I bambini nell'emergenza

Venerdì 25, ore 11.30

Relatori:
Mino Damato,
Giornalista, Sostenitore di un progetto in favore dei bambini ammalati
di Aids in Romania
Teresa Bello,
Missionaria Saveriana in
Sierra Leone
Lucia Castelli,
Volontaria in Rwanda
Guido Bertolaso,
Vicedirettore UNICEF

Damato: Mi si chiede di raccontarvi della mia esperienza personale e del mio lavoro in Romania. Il mio lavoro è molto particolare, perché pur non avendo mai fatto il muratore o l'idraulico, sto imparando giorno dopo giorno a fare anche questo come un piccolo contributo personale e manuale per portare avanti la nostra realizzazione in Romania. Ho fatto l'inviato speciale per molti anni, e alcune delle mie rughe non sono dovute soltanto alla età, ma alle esperienze che ho fatto e soprattutto ai bambini che ho incontrato, bambini a cui avrei voluto dare molto di più di quello che ho potuto dare di volta in volta. Qualche volta ho dato una mano, un aiuto per una cura, però ognuno di questi bambini ha lasciato una ferita profonda.

Il lavoro di giornalista, oggi un po' screditato, è una di quelle professioni che ti portano in giro per il mondo come se tu avessi una macchina del tempo. Prendi un biglietto aereo, vieni proiettato in una realtà che in poche ore devi cercare di raccontare agli altri, poi ti allontani da quelle sofferenze quasi alla velocità della luce, riprendi il tuo aereo e ritorni a casa. E pian piano, ferita dopo ferita, diventi come un reduce: tutte queste storie, tutte le persone che hai incontrato, tutti questi bambini che non hai potuto aiutare, in fin dei conti sono rimasti dentro di te.

Nell'1989, caduto in Romania il regime di Ceaucescu, i giornalisti che sono arrivati sul posto hanno scoperto una pentola di orrori. Uno degli orrori riguardava proprio i bambini: decine di migliaia di bambini abbandonati negli orfanotrofi, migliaia di bambini ammalati, centinaia di bambini colpiti dall'Aids; eppure non c'erano rapporti a rischio, eppure non era ancora arrivata la droga, non era ancora arrivata quella corruzione che sicuramente con l'apertura delle frontiere è arrivata oggi in Romania. Emerse così l'assurdo di una pratica che voleva l'iniezione intramuscolare di un centimetro cubico di sangue, per eliminare da migliaia di bambini l'anemia, dovuta a condizioni ambientali e dietetiche assurde: non esisteva il latte, i bambini avevano un unico pasto alla giornata, una specie di biberon con una brodaglia indefinibile.

Nel gennaio del 1990 per la prima volta anch'io sono andato in Romania e ho visto che cosa era una epidemia di Aids: uno spettacolo indimenticabile, nessuno entrava negli ospedali, i bambini venivano abbandonati per giorni interi tra i loro escrementi, il loro lenzuolo era un sacco di spazzatura nero. Mia figlia Andreia, l'ho incontrata proprio in un reparto del Victore Babesch di Bucarest, tra cento bambini malati terminali di Aids; nel 1990 l'aspettativa di vita dal momento in cui veniva rilevata l'infezione, era di soli sei mesi. Mia figlia viveva così come vi ho raccontato. Mia figlia stessa era malata terminale di Aids, con una diagnosi che prevedeva le cure del protocollo di allora, cioè AZT e immunoglobuline (che non ha fatto); era un essere selvaggio che si esprimeva soltanto con grugniti, non camminava e aveva un busto abnorme rispetto alle gambe magrissime. Il destino di mia figlia, il destino di centinaia di bambini in Romania, era segnato.

(Infatti, quando il virus attacca spesso comincia una discesa che nessuna cura può fermare. L'Aids è una malattia che in una settimana può far nascere un tumore al cervello, che può far scoppiare una meningite in pochi minuti, che vi può provocare sulla pelle e sul corpo delle lesioni che nessun antibiotico, nessuna pomata può guarire). Poi ho visto che la sintomatologia è scomparsa, mia figlia oggi non ha nessun sintomo della malattia.

