Venerdì 26 agosto

"L’UOMO A PEZZI"

Partecipano:

Prof. Eugenio Borgna,

Docente in Clinica delle Malattie nervose Mentali all'Università di Milano;

Prof. Giovanni Arpino,

Scrittore e Giornalista;

Prof. Nando Dalla Chiesa, Docente in Sociologia all'Università Bocconi di Milano.

Moderatore:

Dott. Roberto Formigoni.

R. Formigoni:

Il titolo della tavola rotonda dell'incontro di questa sera è "L’uomo a pezzi". A testimoniare su questo tema abbiamo chiamato tre relatori di eccezione: il prof. Eugenio Borgna, docente in Clinica delle malattie nervose e mentali all'Università di Milano; il prof. Giovanni Arpino, giornalista e scrittore, e il prof. Nando Dalla Chiesa, docente in Sociologia all'Università Bocconi. Tre uomini diversi per formazione, per cultura, per esperienze professionali e personali. È lo stile del Meeting, quello di mettere a confronto uomini diversi tra loro, e soprattutto è lo stile del Meeting quello di metterli di fronte alla stessa domanda, allo stesso gruppo di questioni, chiedendo, a chi accetta di venire a parlare dalle tribune del Meeting, di mettere in gioco non solo la propria competenza scientifica o pr9fessionale, ma anche il proprio vissuto, chiedendo di mettere in gioco se stessi. È quello che facciamo anche questa sera, chiedendo loro di confrontarsi con il tema che abbiamo scelto. Che cosa abbiamo voluto dire, organizzando questa tavola rotonda su "L'uomo a pezzi"? Potremmo dire che l'uomo a pezzi descrive, in certo qual modo, la condizione presente dell'uomo o grossa parte del presente dell'uomo. In questi giorni abbiamo parlato delle origini dell'uomo, del suo destino, del suo futuro, del rapporto tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e la macchina, e abbiamo notato le esigenze, le domande dell'uomo, e anche le contraddizioni, gli errori in cui è immerso. Vogliamo andare a fondo proprio in questo aspetto: le contraddizioni dell'uomo. L'uomo fa esperienza di contraddizioni; l'uomo fa esperienza di una rottura, di una divisione, sia di una divisione al proprio interno, sia di una divisione nel confronti degli altri e della realtà. Su questa affermazione, che l'uomo sia a pezzi, concordano oggi molte scienze umane. Ma noi ci domandiamo: quali sono i motivi di questa rottura nell'uomo? Certamente: è a pezzi - ad esempio - l'uomo che vive una situazione di non libertà, di schiavitù, dentro la società; è a pezzi l’uomo che vive un'alienazione, sul posto di lavoro, uno sfruttamento, o un'alienazione dentro la società. Più profondamente, non è in unità con se stesso, dunque è diviso, è a pezzi, chi non possiede il significato della sua vita, chi non possiede la propria identità. Ma c'è anche un'altra serie di cause di questa divisione. È causa di rottura dell'uomo la violenza, nelle varie forme in cui essa viene esercitata, violenza personale o collettiva; è causa di rottura e di divisione una forma più sottile di violenza, che è l'indifferenza: l'indifferenza reciproca, l’indifferenza nei confronti delle domande che contano; è causa di rottura lo scetticismo che abbiano visto essere dominante in tanta pseudo-cultura presente nella società di oggi. C'è anche un aspetto per cui l'uomo si fa a pezzi da se stesso. L'uomo si rompe da sé, quando concepisce la propria vita e la propria persona in un modo errato, quando pensa alla libertà come un essere sciolto da ogni tipo di legami, mentre invece - e già alcuni interventi di questi giorni ce lo hanno detto - libertà sembra piuttosto essere e avere una responsabilità nei confronti di qualcuno, di qualche cosa, esercitare una responsabilità, un compito nei confronti di persone, di realtà cui si è legati. L'uomo si fa a pezzi da se stesso, ancora, quando vive un individualismo possessivo assoluto, quando concepisce il rapporto con l'altro o con la realtà esclusivamente come un possesso, e non come una relazione di comunione e di unità. Al contrario, l'uomo si fa a pezzi quando non si interroga su di sé, quando censura la domanda sul destino. Se queste cose sono, almeno approssimativamente, vere, mi sembra allora che emerga una prima domanda che lo rivolgerci al nostri tre relatori: siete anche voi d'accordo che l'uomo è a pezzi? Ma – più profondamente – che cosa ha rotto l'uomo? Come si manifesta questa rottura, questa divisione che è dentro l'uomo? Una seconda domanda: se è vero che l'uomo è a pezzi, proprio la percezione che l'uomo ha della sua crisi, della frantumazione, dello smarrimento in cui dimostra che l'uomo non è riducibile alla sua crisi, dimostra che la crisi, che la divisione, non dicono là parola definitiva sull'uomo. Dimostrano che l'uomo concepisce se stesso come unità: infatti se si percepisce rotto, è perché concepisce se stesso come un’unità che è stata rotta. Potremmo dire, in qualche modo, che ha una nostalgia di unità, un desiderio di unità. Allora la seconda domanda potrebbe essere questa: qual è questa unità di cui l'uomo ha nostalgia o desiderio? Siete d'accordo che l'uomo vive questa tensione all'unità? Come la vive, come si manifesta dentro la vita dell'uomo? Infine una terza domanda: in questo rapporto rottura-unità, a mio avviso si gioca, tra gli altri, anche l'elemento della libertà dell'uomo, nel senso che se l'unità è all'origine dell'uomo, o è un desiderio a cui l'uomo tende, cioè se è l'unità che descrive il vero volto dell'uomo, e la rottura descrive soltanto l'aspetto contingente della vita dell'uomo, allora, mi pare, entra in gioco la libertà, nel senso che entra in gioco la decisione dell’uomo, o la non decisione, di riallacciarsi a questa unità, a questa origine o a questo destino, comunque si voglia chiamare questa origine o questo destino di unità, da cui l'uomo dipende e a cui l'uomo e chiamato. La domanda potrebbe essere: come è possibile parlare di questa libertà che tende all'unità? Che cosa avete da dire su questa parola "libertà", dove si ancora questa libertà, come agisce? Io vorrei precisare che queste sono soltanto tre possibili provocazioni, sul la base delle quali abbiamo scelto di organizzare l'incontro di questa sera, ma che non vogliono essere assolutamente vincolanti nei confronti dei nostri tre relatori, anzi io credo che i loro interventi porranno a noi, assieme ad alcune risposte, anche altre domande sulle quali vedremo come è possibile continuare. Darei quindi senz'altro la parola per il primo intervento, al prof. Eugenio Borgna.

