediterraneo; gli incontri di Barcellona hanno sottolineato questa esigenza, ma sono troppo deboli le nazioni di questa area geografica - la Spagna, il Portogallo, la Francia e l’Italia - rispetto a quelle interessate all’ allargamento verso il centro dell’Europa.

Noi ci troviamo di fronte all’ingresso dell’Italia nella moneta unica e ad un vincolo inevitabile che la Banca Europea porterà nei confronti del bilancio dei singoli paesi che ne fanno parte: non possiamo dire di essere liberi, siamo fortemente condizionati dal nostro ingresso nella moneta unica. E non potrebbe essere diversamente, lo sapevamo sin dalla vigilia, sin da quando il governo e le forze politiche hanno chiesto sacrifici al paese, a partire dal lontano 1992, affinché la politica del risanamento sortisse i suoi effetti, sia pure attraverso qualità che rappresentano discontinuità di riflessione. Il paese si è dimostrato disponibile rispetto a questa domanda di sacrificio. Non possiamo dire che il vincolo di bilancio che noi abbiamo è un vincolo assoluto, perché può riguardare il disavanzo, che deve rimanere al di sotto del 3% del prodotto interno lordo, può riguardare il nostro debito, che non può superare l’80%: la partita che ci giochiamo in questo momento, dal punto di vista dell’impegno di governo, è come abbassare il nostro indebitamento, essendo da questo punto di vista tra i paesi che sono sotto i riflettori.

Personalmente, sono convinto che le forze politiche più interessate allo sviluppo armonico dell’intero territorio nazionale possano convenire sul fatto che l’attività economica e quella del lavoro dipendono dalla moneta e dal bilancio, ma all’interno del bilancio c’è un modo diverso di approccio e ci possono essere indicazioni che interessano lo sviluppo e altre che vanno in direzione diversa. Sono un uomo del Mezzogiorno, e spesso sono in conflitto con un atteggiamento remissivo che registro all’interno del territorio del Mezzogiorno stesso: sono convinto che dobbiamo liberare il Mezzogiorno, dalla cultura della protezione e dell’assistenza, che ha prodotto molti guasti, spiegabili in un arco di tempo molto lungo, ma che oggi non coincidono con gli interessi del paese sul piano generale e neppure con gli interessi del Mezzogiorno. Lo sviluppo della cultura dell’impresa e della innovazione, della concorrenza e del mercato, è un problema culturale prima ancora che politico, economico, sociale. Dobbiamo tenere conto che se non c’è una linea di indirizzo economico che privilegi una esigenza di riequilibrio, difficilmente possiamo ottenere grandi risultati. Se le infrastrutture a fini produttivi sono finanziate dall’Unione Europea per obiettivi di sviluppo, non vedo la ragione per la quale non si possa pretendere anche all’interno del nostro paese che molti investimenti a fini produttivi trovino una loro presenza nel bilancio dello Stato italiano.

Ci trasciniamo da tempo una cultura dei tempi diversi: c’è un tempo per risanare e c’è un tempo per investire. Solo che il tempo per investire. Ma il tempo per investire è così breve che subito dopo bisogna pensare a come risanare la condizione economica del paese; lo stop and go è stato caratteristico di scelte politiche non solo per il nostro paese, ma così i due tempi finiscono per danneggiarsi e per non porre il problema che è ormai al centro della riflessione di economisti illuminati. Il problema, molto semplice, è: se nel nostro paese c’è un problema di costi e se la nostra industria si è giustamente orientata verso l’informatizzazione, è anche vero che il costo è ancora elevato, sul piano interno, rispetto ai mercati internazionali. Occorre dunque una riflessione ulteriore. Non è maturo il tempo di una nuova riconversione delle nostre industrie? E se è maturo il tempo di una riconversione, in che direzione orientare la localizzazione delle industrie riconvertite?

Oggi non si può discutere del Meridione negli stessi termini in cui ne parlava Saraceno: non è più lo Stato che deve creare le aziende, ma lo Stato - il governo centrale -, il Parlamento, le forze politiche, le forze sociali, devono essere concordi a realizzare quel patto sociale senza del quale non possiamo migliorare le condizioni del Mezzogiorno. Capisco che sul piano generale c’è anche un problema di sicurezza, cui si è accennato: non possiamo non affrontare la sicurezza in un territorio che spesso non dà sicurezza. La politica di occupazione del territorio da parte dello Stato è di estromissione dal territorio della malavita organizzata, è una politica presente, e il Ministro dell’Interno con la sua prudenza, con il suo equilibrio sta ottenendo dei risultati; tuttavia il paese e soprattutto l’imprenditoria internazionale e, multinazionale chiedono allo Stato di dare maggiori certezze sul piano del territorio. Queste certezze devono essere progressivamente acquisite come una delle condizioni per allargare lo spazio territoriale alla speranza, altrimenti ci troviamo di fronte a risultati certamente pregevoli, ma ancora insufficienti. Esperienze positive quali Melfi e Gioia Tauro dall’altra, però Melfi e Gioia Tauro insieme a tante piccole esperienze di giovane imprenditoria sono poca cosa rispetto alle esigenze di carattere generale, se contemporaneamente ci troviamo di fronte ad un indice di disoccupazione che va dal 23 al 27% nelle aree meridionali e colloca la nostra disoccupazione in una posizione anomala rispetto al territorio di altri paesi.

C’è bisogno di un grande impegno da parte del governo e di una grande disponibilità da parte di tutte le forze sociali, imprenditori e lavoratori; credo che il prossimo autunno debba essere un autunno non solo di attenzione, ma anche di accoglimento di alcune esigenze che per la prima volta possono trovare presenza nel bilancio dello Stato. Dobbiamo infatti dire che dal 1962 non ci sono stati nel Mezzogiorno investimenti in opere pubbliche a scopo produttivo, le poste in bilancio sono state negative da questo punto di vista; bisogna risalire la corrente, perché se non è possibile, date le divisioni interne, una regia per un grande patto redistributivo all’interno del nostro paese, occorre almeno che ci sia una linea del governo in direzione della espansione economica del paese, che non può rimanere statico nelle condizioni in cui è. Lo stesso progetto euromediterraneo è un progetto soltanto verbale, che necessita di essere sostenuto dall’Italia insieme ad altri paesi come la Spagna, il Portogallo, la Francia, la Grecia. Il Mezzogiorno non può prescindere dal Mediterraneo, anche perché il prodotto del Mezzogiorno ha scarsa accoglienza sul mercato internazionale proprio perché compresso da altre aree che producono in una condizione ottimale e diversa.

Appartengo alla categoria di coloro i quali ritengono che utilizzando la ragione si possano ottenere risultati anche migliori rispetto alle proteste. Non credo che la parte più debole del paese, le giovani generazioni, sia in condizione di avere una capacità contrattuale rispetto alle parti più forti: le organizzazioni sindacali devono giustamente difendere i propri iscritti ed i propri iscritti generalmente appartengono al numero degli occupati, non ai disoccupati. Nel nostro paese c’è comunque una maturità notevole da parte delle forze sociali; le forze politiche hanno un grado di riflessione più lento, devono convincersi che il salto di qualità se non viene spontaneamente realizzato attraverso una politica interna, ci viene perlomeno sollecitato dai mercati internazionali. Non possiamo essere un paese concorrente rispetto agli altri mercati se non siamo capaci di risolvere alcune questioni che sono nodali all’interno della nostra economia. Mi auguro che il confronto del mese di settembre e la finanziaria possano segnare un cambiamento di marcia rispetto ai ritardi che pure si registrano su una parte del territorio del nostro paese.

 

 

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