Già allora, però, mi ero fatto una domanda, perché il giorno che sono arrivato a Roma mi era sembrato che mia figlia stesse molto meglio di quando avevo lasciato l'ospedale. Mi ricordo anche che uscendo dal padiglione del Victor Babesch lei si era messa a piangere, io mi ero fermato, avevo raccolto un fiore giallo, lei lo aveva stretto in mano; abbiamo fatto il viaggio da Bucarest a Vienna e da Vienna a Roma e poi su consiglio dei medici l'ho fatta ricoverare. Al momento in cui l'ho ricoverata, lei aveva questo pugno stretto, e le vene gonfie della mano sinistra; quando le ho aperto la mano, dentro c'era il mio fiore. Quella prima notte la bambina non ha dormito, io ho passato da quel giorno un mese d'inferno e quella che era sembrata una sensazione obiettiva, secondo anche il parere dei medici, si è modificata e nel giro di un mese lei ha avuto tutto: entergolite, infezioni alla pelle, tre bronchiti, due polmoniti, e anche un attacco notturno che nessuno riusciva a capire. In questo mese terribile, ho continuato, notte dopo notte, a rivolgermi delle domande. Mi sono chiesto anche quale fosse la componente di stress emotivo, ambientale ed affettivo che poteva incidere su questa malattia.

Il 30 aprile del 1990, il Professore Aiuti mi ha scritto la prescrizione: AZT, a dosi che oggi riconosciamo altamente tossiche, se non mortali, immunoglobuline ogni quindici giorni. Mia figlia piangeva, era disperata, nella notte credo l'avessero legata ad un letto — come già avevano fatto in Romania. Mia figlia non camminava ancora e si esprimeva con un grugnito ma mi guardava disperatamente con gli occhi e mi chiedeva di portarla via. Io mi sono preso questa responsabilità, anche se la bambina aveva 38,4 di febbre e il residuo della bronco-polmonite. Dal 1 maggio del 1990 i suoi sintomi sono diminuiti, fino a scomparire del tutto.

Che cosa è successo che ha consentito a questa bambina di tornare alla vita, di imparare a camminare, a parlare, a comunicare, ad amare? Ho incominciato così a pensare a quanti di questi bambini in Romania e chissà in quante altre parti del mondo, non hanno avuto questa opportunità. E ho realizzato che avrei dovuto fare qualche cosa. A questo punto ho incontrato l'AVSI, Alberto Pezzi, Alberto Piatti, e Alberti, il presidente dell'AVSI. Ho cominciato a raccogliere una piccola somma da un imprenditore italiano, Pietro Barilla, che sembrava sufficiente appena a riadattare il vecchio reparto. Da quel momento in tutti noi e sopratutto nei primi che sono venuti a Bucarest a vedere e a toccare la realtà con mano, Piatti e Pezzi, vista l'aspettativa di vita ancora bassissima, è scattata la necessità di fare qualche cosa ad altissima velocità.

Così, abbiamo innescato una catena di solidarietà, la quale ha permesso a questa idea, che sembrava una utopia, di diventare qualche cosa di reale. Noi oggi stiamo concludendo i lavori di un reparto di una cinquantina di letti che consentirà al vecchio reparto — nel quale adesso ci sono novanta bambini con Aids in vari stadi — di svuotare della metà il suo stato di saturazione, e di trasferirlo in un reparto che sarà uno dei più moderni d'Europa. Questo senza avere una grande azienda alle spalle, senza contare sull'aiuto di un ente governativo, senza chiedere nulla ai rumeni, ma neppure niente al Governo Italiano o al Ministero degli Esteri. Tutto questo è stato fatto con le piccole gocce della solidarietà.