E. Borgna:

Il discorso proposto adesso è stato formulato, mi sembra, con grande rigore e con estrema chiarezza anche di metodo. Le cose che vorrei dire io, devono necessariamente partire da quella che è la mia esperienza di vita, di vita umana e di vita professionale, cioè quella psichiatrica. Diceva Pascal: "L’uomo oltrepassa infinitamente l'uomo; basta una goccia d’acqua perché questa enorme ricchezza umana e culturale dell'uomo venga ad essere annientata e distrutta". Questo frammento pascaliano, se noi lo leghiamo a quello mirabilmente descritto da don Luigi Giussani, di dice già emblematicamente come l'uomo oltrepassi la natura e la macchina; come l'uomo sia vertiginosamente al di là di qualunque confronto con la macchina e con la natura. Ma questo significa anche che l'uomo corre continuamente il rischio di cader dentro una delle crisi, più o meno profonde, più o meno radicali come sono quelle che oggi sta vivendo. La macchina e la natura sono, da questo punto di vista, entità platoniche, cioè bloccate, ferme, immobili; l'uomo invece rischia e cade nella dissociazione, nella frantumazione, nella perdita della sua unità, del suo centro. Questa, che sembra essere quindi, ed è, la debolezza dell'uomo, la miseria dell'uomo, è però anche la sua grandezza. Nell'uomo che si frantuma, nell'uomo che perde l’unità dei propri atti, dei propri sentimenti, delle proprie volontà, si annida, si nasconde una delle fondamentali possibilità umane. Nessuno di noi può ritenere di essere estraneo a questa possibilità di essere estraneo a questo rischio, di precipitare cioè dentro la dissociazione, dentro la frantumazione. Ma c'è la dissociazione di un certo tipo di vita quotidiana banale e normale, e c'è la dissociazione di una vita diversa da questa, di quella che è la vita psicotica, di quella che è la vita della follia, chiamiamola con questo termine generico, ma in fondo abbastanza espressivo. Ora, nonostante quello che abitualmente si dice, fra vita normale e vita patologica, fra normalità e follia, i confini non sono così netti, non sono così precisi. E soprattutto mentre la frantumazione dell'uomo normale, dell’uomo sano, testimonia di una radicale crisi della condizione umana contemporanea, testimonia della perdita (certo non permanente, non duratura, ma comunque acuta e straziante) delle possibilità di incontrarsi con gli altri, delle possibilità di incontrarsi con la propria coscienza e nella propria coscienza, mentre questo vale per la coscienza normale, invece non si può dire (per provocatoria che la cosa possa apparire) non si può dire invece per quella frantumazione che se angosciata, anche se straziata, anche se segmentata, che si ha nella follia, che si ha nella frantumazione psicotica. La frantumazione psicotica testimonia della perdita – sia pure temporanea – dell’unità della persona, ma testimonia anche di molti valori che noi forse oggi, nella vita normale, nella vita quotidiana, non riusciamo più a cogliere, non riusciamo più a ritrovare. Nella frantumazione psicotica, intanto, noi riconosciamo il segno, l'emblema di una rivolta, molto spesso. Le persone che fra noi sono forse le più sensibili, le più aperte, le più nostalgiche di un amore autentico, le più profondamente legate ad una visione della vita fondata su valori esclusivamente umani, sono coloro fra noi che possono più facilmente subire l'artiglio e il morso della follia. Quei valori che non ritroviamo fuori della follia, noi li ritroviamo dentro. E questa è una prima riflessione che vorrei fare insieme con voi. Dobbiamo cercare di cancellare questa prima pregiudiziale deleteria considerazione-analisi, che fa sì che colui che cada in una crisi di malinconia profonda, di malinconia psicotica, oppure in una crisi di tossicomania, oppure in una crisi di quell’esperienza di vita che noi chiamiamo schizofrenia, il pregiudizio ripeto che queste perso ne diverse da noi, persone che non abbiano a testimoniare nulla. Sono persone infinitamente deboli, che sono cadute in questa crisi, molto spesso, per la frantumazione degli pseudo-valori che reggono il nostro mondo, comunque costituito, comunque istituzionalmente articolato. Questa è una constatazione per noi essenziale, fondamentale. Non è un discorso ideologico, non è un discorso di parte questo, è una fredda analisi che la psichiatria oggi fa; psichiatria intesa come scienza dell'uomo, come scienza dello spirito, non psichiatria intesa come riduzione dell'uomo ad una cosa, come riduzione dell'uomo ad una distorsione e ad un'alterazione, ad una lesione organica cerebrale; non la riduzione dell'uomo ad una cosa, certo, ma il rispetto dell'uomo, della sua crisi, anche la più profonda, anche la più carica di angoscia, anche la più precaria sul piano della vertigine e della libertà come l'angoscia - lo diceva Kierkegaard - come quella che noi cogliamo e che noi viviamo in una esperienza psicotica. Dunque la frantumazione psicotica come contro-immagine, come specchio, infinitamente più ricco e dotato di un senso, di quella che invece è la frantumazione senza valori, o legata a pseudo valori, che regge e conduce la nostra vita. Ma che cosa ancora noi possiamo guardare dentro questo abisso dell'alienazione - chiamiamola così, anche se il termine è molto riduttivo - nell'alienazione psicotica? Noi troviamo intanto un terribile desiderio d’amore, una terribile nostalgia di unità, certo, una disperata richiesta di aiuto. Nella follia, in questo abisso, in questo specchio, in questo vedere le realtà come in uno specchio, come in un ombra, in attesa certo di vederle faccia a faccia, in questo abisso, noi cogliamo la presenza di valori immensi, come quelli della gratitudine, della riconoscenza, della carità, dell'umiltà, parole magari consumate, parole logorate, ma che ritrovano qui tutto il loro significato, tutta la loro forza, non solo semantica, di segno, ma anche umana, ma anche testimoniale. Ma si resta in questa situazione di frantumazione psicotica, se il nostro atteggiamento continua ad essere, nei confronti di coloro che vivono un'esperienza come questa, un atteggiamento di indifferenza, come diceva molto bene all'inizio il nostro moderatore. Quanta captazione intuitiva e temeraria di gesti fatti di silenzi, di indifferenza, noi cogliamo nella realtà e nella sofferenza di chi vive un'esperienza come questa! Negli abissi della follia dunque noi ritroviamo deformati, ma più vivi, più precisi certo, quelli che sono i segni di speranza, o di disperazione, che reggono la nostra vita: l'indifferenza, l'angoscia, l'aggressività, la sopraffazione la noncuranza, che molto spesso segnano il nostro destino di uomini normali, sono esperienze di vita che diventano, per chi è debole e prigioniero, un'aggressione ed una sopraffazione che possono essere sopraffazioni mortali. Dunque, l'uomo frantumato, nell'esperienza psicotica, è quello che ha bisogno, è quello fondamentalmente solo. Questo è il discorso cui oggi la psichiatria arriva; ha bisogno solo che ciascuno di noi, al di là della sua competenza tecnica, certo essenziale di volta in volta, sappia cogliere e sentire questa sofferenza che grida, questa sofferenza che è stremata. E come diceva Simone Veil "ciascuna umana creatura grida in silenzio", e soprattutto nell'alienazione psicotica, per essere letta in maniera diversa da quello che appare. Anche il discorso fra le speranze e la realtà, è un discorso in fondo profondamente ed infinitamente umano, e profondamente e infinitamente cristiano. Quante immagini deformate noi abbiamo, non solo di quelli che ci circondano, ma anche e soprattutto di quelli che più deboli, che più segnati da questa infinita metamorfosi della vita che è la follia, vivono in queste condizioni! Ma non è, la loro, una condizione perduta: è una condizione smarrita, come molto bene mi diceva qualche giorno fa la presidente di questo convegno, di questo Meeting. La lacerazione c'è, è profonda, e una lacerazione che coglie nella sua verticalità quella che è la condizione umana. Il nocciolo della persona questa entità indistruttibile, metafisica al limite, che resta, che resiste a qualunque aggressione, a qualunque distruzione, qualunque sia la condizione sociologica in cui l'uomo sia portato a vivere, anche nell'infinita, e desertica desolazione dei lager nazisti riusciva ad emergere, a salvarsi, nel suo significato, soprattutto umano e cristiano, di rivolta contro l'orrore assoluto, contro il male assoluto. Quindi, una frantumazione che in questo caso è segno di contestazione radicale e violenta. Ma c’è una frantumazione apparentemente nascosta e sommersa, che si muove nei nostri cuori, nella nostra coscienza, di persone sane, di persone normali. L'angoscia, e la sofferenza che vivono dentro i cuori di questi pazienti, sono sofferenze ed angosce indicibili. Pure nei tempi brevissimi che ci sono stati proposti vorrei leggere frammenti di quella che è stata l'esperienza di frantumazione dell’ "Io", vissuta da questo grandissimo filosofo cristiano, anche se non cattolico, Sóren Kierkegaard. I suoi diari, rivelano sino in fondo come questa frantumazione psicotica rimandi continuamente alla nostalgia dell'unità; come anche in queste frontiere estreme della distruzione apparente, resti invece sempre viva una realtà superiore, una realtà che non è certo quella terrena, ma che è quella della speranza, di quella speranza della quale Kafka diceva che rinasce indistruttibile ogni qualvolta la pallottola mortale colpisce quelle che sono le speranze quotidiane le speranze banali, le speranze egoistiche. Da queste speranze distrutte - diceva Kafka - rinasce e riemerge quella che invece è la speranza autentica sulla quale, nonostante tutte le cose che si possono dire, nonostante tutte le filosofie, si giuoca il destino di ciascuno di noi, ma comunque senz'altro il destino di chi viva un'esperienza di frantumazione così difficile da interpretare e da vivere, come quella psicotica. Una nostra collega oggi, con bruciante intensità e con una sua altissima capacità di Assoluto, mi chiedeva: "Ma che cosa dice, a noi sani, la sofferenza e l'angoscia apparentemente senza fine e senza senso, di una vita psicotica, di una vita bruciata in una solitudine malinconica, oppure in una solitudine schizofrenica?". Questa è una delle interrogazioni radicali che nascono certo, direi, da questo dibattito, così acuto e così profondo, che rimette in discussione tutti i sensi della vita, il senso e il non senso della natura e della macchina. Certo, non ho saputo darle una risposta scientifica, una risposta naturalistica, perché non ci sono risposte di questo tipo, quando ci si incontra, ci si imbatte in realtà umane, calpestato, ridotte, emarginate, ma sempre capaci di testimoniare di un infinito, di qualche cosa che sta al di là del finito, di qualche cosa che sta al di là del terrestre, di qualche cosa che sta al di là del limite. Leggo, dunque, questo breve Frammento Kierkegaardiano, per cercare di riportare, una testimonianza più diretta di quella che può essere una maniera di vivere: quella che noi chiamiamo "dissociazione". Mi pare di essere un galeotto, incatenato alla morte. Ogni qualvolta la vita si muove, la catena stride, e là morte fa apparire ogni cosa inutile e vana, e questo accade ad ogni istante". Ancora: "E’ un martirio tremendo, la totale impotenza spirituale di cui attualmente soffro, proprio perché congiunta ad una nostalgia divorante. Parola tematica, proposta così limpidamente prima, ad un bruciante ardore di spirito, e tuttavia così vaga e informe, che non so io stesso che cosa mi manchi". Infine: "Mi sento sprofondare nel tormento della malinconia più cupa; l'uno o l'altro pensiero mi si aggrovigliano talmente intorno, che non so più districarmene. E poiché stanno in rapporto stretto con la mia propria esistenza, ne soffro indescrivibilmente. Questi sono alcuni frammenti, certo che potrei estendere ed allargare nella loro estrema densità, nella loro atroce capacità di testimoniare quanto la sofferenza possa portare alla frantumazione della persona, senza però corroderla, senza distruggerla, e quanto a sua volta questa frantumazione della persona possa rappresentare una difesa, un'estrema difesa, di fronte all'anonima vita quotidiana che ci circonda, di fronte a questa vita che tende, certo non qui, ma che tende fatalmente ad imbarbarirsi, sul piano di quegli pseudo-valori che non è certo il caso che abbia qui a nominare, dal momento che poi questi aspetti riguardano più il discorso sociologo, che non invece un discorso psichiatrico, psicopatologico. Stanno per passare i minuti che mi sono stati concessi, vorrei allora dire questo: in questa malinconia, o in questa tossicomania, o in questa schizofrenia (esperienze che siamo tentati a considerare come estranee all'uomo), noi forse cogliamo l'emblema, e l'essenza, almeno la metafora, di che cosa significa essere uomo, di che cosa significa la testimonianza umana che regge, al di là ogni aggressione, al di là di ogni sopraffazione. L'esperienza comune di ciascuno di noi, più o meno aperta, più o meno profonda, nella sua ambigua luce dice che la speranza può diventare la reale ragione di vita. Non certo le speranze, quelle abituali, quelle occasionali, le speranze che domani ci possa accadere qualche cosa che sia di aiuto, che domani ci possa essere il sole: queste sono speranze banali, e danno luogo ad illusioni e a molte disillusioni. La speranza profonda, la speranza metafisica, la speranza in qualche modo ontologica, è invece quella che corregge il nostro destino, comunitario e anche il destino di coloro che vivono queste esperienze. Da queste esperienze si ritorna nella misura in cui chi ne soffra, trovi intorno a sé una comunità di destino, una logica di destino, che faccia sentire ciascuno come parte integrante di una storia e di una vita che non è tagliata fuori, che non è esclusa, che non è sbarrata, che non è eliminata ma di una vita che altri, che molti altri condividono, partecipando di questa sofferenza e di questa angoscia. È una sofferenza ed è un'angoscia, del resto, che anche Bernanos ha testimoniato, come anche qui don Luigi Giussani stasera diceva – parlando delle ultime parole con cui si chiude "Il diario di un curato di campagna": " tutto è Grazia". E poi, ancora, nei "Dialoghi delle Carmelitane", questa angoscia e questa sofferenza, raggiungono l'aspetto e la profondità di una sofferenza e di un'angoscia che non sono più quelle abituali, quelle normali, quelle anonime delle quali noi circondiamo. Anche in una santa dalla vita apparentemente semplice, in realtà travagliata da profondità di giudizio e di analisi abissali, come è Teresa di Lisieux, anche in una santa come questa, noi cogliamo in fondo elementi, seppure temporanei, di crisi, di quella frantumazione che noi dentro la vita psicotica molto spesso ritroviamo. "Non avrei mai creduto - essa dice - che fosse possibile soffrire tanto. Mai, mai. Non posso spiegarmi questo, se non nella circolarità della comunione dei santi, ma non con i desideri ardenti che ho avuto di salvare le anime di coloro che erano nella sofferenza e nel peccato". E ancora, Teresa di Lisieux parla delle tenebre dense che affogano e artigliano il suo animo, dell'oscuro tunnel della sua anima, di questa notte del nulla, che sembra addirittura ricapitolare oggi e ricordare e rimemorare certi temi del nichilismo contemporaneo, da Severino in avanti, da Nietzsche in avanti, questo muro che si eleva sino ai cieli. E poi ancora: "Se non avessi avuto la fede, mi sarei data la morte, senza esitare un solo istante". Ecco, questa è un’immagine così tagliata, così frastagliata, ma necessariamente limitata dentro il contesto che mi è stato dato, del significato, del senso dell’alienazione psicotica, di quello che si può vivere, che si può soffrire, in quest'ultima esperienza di autenticità prima della morte, che talora rappresentano anche loro gesti di speranza, non gesti di disperazione. È qui, ripeto, che si raccoglie, almeno per chi come noi vive in mezzo ad una sofferenza senza limiti. Il dolore fisico, comunque sia, non può essere confrontato con quello che è il peso che è il ghiaccio del dolore morale, del dolore psicologico. Ma perché questo avviene? La scienza non sa dare una risposta a questa domanda, a questa interrogazione. Lo dicevo prima: non la psichiatria come scienza organicistica, non la psichiatria come scienza psicologistica, non la psichiatria come scienza legata ad una visione dogmatica, di una ristoricizzazione dei propri istinti, delle proprie tendenze. Quest'ultima conclusione quindi, non può essere considerata come sovra-strutturale, come estranea al discorso che ho fatto; resta solo – certo – una mia personale scelta, ovviamente, ma la sola che mi consenta di ritrovare un senso, o per lo meno di riproporre una proposta, un'ipotesi di senso, che mi sembra poi del resto essere stato anche questo un tema che, nella sua ultima parte, don Giussani ha affrontato stasera: ritrovare il senso, avviare una traccia alla risposta sulla domanda che mi è stata data. La dirò con Romano Guardini che, sulla malinconia psicotica, su questa possibile frantumazione dell'uomo, ha scritto pagine certo memorabili: "La soluzione vera e propria, si sa, non viene che dalla fede, non può venire se non dall'amore di Dio; soltanto il mistero del Getzemani e, dietro adesso, l'oscuro mistero del peccato, con tutto quanto il peccato trascina con sé soltanto il mistero del Getzemani dà la vera risposta. Il fatto che il Signore fu triste sino a morire, e che egli ha portato tutto il peso dell'essere, aggravato sino in fondo secondo la volontà del Padre. Soltanto nella croce di Cristo ha una soluzione la pena della malinconia", e noi diciamo della follia. Grazie.