Noi siamo sicuri che modificando l'ambiente, l'aspettativa di vita di questi bambini — mi assumo la piena responsabilità di quello che sto dicendo — possa raddoppiare, passando da un anno e mezzo a tre anni, quattro anni, cinque anni forse sei anni. Come del resto è successo a mia figlia Andreia: dopo cinque anni e cinque mesi oltre ad avere dato a me e a tutti noi duemila giorni di felicità, è diventata una bambina che ha riconquistato il rispetto, il diritto di essere considerata persona, cosa che purtroppo non è successa per altri centinaia di bambini.

La storia di Andreia spero sia quella di altri bambini rumeni.

Bello: Sono missionaria saveriana in Sierra Leone da cinque anni. Il nostro scopo come istituto missionario è quello di annunciare Gesù Cristo specialmente a coloro che ancora non lo conoscono. Questo è un obiettivo che noi raggiungiamo attraverso mezzi diversi a seconda dei bisogni che troviamo nei paesi dove siamo mandati. In Sierra Leone abbiamo visto che una necessità prioritaria era quella della riabilitazione di molti bambini affetti da poliomelite. Purtroppo c'è ancora un'alta percentuale di questa malattia: pur essendoci una campagna di vaccinazione e un programma preventivo, tuttavia data la scarsa conoscenza della possibilità di evitare la malattia da parte delle mamme e dei genitori — per via dell'analfabetismo —, non sempre la vaccinazione è portata avanti metodicamente da parte delle famiglie.

Così abbiamo visto che era necessario creare un centro di riabilitazione. È l'unico in Sierra Leone, ed è stato aperto undici anni fa. In questo centro arrivano bambini che nei loro villaggi sono lasciati a loro stessi per forza di cose, non perché i genitori li vogliano trascurare, ma per motivi legati alle credenze culturali e alle impossibilità economiche. Sierra Leone è infatti una città prevalentemente agricola e ciò vuol dire che una persona per sostenersi deve lavorare; ma un bambino affetto da polio non può essere autosufficiente perché ha impossibilità motorie, e la famiglia non ha la possibilità di prendersene cura. Questo è il problema economico; ma le credenze culturali che pesano sui bambini di questo tipo, sono ancora più gravi di quelle economiche. Infatti, c'è la credenza secondo cui la malattia è il risultato di una maledizione di Dio per peccati o comportamenti che avrebbe avuto la famiglia del bambino: lo spirito del Male o la Divinità colpisce il bambino per punire i genitori. Seguendo questa credenza, la società stessa tende ad emarginare il piccolo come segno della concretizzazione di quella maledizione di Dio. E dunque anche per la famiglia che ha un bambino di questo tipo è molto difficile il rapporto con gli altri.

Abbiamo visto che per questi bambini era necessaria la riabilitazione fisica e quella sociale. Nel nostro centro ospitiamo bambini con la collaborazione dei loro genitori, perché attraverso lo stile con cui trattiamo questi bambini, attraverso la cura, e l'amore della riabilitazione, anche i genitori possano capire che sono delle persone esattamente come le altre, che sono amatissimi da Dio e non sono oggetto di una maledizione. Questo avviene anche attraverso la riabilitazione fisica: con apparecchi ortopedici, i bambini sono in grado di camminare, e quando lo fanno per la prima volta, è una festa per la famiglia.

Ultimamente la Sierra Leone è stata afflitta da una guerriglia, che dura da ormai quattro anni, una guerriglia interna che sta facendo soffrire molto la popolazione. I bambini sono sempre i più fragili in queste circostanze. Ma la cosa che vorrei sottolineare oggi è l'uso dei bambini per la guerra. Ci siamo trovate, nostro malgrado, a convivere in un campo militare dove la violenza era di casa. Il primo bambino che ho visto sparare durante un attacco era nel luogo in cui siamo state catturate, il 25 gennaio. Eravamo state appena prelevate da casa, fatte uscire con forza, poi condotte attraverso il paese. Ho subito notato che fra i guerriglieri c'erano dei bambini, e che questi agivano in modo molto più disinvolto degli stessi adulti. La cosa mi ha veramente colpito, poi, mentre i giorni passavano e la nostra conoscenza del Fronte Unito Rivoluzionario — è la denominazione che i ribelli si sono data — aumentava, vedevamo che si servivano dei bambini con degli scopi ben precisi. Di bambini guerriglieri ce n'erano tanti, circa la metà dei guerriglieri.