R. Formigoni:

Grazie senz'altro, prof. Borgna, per il suo intervento. La parola a Giovanni Arpino.

G. Arpino:

Voi avete sentito questa relazione del prof. Borgna che è una relazione inchiavardata su termini scientifici molto seri, molto probanti. Dopo sentirete una testimonianza, personale, altrettanto importante, di Nando Dalla Chiesa, e io sono in mezzo - un po' come una fetta di salame in mezzo a due fette di pane - e dirò che non ho argomenti scientifici da portare. Visto che il tema di questo Meeting è "Uomini scimmie robot" e che la nostra tavola, più o meno rotonda per teste quadre, è "L'uomo a pezzi", io direi che sia gli uomini, sia le scimmie, sia i robot, sono sufficientemente a pezzi per poterne prendere atto in un qualche modo. Siamo a pezzi volontariamente, direi, perché siamo ormai disabituati a vivere una vita collettiva, che parli con il "tu". La nostra dissociazione è innanzitutto una questione di linguaggi. Quando gli imperatori antichi o i condottieri antichi occupavano delle città, delle province, dei territori oltre mare, prima di distruggere le città conquistate con il sale, distruggevano i residui linguistici, perché un uomo e un popolo senza lingua non possono sopravvivere. Noi stiamo oggi vivendo una nostra babele linguistica, tanto che io vorrei incominciare questa mia brevissima relazione con una nota copiata dalle ultime righe di "Guerra e pace" di Tolstoj, anno 1869. Le ultime righe di "Guerra e pace" sono queste: "Nel caso presente, necessario rinunziare a una libertà che non esiste e riconoscere una dipendenza che non sentiamo". E su questo una bella tavola sociologica su tre reti televisive, non andrebbe male. Direi che siamo ad un punto in cui, o ci si riconosce come linguaggi, oppure andiamo a ricercare i pezzi che contano, perché in pezzi siamo. Allora quali sono, di questi pezzi, quelli che contano, perché qualunque fuochista, garagista e meccanico, di una macchina disintegrata o sfasciata, o comunque invecchiata, sa recuperare alcuni pezzi. Io sono un testimone, non sono un professore, non sono un sociologo, non sono un profeta (forse un pochino lo sono, però nascostamente); ad ogni modo, sono uno che ha passato cinquant'anni della sua vita a studiare i suoi contemporanei che, poi, siete voi, e i vostri padri, e spero anche i vostri futuri figli. Voglio dire, questa libertà di cui usiamo in uno spazio che è ancora concesso e in un mondo che ci sembra ancora quasi vivibile, questi discorsi che facciamo stasera, in questo momento, in questa città e in questo convegno, come li faremmo, come li imposteremmo in un'altra città, in un altro convegno, in un altro clima, in un'altra dimensione umana? La nostra vita è ormai planetaria. Mentre mangiamo gli spaghetti, più o meno stracotti, o precotti, vediamo chi si ammazza nel Vietnam, chi nel Ciad, chi a Beirut, chi altrove… Quindi siamo profondamente condizionati da una civiltà delle immagini, che ci allena ad un’informazione rapida, e ad un riflesso di pensiero infinitamente più lento e sovente rimandato. Questo è uno dei grandi pericoli del nostro essere in pezzi, perché noi dobbiamo, ogni sera, ricostituirci dopo il telegiornale, e più o meno assomigliamo tutti a Frankestein, e giriamo così con gli anelli nel collo e le cicatrici chissà dove. È questa la difficoltà, oggi, di essere uomo e di rispondere di sé e dei suoi, perché un uomo risponde anche dei suoi simili, familiari, figli, nonni e cosi via, avendo la certezza di una propria identità, che è difficilmente ricostruibile e difficilmente visibile in anni in cui si legge poco, si chiacchiera poco, si studia niente, si dimentica tutto. Mentre tutto è soltanto, un visivamente controllato, e quindi dimenticato, e immagazzinato in transistor memoriali che non esistono più. Io credo che dal nostro essere in pezzi bisognerebbe partire per ridarci una fisionomia più o meno riconoscibile, non eccezionale, però in piedi; noi siamo gente che può ancora fare una vita in piedi, però ce lo devono dire, dobbiamo sapercelo dire, dobbiamo comunicare in un certo modo, dobbiamo mantenere un certo linguaggio comune, non dobbiamo cedere a quelle che sono le lusinghe delle basse sociologie o anche soltanto delle vicende di un'attualità che riferisce profondamente tutti i giorni, ma che noi dobbiamo avere la forza, come linguaggio, come persona, come speranza, di scavalcare, recuperare, ricucire. Il grande sarto non è quello che inventa un vestito con 80 metri di stoffa, è quello che lo fa con due metri e un quarto, se no che sarto è? Quindi la nostra possibilità vitale è legata al fatto di ricucire i nostri pezzi. Io sono un ottimista per disperazione, perché non è possibile oggi dirsi ottimisti, altrimenti rinunciamo ad essere quello che siamo, ci sediamo e aspettiamo che chissà quale parafulmine ci dia una mano! Ma nessun parafulmine ci darà una mano, noi siamo il nostro parafulmine. Quindi io credo che è dai nostri pezzi che bisogna riparti fare i bambini quando hanno rotto il giocattolo; abbiamo rotto il giocattolo? Ripartiamo sapendo che non abbiamo - come diceva Tolstoj - una libertà autentica da difendere, ma dobbiamo scegliere anche come servire.

R. Formigoni:

Ringraziamo il prof. Arpino e diamo la parola al prof. Nando Dalla Chiesa.

N. Dalla Chiesa:

L'ultima volta che mi sono reso conto che l'uomo è in pezzi per davvero è stato oggi, quando ho preparato i questi appunti, e mi sono reso conto che era forte in me la tentazione di non essere sincero sino in fondo. Ci sono sempre dei problemi di opportunità, possibilità di fraintendimenti e di equivoci, nel presentare un'esperienza parecchio complicata e difficile. Poi ho scelto, con un atto - credo - di fiducia, di fare un'analisi la più schietta possibile, di come ho analizzato, di come ho dovuto analizzare io il problema dell'uomo in pezzi, in questa società. È ovvio che parto da un'esperienza personale particolare, e il momento in cui mi sono chiesto come mai quest’uomo vada in pezzi e attraverso quali meccanismi quest'uomo vada in pezzi, è stato dopo le vicende del settembre dell'82, che mi hanno coinvolto direttamente. In quel caso, mentre in una prima fase, il problema era di capire le motivazioni che avevano portato a un delitto, è subentrata una fase successiva, quella del tentativo di costruire qualche cosa, anche a partire da un delitto, e mi sono posto il problema, non tanto e non più diciamo, di chi potesse avere interesse a commettere un delitto, ma del perché certi delitti possano essere commessi. Il discorso è che la violenza è in qualche modo ineliminabile da una società. Quello che mi sembra un dato nuovo, molto pericoloso nella società italiana di oggi, è che questa violenza può essere gestita con molta disinvoltura, e che quindi non si tratta soltanto di capire chi opera la violenza, ma perché questa società accetta la violenza, e ha un notevole grado di assuefazione alla violenza, perché il mio convincimento è che sia questa assuefazione che incoraggia al delitto. E chiedersi quindi il perché di questa assuefazione, come si produce, è sicuramente un terreno obbligato, per fare il vuoto intorno alla violenza. E qui si è posto il problema dell'identità dell'uomo, e della totalità, dell'integrità dell'uomo. Il mio convincimento è che questa totalità, questa integrità, venga in effetti spezzettata, sminuzzata. E vi faccio alcuni esempi, di come l'accettazione della violenza passa attraverso questo meccanismo; fare l'uomo a pezzi, per poterlo gestire, per poter gestire il delitto. C'è una prima linea di scomposizione, che è molto importante, e che è quella fra il sentimento e la ragione. Quello in sostanza che si cerca di far passare è che queste due dimensioni siano fra di loro incomunicabili, che se un familiare di una vittima fa una denuncia, parli pure con il sentimento o con la ragione, ma le due dimensioni non possono stare insieme. Allora, in un caso abbiamo il sentimento che non comunica con la ragione, ed è il figlio pazzo dal dolore che parla o - come è successo in altri casi - la moglie che è resa pazza dal dolore che parla, ad è quindi del tutto incredibile. Nell'altro caso abbiamo la ragione che è priva del supporto del sentimento, e quindi è la ragione peggiore, la ragione può arrivare fino alle sue conseguenze più abbiette, quindi la ragione che si trasforma in speculazione politica, e il sentimento non esiste più. In questo caso, io affermo che sentimento e ragione vanno di pari passo, che il sentimento dà una spinta impensabile a ragionare, a servirsi della propria intelligenza, e che esiste una linea di continuità tra l'una dimensione e l'altra. Il tentativo che viene fatto, di conseguenza, e ho visto che il mio caso non è comunque stato l'unico, è quello di separare queste due dimensioni, per dare spazio alla ragione di altri; il sentimento viene quindi confinato nelle sue manifestazioni per così dire istintive, sono le manifestazioni del dolore, del giorno dei funerali, dei giorni dopo, poi la vittima non ha più nulla da dire, perché è sprovvista di ragione, o se fa funzionare la ragione, è troppo lucida, e questo vuol dire che non c'è il dolore. Ecco, questa alternativa che è posta in modo così brutale, ma è posta effettivamente attraverso la stampa, attraverso dichiarazioni di uomini politici di prestigio, questa alternativa posta in questi termini è uno strumento formidabile per fare l'uomo a pezzi, per privarlo della sua totalità, ed è un elemento altrettanto formidabile di gestione a livello di opinione pubblica dei delitti. Una seconda forma di scomposizione: la famiglia, la propria storia, o il proprio lavoro o la propria professione. Io molte volte sono stato sollecitato: o fai il sociologo, o fai il figlio del generale Dalla Chiesa. Non puoi fare l'uno e l'altro contemporaneamente. E perché? Quindi per analizzare quello che è successo io non posso utilizzare gli strumenti scientifici di cui dispongo, la mia attività e i miei studi, la conoscenza che ho di una certa società, o di come è andato organizzandosi il potere nella società italiana del decennio '70, di come funziona il rapporto fra economia, società e cultura; questo non lo posso fare? Posso parlare appunto solo come figlio del generale Dalla Chiesa; oppure come sociologo, e taglio ogni legame con la mia esperienza familiare. Anche questo aut-aut ho ritenuto che dovesse essere respinto, e pero mi sono reso conto che questo aut-aut funzionava, si pretendeva di farlo funzionare. Ancora; una terza forma di scomposizione che, secondo me, è quella che indica in modo più probante la barbarie che si associa alla violenza, è quello della frattura che si pretende di istituire fra uomo e vittima, o vittima, o familiare della vittima. La vittima opera in relazione ad uno statuto che è tutto suo; colui che è vittima, o colui che è familiare della vittima, non può essere uomo; gli vengono preclusi una serie di comportamenti, una serie di prese di posizione, che sono del tutto legittime per gli uomini politici, per gli intellettuali, per i giornalisti. Ma tendenzialmente a lui sono inibite queste prese di posizione. Io ho potuto vedere, ricordo un fondo che venne pubblicato su uno dei maggiori quotidiani nazionali in cui, in margine alla polemica sugli intellettuali, quello che si diceva era questo: "Il grave di questa polemica, è che essa ricalca un modulo che si è affermato in questi anni: che le vittime vogliono protestare, che le famiglie delle vittime vogliono protestare. E noi dobbiamo trarre una lezione da questo - si diceva - cioè non dobbiamo trarre una lezione da quello che ci vediamo passare tutti i giorni sotto gli occhi, del sangue che scorre sotto i nostri occhi tutti i giorni, non è da lì che dobbiamo trarre le lezione che dobbiamo trarre, è dal comportamento dei familiari delle vittime, che si rifiutano di stringere le mani alle autorità. È il momento di dire basta a questo atteggiamento delle vittime, le comprendiamo, però non possono pensare di farla da protagonisti, di ribellarsi alla società; ecc. ecc." E questo traduce limpidamente, un moto di origine barbarica, che è "guai ai vinti!", cioè "non protestate!". Mentre il protestare, il contestare, il criticare, e un comportamento del tutto legittimo per un cittadino. Dal momento in cui questo cittadino diventa vittima, certi comportamenti gli sono inibiti. Un'altra forma di scomposizione: nella società siamo una serie di individui, che sono legati fra di loro da dei rapporti, però l'esperienza individuale e l'esperienza collettiva, rimangono due cose distinte. C'è una sorta di fastidio per l'esperienza individuale. Se l'uomo o la condizione degli uomini, segnala decisivamente la qualità di un sistema sociale, io credo che dobbiamo conoscere le esperienze personali, e esse devono fare parte del patrimonio collettivo. Anche su questo, ho letto - non solo con riferimento alla vicenda che mi ha coinvolto - diversi interventi, in cui si canzonavano coloro che subiscono delle tragedie e scrivono dei libri, perché si diceva: "non se ne può più... il padre ha la figlia drogata e scrive un libro sull'esperienza che ha fatto. L'altro ha il figlio handicappato, e scrive un libro sull'esperienza che ha fatto. Adesso tutti coloro che hanno delle disgrazie ci scrivono sopra dei libri!". E i pezzi di questo tipo finivano naturalmente in ironie molto leggere, che potete immaginare. Io dico il contrario, cioè che le esperienze individuali diventino patrimonio di tutti. Coloro che hanno delle esperienze individuali da raccontare che le raccontino, perché è solo attraverso questo che una società può riflettere su se stessa, non soltanto attraverso la macro-sociologia. Esiste una micro-sociologia che studia i rapporti individuali, le condizioni di vita individuali, che è uno specchio - forse ancora più fedele - delle condizioni di vita reali di una società. questo tentare di scorporare, di sconnettere la dimensione del singolo dal sistema sociale, che favorisce la scarsa capacità di una società di riflettere su se stessa e di riflettere su delle esperienze individuali molto importanti. È infine questa scomposizione tra la vita propria e l'esperienza di vita propria e le idee che si hanno degli altri. Io rimasi colpito, una volta, andando ad un incontro dei Cattolici Popolari a Seregno, nel raccontare la mia esperienza insieme a quella di alcune altre persone, ed erano passati 6 mesi dal settembre dell'82, dal fatto che dopo l'incontro, un cronista cattolico venisse da me, a dirmi: "Io mi sono reso conto stasera che soffri davvero!". Lì per lì la frase mi fece anche piacere, perché pensai che, in definitiva, avevo sconfitto un pregiudizio; però tutta la notte ci pensai, perché il problema è questo: ma è possibile che soltanto perché ho delle idee diverse dalle tue, tu pensi che le mie esperienze di vita, possano essere totalmente diverse dalle tue, e che quindi - siccome ho delle idee diverse dalle tue - io non soffra, se mi uccidono il padre? E quindi tu sia legittimato a pensare o a giudicare il mio comportamento a prescindere dal fatto che possa soffrire! Eppure la tua esperienza di vita ti dovrebbe dire che in questi casi si soffre! Ecco, vedete che ci sono una serie di meccanismi che operano potentemente dentro la formazione dell'opinione pubblica, che fanno in modo che l'importanza, il valore della violenza venga annacquato, in qualche modo che la società si abitui a metabolizzare questa violenza, scaricando la sua incapacità di riflettere su coloro che la subiscono. Questo, secondo me, è un dato molto importante. Io ho elencato soltanto alcune forme, che ho potuto verificare direttamente, in cui si manifesta quest'uomo in pezzi, e a che cosa è funzionale quest'uomo in pezzi. È in atto una regressione antropologica; a mio avviso questa assuefazione è un indicatore e una spia molto efficace, di una regressione antropologica, di un Potere criminale, che si è largamente e gradualmente accresciuto dentro l'area del potere, senza peraltro identificarvisi, coincidervi, ha bisogno. E c’è un rapporto di parallelismo: man mano che certi comportamenti o certi atteggiamenti crescono, questo potere criminale può operare sempre di più, e per operare sempre di più ha bisogno di utilizzare tutti i canali che sono a sua disposizione per aumentare i gradi di assuefazione della gente, e per questo il rientro nel privato, il disimpegno nel confronti dei problemi della società, non serve a nulla, non significa tirarsi al di fuori di questa società, ma significa invece incrementare, moltiplicare i canali attraverso cui questa regressione antropologica riesce a passare. Questa è una società dove vengono schiacciate, secondo me, o si tende a schiacciare la ragione, cioè la volontà di capire, la speranza, nel senso che si cerca di legittimare il disimpegno, e anche la memoria collettiva. Molte volte certe cose possono essere gestite fidando sul fatto che non ci si ricordi, ed in questo modo si mina la storia, l'identità della nostra società. Se è vero che questo processo complicato è in corso, però, se devo fare appello alla mia esperienza, devo dire anche che ci sono delle possibilità di riduzione a unità di quest'uomo. Io credo che l’uomo abbia delle grandi risorse, e quindi lo scontro fondamentale che si gioca nella società italiana, lo scontro che sta alla radice di processi politici e culturali che, secondo me, si leggono soltanto in superficie, è uno scontro che ha al suo centro l'uomo, la dignità della condizione umana. L'uomo ha grandi risorse; io stesso, certe volte, mi chiedo da dove ho tratto in momenti difficilissimi e amarissimi la forza per andare avanti, di discutere con la gente; e devo dire che se molte amarezze ho avuto, ho incontrato anche tesori di umanità nei posti per me più impensati. Questa è una società che sprigiona delle energie, non sono uccise queste energie. Ci sono dei forti tentativi di comprimere la capacità di ragionare, e anche la volontà di sperare, la passione per la speranza. Questi ci sono; ma c’è una incomprensibile, e - lasciatemelo dire – questa linea di resistenza passa proprio attraverso la dimensione umana. Ora probabilmente su questo non siamo tutti d’accordo; ma il mio convincimento è che le verità più brutali, le verità più sgradevoli, le verità che non ha detto nessuno, in questa società le abbiano dette la moglie di Moro, la moglie di Calvi, e i figli di Dalla Chiesa. Si è detto che erano pazzi. Allora io faccio, nel 1983 l’elogio della follia, ma soprattutto faccio l'elogio della famiglia, perché la famiglia è stato il baluardo, la linea di resistenza che la politica non è riuscita a comprimere. Cioè lì si è arenato il rapporto fra politica e uomo. Su questo io avrei alcune riflessioni da fare, aggiuntive, finali. Noi ci troviamo in una situazione in cui è vero è difficile distinguere dove sta il bene e dove sta il male. Nei dibattiti che ho fatto e soprattutto negli incontri con aree di opinione pubblica di ispirazione cattolica, devo dire che alcune volte sono rimasto perplesso di fronte a delle affermazioni del tipo "il male è in tutti noi". È vero che in tutti noi c’è il male e c’è il bene, ed è vero che ciascuno di noi è esposto all'errore e sbaglia, però credo che non dobbiamo fare delle operazioni di omologazione generale dei comportamenti. Ci sono dei comportamenti che vanno distinti dagli altri; ecco un motivo, per esempio, della mia polemica con Sciascia. Perché attraverso la critica all'operato di mio padre, non si sa più dove è il bene e dove è il male, è difficile capire dove è il bene e dove è il male. E allora la gente perché deve ricercare la verità? Perché deve battersi, perché deve impegnarsi, se non si sa dove è il bene le dove è il male? Certo che mi ribellai, perché lì era evidente che non si poteva ragionare in quel modo: c'era un uomo che era morto per lo Stato, e c'erano quelli che lo avevano ucciso per il denaro. Non si poteva dire: "non sappiamo dove sta il bene e dove sta il male". E credo che da questo punto di vista, un tentativo di riflessione approfondito sia necessario, perché mi sembra che un certo cattolicesimo e un certo laicismo, concorrano - anche attraverso delle formulazioni diverse - a incoraggiare degli atteggiamenti di scetticismo. Ripeto, è difficile ricercare la verità; ma questa secondo me - va ricercata e il bene e il male rimangono due dimensioni che possano anche entrare in contatto, dal bene può nascere il male e dal male può nascere il bene, però dobbiamo avere la capacità, in certi momenti, di distinguere l’uno dall’altro, per orientare l’impegno nostro, l'impegno quotidiano. E da questa parola impegno trarrei spunto per un’ultima riflessione. Secondo me sono maturi i tempi, in Italia, per una profonda ridefinizione del sistema politico e culturale, molto, più profonda di quello che si pensi. Perché se è la dimensione dell'uomo, se è la dignità della condizione umana che, mutuando una frase dal linguaggio musicale, devono diventare il centro di gravità permanente della politica, se questo è vero, allora anche tutto il nostro modo di concepire il sistema politico, la geografia politica e culturale, deve cambiare. E credo che siamo alla vigilia di importanti cambiamenti. L'unità si può trovare su questi punti cardinali, come l'impegno, la verità, la speranza, e l'uomo. Io sono reduce da una lettura di quel romanzo di Silone "Vino e pane" che è probabilmente, dal punto di vista letterario, meno bello di "Fontamara", però da un punto di vista intellettuale è più complesso; e lì viene fuori nei momenti di crisi del protagonista, la necessità di riflettere non tanto sulle ideologie che possono falsamente dividere o falsamente unire, ma di riflettere invece comunemente sul senso che è da dare e da attribuire alla propria esistenza. Ecco, questo punto io credo che possa essere la boa, il punto di riferimento, la stella polare della nostra azione; e credo che la grande sfida di fronte a cui ci troviamo sia proprio questa: costruire, in una società secolarizzata, la politica sui valori. E il fascino della sfida che ci sta davanti è esattamente questo: di produrre delle innovazioni politico-culturali di grande respiro e di grande coraggio, non per andare alla ricerca di chissà che cosa, ma per dare attuazione a dei valori che sono antichi quanto l'uomo. Grazie.