Ho visto come fanno per formarli alla violenza. Nella fila dei civili catturati, c'era un bambino di sette anni, destinato a diventare guerrigliero. Quando ci hanno catturato, stava camminando già da cinque giorni, perché era stato preso in un attacco precedente. Il suo nome era Habbas. Sette anni, forse un po' di meno, prelevato dalla sua famiglia, si era venuto a trovare in un contesto di persone che non conosceva, persone violente che gli facevano molta paura. Il suo viso nei primi giorni era duro, triste, però ce la metteva tutta a camminare; dovevamo camminare a volte anche 18 ore al giorno, perché ci stavano conducendo al loro campo militare che era molto distante. Guardavo quel bambino con profonda compassione, si sforzava di fare quello che i guerriglieri gli dicevano, perché loro gli facevano vedere il camminare, l'essere forti, il non indulgere in debolezze fisiche come cose belle e valorose. Un po' alla volta, vedevo che quel bambino prendeva per modello gli stessi guerriglieri; non aveva davanti a sé altro modello che il guerrigliero che combatte e viene apprezzato per questo.

Un giorno, verso la fine della marcia, ho notato che quel bambino aveva un piede ferito perché per camminare aveva solo delle ciabattine; allora me lo sono tenuto vicino e gli ho dato la mano, e vedevo che da una parte lui desiderava un contatto diverso, di amicizia, di relazione, ma dall'altra era irretito, non riusciva a comunicare liberamente. Il mondo che gli comunicavo io era molto diverso da quello che gli veniva presentato dai guerriglieri. Così, ho visto che, senza nemmeno un lamento, piangeva, gli venivano giù le lacrime per la stanchezza a causa del gran camminare, eppure non si lamentava. E mentre piangeva gli ho domandato: "Sei stanco, vero, Habbas?"; mi ha risposto: "No, non sono stanco". Il suo obiettivo ormai era di essere un forte guerrigliero: un bimbo così piccolo non ha ancora una coscienza ancora formata, e quindi è facilmente manipolabile.

È questa la logica che sta dietro al fatto che i guerriglieri catturano molti bambini per addestrarli. Un giorno infatti ho chiesto ad uno dei capi, conversando con lui — eravamo riusciti a stabilire dei rapporti d'amicizia —: "Perché prendete i bambini?" Mi ha risposto: "I bambini sono più facilmente addestrabili alla guerriglia e diventano più feroci degli altri, degli adulti, e non ci pensano due volte ad uccidere". Tutto calcolato, quindi.

Un giorno questa guerra finirà e questi ragazzini abituati e istruiti alla violenza, dovranno essere reintegrati nella Sierra Leone. Sono sicura che ci aspetta un programma di riabilitazione molto intenso, e ci prepariamo a questo, questo sarà il nostro futuro lavoro, non solo con i bimbi ma anche con i giovani di 14, 15, 20 anni addestrati alla guerriglia.

Castelli: "Noi bambini che abbiamo vissuto questa guerra vi raccontiamo i misfatti della guerra. La guerra ha devastato tutto, sono stati uccisi i nostri genitori, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri amici; siamo rimasti senza nessuno".

Questa è una canzone composta da un gruppo di bambini dell'orfanotrofio di Nyanza dove ho vissuto per 8 mesi, dal novembre '94 a luglio '95, partecipando, come pediatra, ad un progetto dell'AVSI per il recupero dei bambini non accompagnati (orfani oppure con i genitori dispersi). Come tutti voi sapete, il Ruanda ha vissuto una delle guerre più terribili di questi ultimi anni. Dall'aprile al luglio '94, in un periodo così breve, su una popolazione di circa sei milioni di abitanti, si sono avuti più di mezzo milione di morti, due milioni di rifugiati nei paesi vicini, e un milione e mezzo di sfollati all'interno dei paesi nei campi profughi. Tra questi ci sono i bambini, centomila bambini non accompagnati, dodicimila dei quali vivono in centri di accoglienza. Ventottomila vivono già in famiglie di accoglienza; ma si contano anche milleduecento bambini in prigione, tremila bambini soldati che militano nell'esercito, e un numero non noto — erano già più di duemila prima della guerra — di bambini di strada.