R. Formigoni:

Grazie anche a Nando Dalla Chiesa per il suo intervento. A questo punto, io vorrei cercare di fare pronunciare ancora un pochettino i nostri tre relatori. Le testimonianze che abbiamo ascoltato sono state molto chiare, sul primo punto che avevamo posto come interrogativo. Questa frantumazione c'è, l'uomo è a pezzi. Questo è stato documentato spesso in modo drammatico, ma forse l’accordo su questo punto era facile da prevedere. Un po' più sorprendente, ma felicemente sorprendente, è forse l'accordo sulla possibilità che tutti e tre i nostri relatori hanno sottolineato: che da questa situazione di crisi, di difficoltà, si può uscire. Io mi sono segnato tre espressioni in particolare: Borgna all'inizio parlava di desiderio d'amore, diceva: "la frantumazione dell'uomo dentro se stesso rimanda sempre a un desiderio di unità". Anche nelle situazioni più gravi, dunque, c’è questo desiderio di unità, di amore, di ricomposizione della persona. Arpino diceva: "dall'essere in pezzi dobbiamo ripartire, perché è possibile fare una vita in piedi", e dava - mi sembra - una dimensione profonda di realismo a questo fare la vita in piedi, una dimensione che, personalmente, ho molto apprezzato, quando diceva che c'è la difficoltà ad essere uomo integrale, a rispondere del proprio compito e delle proprie cose, ma che è necessario fare. Nando Dalla Chiesa sottolineava ad abundantiam come ci sono, anche nelle situazioni più difficili, le possibilità di ricondurre all'unità; l’uomo ha le risorse, le energie, (il Meeting dell'anno scorso e proprio stato dedicato alle risorse dell’uomo), per uscire da questa situazione. Io avrei qualche domanda da fare ai nostri ospiti. Comincerei dal prof. Arpino, se è d'accordo. La domanda è questa: dunque è possibile uscire da questa situazione di frantumazione. Vorrei chiederle come, che cosa si può fare? Lei si è dichiarato ottimista, ha detto che non è possibile non essere ottimisti. Allora come si fa a rimettere insieme questi pezzi d'uomo che ci sono? Lei parlava di meccanico, di garagista. Il meccanico lavora secondo un progetto, qual é il progetto con cui rimettere insieme questi pezzi? Vorrei rivolgere la domanda proprio personalmente: Che cosa può fare lei? Che cosa posso fare io secondo lei? Che cosa può fare uno di noi che è qui stasera al Meeting?

G. Arpino:

Noi siamo uno strano Popolo, uno strano miscuglio di popoli. Prendo questo popolo particolare che risale a quasi 30 armi fa, che spiega molto del carattere degli italiani. Nel 1944, nel pieno di una guerra e di una resistenza, di una persecuzione forsennata, di una fame che non finiva più, nella provincia di Cuneo, che è nota, statisticamente, per il maggior numero di suicidi, non ci fu un suicida. Perché la miseria, la fuga, la paura, erano tali per cui non avevi tempo di pensare a sopprimerti, ma dovevi impegnarti a sopravvivere. Ora, il nostro è un popolo che viene unito sempre dalle calamità e dalla miseria. Allora c'è la grande sottoscrizione per il Friuli, c’è la grande sottoscrizione per il Sud, per il terremoto, per le slavine, per i disastri, per poi dilaniarci, fraternamente, "fratelli-coltelli", appena le cose vanno un pochino meglio. Ora, questo è un salto culturale da fare, è tutto lì. Quindi il procedimento è sempre quello: insegnare qualche cosa in più, cosa che questa assemblea sta facendo in questa settimana, che altre assemblee faranno, a modo loro, più o meno strumentalizzate o no, in altro modo, cosa che personalmente ciascuno di noi deve fare, perché certe volte basta una parola per tirare via uno dal balcone mentre sta buttandosi di sotto, dato che non c'è la miseria, e certe volte basta un sorriso per capire determinate situazioni umane. Io credo che in una penisola abitata da 40 popoli diversi che hanno in comune soltanto alcuni avverbi, qualche verbo, qualche aggettivo, e alcune altre cose blasfeme, credo che in questa penisola, proprio l'impedire una babele linguistica e contribuirvi personalmente nell'ambito del proprio lavoro, mentre si sale sul tram, mentre si discute, mentre si telefona, mentre si interpella qualcuno davanti a un botteghino della Stazione, già questo sia realizzare un grado superiore di civiltà, che è sempre un grado superiore di cultura. Questa è una cosa che, purtroppo, le medie uniche non ci hanno dato. Noi siamo un paese di gente che, ormai, sa fare la firma ma è molto più analfabeta di prima. Questa è una profonda verità italiana; ciascuno oggi può firmare la propria cambiale, con il proprio nome anziché con luna croce, ma la cambiale è sempre lì quindi va riconosciuta se si chiama Brambilla, Pautasso o Venegoni. Quindi questa è una cosa da studiare. Io credo che bisogna essere ottimisti perché abbiamo ancora l'età per esserlo; se non siamo noi, di queste generazioni più o meno intermedie, possiamo benissimo passare alle prossime non un bastoncino della staffetta, ma soltanto un fiammifero spento. Credo che bisogna impegnarsi in questo lavoro, e ciascuno si impegna per quello che sa fare, dal lattoniere al capostazione. Bisogna impegnarsi in quello; non c'è bisogno di avere dei carismi in più; non c'è bisogno di trasformare ogni incontro in un comizio; non c'è bisogno di trasformare ogni testimonianza in un saggio; non c'è bisogno neppure, se mi permettete, e mi sento anche corresponsabile, di chiacchierare troppo. Io credo che il fare, ormai, sia molto più serio e indispensabile, del chiacchierare.

R. Formigoni:

Prof. Borgna, gli studi fatti da lei e dai suoi colleghi sull'animo umano che strumenti danno, che aiuti danno per la ricostruzione dell'unità dell'uomo? Ma, ancora più al profondo - perché credo che questo sia un tema interessante - che aiuto possiamo avere dalla scienza, in particolare dalla scienza di cui si occupa lei, per aiutare noi stessi o più probabilmente altri, nella ricostruzione di questa unità? Ma ancora: sono sufficienti gli strumenti scientifici, gli aiuti tecnici, i ritrovati della scienza, o occorre - per ricostruire l'unità dell'uomo - qualche cosa di più? E in questo caso, che cosa occorre? Qual è il soggetto che può rimettere insieme i pezzi dell'uomo?

E. Borgna:

Questa interrogazione sottintende, io credo, livelli diversi di risposta, essendo una interrogazione fondamentale e radicale sul tema del quale discorriamo. Ad un primo livello, per la comprensione di quella che è la vita umana e psicologica che si muove in ciascuno di noi, occorrono da una parte, in qualche modo, attitudini essenziali più o meno presenti, più o meno vive, più o meno radicate in ciascuno di noi, attitudini che in fondo si possono anche circoscrivere e ridurre nel contesto di quelle che sono le virtù. Usiamo una parola molto antica, molto logorata cui però ad esempio Romano Guardini dava un'importanza enorme. Nessuno riesce ad entrare nel cuore dell'altro, se nel cuore del medico o di chiunque, del politico come dell'insegnante, ci sono indifferenza, ci sono orgoglio, ci sono presunzione, sopraffazione, indifferenza, aggressione, mancanza di carità, mancanza di speranza. Sono parole molto semplici queste, ma sono comunque la premessa, la condizione fondamentale perché possa poi avere luogo qualunque discorso più complesso, più articolato, di scienza psichiatrica, anche se la psichiatria, come la psicologia, non sono scienze della natura, non hanno a che fare con realtà immote, senz'anima, sono scienze dell'uomo, non sono scienze esatte, non procedono secondo gli schemi ed i canoni delle leggi matematiche o geometriche, ma procedono secondo leggi che sono, molto spesso, subordinate all'intervento della intuizione e non già della semplice ragione fredda e calcolante, astratta e gelida, dall'intervento di quelle che Pascal chiamava "le ragioni del cuore". Dunque, non ci può essere scienza dell'uomo, né scienza psichiatrica, se non c'è questa premessa, che in fondo è fatta, ed io credo di poterlo dire, in un ambiente come questo, ma non solo in ambienti come questi. Ovunque si faccia un discorso scientifico serio, non si può prescindere da queste categorie, che sono le categorie cristiane, che possiamo in fondo riassumere con la parola "amore" o "carità". Ad esempio, il testo fondamentale della psichiatria scientifica di questi tempi è un libro di uno psichiatra svizzero, Ludwig Benswangher, il più grande psichiatra che sia esistito in questi 80 anni, enormemente complesso, carico di un'enorme scienza - sia culturale come filosofica, ma anche soprattutto psichiatrica - dedicato semplicemente all'amore. Seicento pagine dedicate a come l'amore sia una categoria fondamentale ed essenziale, non solo nei contatti umani, non solo a correggere iniziative e movimenti come questi, che voi testimoniate e che voi realizzate con questo ardore e con questa tagliente capacità di donazione, ma anche come struttura portante e fondamentale, per poter conoscere gli altri, per poter dunque fare della psichiatria, e non per fare della filosofia. Certo, amore è essenziale anche per questo, ma l'amore è essenziale per fare della psichiatria perché senza amore io non riesco a cogliere niente dell'altro, senza l'amore l'altro - qualunque sia la sua capacità di apertura - tende a chiudersi come un riccio, come una roccia. Quella che è l'invisibile trasparenza del cuore, si irrigidisce e si oscura, diventa pietra gelida, quando di fronte a sé trova l’indifferenza; la noia, che in fondo sono le negazioni emblematiche dell'amore. Non potrei quindi avviare un discorso scientifico in ordine al problema che mi è stato posto, se non ribadissi sino in fondo come senza questa struttura portante, senza l'amore, senza la charitas (usiamo questo termine paolino, che del resto è un termine che ha una sua enorme significazione psicopatologica e umana) noi non riusciamo a capire gli altri. Ciascuno di noi, non dimentichiamolo, porta sul suo volto una maschera, più o meno profonda, che non è certo la maschera nietzschiana, ma che è una maschera della quale - molto spesso - non siamo nemmeno consapevoli, noi sani, e noi che - almeno per ora - ammalati non siamo, ma che potremmo diventarlo. Questa maschera ci nasconde nei confronti degli altri, ci nasconde anche nei confronti di noi stessi, nei confronti di quella che è la nostra profonda unità, o la nostra profonda dissociazione. Bene, non si penetra al di là di questa maschera, non si riesce a fare cadere questa maschera di ghiaccio, se non c'è l'amore che riesca a portare questa luce di speranza, ma anche luce di profonda, incandescente capacità di trasformazione. Sono cose queste ripeto, che non sono solo io a dire, ma che sono testimoniate da questi testi che hanno una loro assoluta capacità di rigore scientifico, e quindi non ipotecati nemmeno da una fede religiosa, perché quella di Benswangher non era fede religiosa e cattolica, era certo fede: come probabilmente Croce diceva "non possiamo non essere cristiani", anche Benswangher ha scritto "non posso non essere cristiano", anche se in fondo dicendo questo non si escludeva - io credo - dalla comunione dei santi, perché in qualche modo anche chi dice questo partecipa in maniera più o meno profonda, al significato vero ed ultimo dell'essere cristiano. Ora, questa è la premessa essenziale senza la quale non si può non dico fare psichiatria, ma conoscere gli altri; quanti sconosciuti ci sono dentro di noi! Noi incontriamo famiglie intere, ad esempio, che, giunte alla fine della loro vita, sono composte di genitori e di figli, legati magari da affetto sincero, ma profondamente ignoti, profondamente sconosciuti, gli uni e gli altri. Un’intera esistenza passata sul segno segreto, misterioso, ma anche molto triste, certo, molto doloroso, dell'inconsapevolezza, del non sapere, del non riconoscere l'identità profonda, del non saper cogliere - al di là di quella che è l'apparenza, al di là di quella che è la maschera - l'identità profonda, il richiamo di amore e di speranza, l'angoscia o la tristezza. Questa è una delle esperienze più terrificanti che noi facciamo, ma molto spesso noi facciamo di queste esperienze, perché anche dietro alle famiglie che sembrano essere portatrici di emblemi, di rigore, di circolarità di idee, dentro a queste famiglie noi troviamo invece il gelo dell'inverno, il deserto. Ed è poi questa una delle ragioni fondamentali, in fondo, per cui si può poi scivolare dentro quella terribile metafora dell'autodistruzione e del suicidio, che è ad esempio la tossicomania. Ora questa è la premessa essenziale. Poi, certo, si può passare ad un livello molto più tecnico, infinitamente meno rilevante sul piano culturale e sul piano semantico, cioè filosofico, ma altrettanto importante dal punto di vista pratico purtroppo non c'è formazione psicologica dei medici. Noi siamo il solo Paese in cui la psicologia viene insegnata in due facoltà, che sono aggregate alla Facoltà di Magistero e non a quella di Medicina; noi siamo il solo Paese dell'Europa occidentale, anche di quella orientale in cui manca al medico una qualunque reale formazione psicologica. Ora, anche nel gesto del medico c'è sempre qualche cosa che va al di là del puro intervento tecnico, del puro intervento chirurgico. Nel momento in cui un medico si presenta ad una persona che chiede il suo aiuto, se questo aiuto è di natura psicologica la cosa si fa drammatica e si fa estremamente acuta ed estremamente straziante, ma anche quando un paziente soffre di un'ulcera - ad esempio - oppure soffre di un'asma bronchiale, oppure soffre anche di un diabete (come purtroppo avviene oggi abitualmente, perché questo è il sigillo della medicina italiana), quando il paziente vien colto, vissuto, analizzato, tagliato e sezionato, utilizzando le sole categorie mediche, quel paziente non guarirà mai, perché diabete, asma bronchiale, e moltissime altre malattie apparentemente organiche (e anche qui è l’apparenza che copre l'essenza) hanno origini psicologiche, hanno una profonda angoscia talora radicata nell'interno, nel cuore, alla loro radice e alla loro insorgenza. Questo è un secondo livello certo essenziale per un movimento come questo, che mi pare che cerchi di cogliere anche quelle che sono le incognite della vita, quelle che sono le contraddizioni e le lacerazioni, ma anche quelle che sono le grandi aperture metafisiche, insieme con le aperture che sono altrettanto significative, anche se si pongono su di un piano di intervento così alto. Ora, ecco, per rispondere (o per concludere) alla domanda che mi è stata fatta, non sarà possibile conoscere gli altri se anche dal punto di vista istituzionale non nasce una riflessione radicale su quello che significa oggi fare medicina in Italia, non solo fare psichiatria in Italia, o fare psicologia in Italia. Penso che uno dei grandi significati che nascono da questo Meeting, incentrato in fondo in questa contrapposizione fra natura, macchina e uomo, possa essere anche una ricerca comune delle cose che possano essere fatte perché questa distinzione venga ad essere colta nella sua significazione più profonda, ma possono anche essere proposte ragioni di riforma e di reale trasformazione del reale. Ora, ripeto, sino a quando la medicina continuerà ad essere com’è in Italia, murata dentro una concezione materialistica, organicistica, per cui c'è soltanto una struttura organica, non c’è in fondo dimensione dello spirito, non c'è dimensione della vita psichica, perché queste due dimensioni, retaggio dal punto di vista filosofico dell'idealismo crociano, e poi mutuato in parte, almeno in parte, da certo marxismo, queste due dimensioni lo spirito e la vita psichica, sono letteralmente cancellate, in gran parte dalla vita accademica, senza dubbio dalla coscienza di coloro che fanno non solo e non tanto psichiatria e psicologia, ma anche solo medicina. Grazie.

R. Formigoni:

Grazie, e ora una domanda anche a Nando Dalla Chiesa, che ha detto – in apertura del suo intervento – di volersi giocare particolarmente in maniera personale, e lo ha fatto. Dalla Chiesa, tu lo sai, la tua presenza qui stasera non è casuale, come non è casuale la presenza di nessuno degli altri due relatori, e di nessuno delle persone che invitiamo al Meeting, perché abbiamo questa presunzione, di invitare a parlare al Meeting solo quelle persone, anche di diversa area culturale e opzione religiosa, che ci hanno in qualche modo toccato, colpito, che hanno detto qualche cosa alla nostra esperienza ed alla nostra riflessione. La tua presenza non è casuale, anche perché (e non sto rivelando nulla di nuovo, perché l’hai detto tu in un'intervista recente), il rapporto fra te e noi è incominciato perché tu sei venuto a cercarci, hai avuto questo coraggio, di venire da noi, e noi abbiamo avuto - credo - l'intelligenza di ascoltarti. E poi è scattato qualche cosa, la percezione di una passione comune per qualche cosa che via via doveva definirsi. Stasera tu, in conclusione del tuo intervento, hai fatto una sottolineatura che trovo estremamente importante: quando hai detto che è difficile ricercare la verità e il bene, ma è necessario. È necessario ricercare la verità e il bene, è necessario dire "no" allo scetticismo. E poi ho notato (e su questo sono profondamente d'accordo con te) che c’è tanta falsa cultura che invece aiuta lo scetticismo, ci sono tanti mediocri uomini religiosi, e tanti mediocri o faziosi uomini non di fede, che aiutano lo scetticismo ed aiutano la incomprensione reciproca, fra chi ha fede e chi non l'ha. Io volevo semplicemente, anche se mi rendo conto che la domanda potrebbe sconfinare molto nel tempo, volevo chiederti di approfondire questo aspetto della ricerca della verità e del bene. Che cosa vuol dire per te, nella tua traiettoria, ricercare la verità e il bene? Come la verità e il bene aiutano l'unità dell'uomo? Io sono convinto questi due aspetti che hai toccato, la verità ed il bene, siano due elementi fondamentali, se si vuole ricostruire effettivamente l'unità dell'uomo, se si vuole aiutarlo effettivamente a vivere la libertà, perché è libertà, è identità, se è in rapporto ad una verità e a un bene, anche se questa verità e bene possono rivelarsi, possono essere alla fine di una ricerca lunga che si vuole fare. Se vuoi dirci qualche cosa su questo, grazie.

N. Dalla Chiesa:

Io direi che anche la verità il bene poi vanno riferiti a qualche concetto. Cioè se noi poniamo al centro la dignità della condizione umana, o poniamo al centro l'uomo, la ricerca della verità va fatta in relazione allo sforzo di dare all'uomo una dignità sempre maggiore nella società. E io posso fare un esempio che tocca la mia esperienza culturale passata e recente. La ricerca della verità, secondo me, è difficile, e apre delle lacerazioni. Ed io credo che ce ne sia bisogno per tutti, di cercarla anche quando è scomoda. E faccio due riferimenti, su cui ho dovuto verificare la mia capacità di ricercarla (la mia e di chi la pensava come me) e sono tutte e due legati alla storia del movimento comunista. La prima è cercare questa verità fondamentale: qual è la condizione dell'uomo nelle società dell'Est; la seconda è che rapporto c'è fra l'ideologia comunista e l'esperienza del terrorismo in Italia. Sono due questioni su cui, secondo me, la volontà di ricercare la verità è stata messa a dura prova. E infatti non è una ricerca che sia andata avanti linearmente, ed in cui si è manifestata una grossa reticenza a ricercare questa verità. Secondo me, questi sono due esempi illuminanti, del fatto che comunque la verità va ricercata. Per questo dico che questa ricerca va comunque finalizzata ad un altro scopo, ad uno scopo superiore, che è quello di realizzare una migliore condizione di presenza dell'uomo, e di vita dell'uomo nella società. chiaro che uno la verità non se la deve tacere, la deve cercare, ostinatamente, non deve accusare coloro che vedono quella verità di speculazione, di faziosità. E questo è stato l'atteggiamento che, per esempio, da parte del movimento comunista si è tenuto, sia per chi accusa i Paesi dell’Est di essere delle dittature, e di realizzare una compressione della dignità dell'uomo, sia per coloro che accusavano il terrorismo di avere qualche rapporto non organico, di filiazione organica, ma comunque qualche rapporto discendenza dalla ideologia comunista o dal marxismo-leninismo. Ecco, credo che questo atteggiamento di ripulsa delle critiche altrui laddove le regole della politica appunto facevano totalmente aggio sulla ricerca della verità, ecco, questo atteggiamento credo sia stato nocivo per il complesso della società italiana, e che nel momento in cui questa ricerca è andata avanti, la società italiana ne abbia tratto soltanto dei giovamenti. E questa era anche la cosa di cui parlavamo oggi pomeriggio, cioè io credo veramente che ci sia una fase in cui le regole della politica devono essere smontate; non possono essere loro a dominare la ricerca della verità.

R. Formigoni:

Io sono convinto che è desiderio, sarebbe desiderio di molti fra di noi, poter proseguire l'incontro di questa sera e poter proseguire il dialogo, il confronto, con questi tre nostri amici. Dobbiamo purtroppo terminare qui l'incontro di questa sera, che mi sembra abbia dato importanti e numerosi spunti di riflessione, sia personale, sia comune. Un dibattito che ha fatto fare passi avanti all'itinerario del nostro Meeting, anche perché chi ha parlato questa sera ha accettato di mettersi in gioco fino in fondo, di mettersi in gioco senza rete sotto. In particolare di questo ringraziamo Borgna, Arpino e Dalla Chiesa, con la volontà che l'incontro prosegua.