Questa è la situazione che abbiamo incontrato arrivando, a maggio dell'anno scorso, come AVSI in Ruanda, con il sostegno del Ministero degli Esteri e su invito dell'UNICEF che già ci conosceva e apprezzava l'operato dell'AVSI nella vicina Uganda. Abbiamo partecipato alla realizzazione di un progetto di recupero per i bambini non accompagnati, lavorando fondamentalmente in due centri: l'orfanotrofio di Nyanza, dove dall'agosto erano stati raccolti ottocento bambini, di tutte l'età e delle due differenti etnie, e il centro di Gatagara, un centro di riabilitazione per handicappati che ospitava centocinquanta handicapati fisici tra cui una ventina di mutilati di guerra, e sessanta bambini ciechi.

Il nostro tentativo è quello di un recupero globale del bambino: infatti, è iniziata anche un'attività di ricerca delle famiglie originarie degli ottocento bambini: più di cinquecento sono rientrati nelle famiglie, e inoltre vi è una campagna per l'adozione a distanza che sta coinvolgendo già settecentocinquanta famiglie italiane che danno il loro sostegno economico per altrettanti bambini non accompagnati.

Il gruppo di volontari con cui lavoro è molto eterogeneo: due pediatri, un neuropsichiatra, un insegnante, un assistente sociale. Questo essere in mezzo ai bambini uniti nel desiderio di dare a loro una possibilità di vita e di affrontare questa realtà così drammatica è già un segno molto importante per loro.

Ma prima di spiegarvi un po' in dettaglio il lavoro che facciamo, è importante che voi possiate capire che cosa i bambini realmente hanno vissuto, che cosa hanno subito durante quella guerra. Oltre alla sofferenza fisica, alla sofferenza per la perdita dei genitori, degli amici, dei parenti, alla mancanza di cibo, alla perdita della casa, ci sono anche delle ferite — senz'altro le più grosse, perché sono quelle che non si vedono — psicologiche conseguenti agli avvenimenti vissuti. Queste ferite spesso non vengono considerate, o sono sotto-stimate, dai medici stessi. Già l'adulto parla mal volentieri della sua sofferenza, soprattutto in Africa, dove per cultura un uomo non può manifestare i suoi sentimenti: il bambino ancora meno. Inoltre, molti adulti pensano che il bambino non capisca, quindi non soffra o soffra meno dell'adulto.

Molti bambini apparivano muti, senza reazioni, si isolavano, altri invece erano aggressivi ma incapaci di giocare con gli altri, quasi tutti soffrivano di disturbi del sonno, avevano incubi notturni, non riuscivano ad addormentarsi, molti soffrivano di enuresi, tra i più piccoli alcuni, nonostante venissero imboccati, si rifiutavano di mangiare e rimanevano in uno stato di malnutrizione. Perché avvengono queste reazioni? Nel rispondere, possiamo schematizzare ciò che il bambino ha subito in tre parole: perdita, tradimento, trauma. La perdita è la cosa più semplice da spiegare, è la perdita fisica dei genitori, la perdita delle persone care, la perdita di parti del corpo; c'è una perdita nell'ambiente circostante, le case son distrutte, le foreste sono bruciate, tutto è diverso da come era prima; c'è una perdita di sicurezza, il bambino non ha più riferimenti, non ha più una persona da guardare, ha paura di morire da un momento all'altro; c'è anche una perdita di fiducia, in se stesso, perché si sente impotente, e nell'adulto.

Molti hanno visto amici dei loro genitori uccidere i loro genitori, molti di loro hanno visto i loro genitori stessi fare degli atti violenti, e questo è il tradimento.

Il trauma che hanno subito ha molte conseguenze, vi spiego la più importante. Nella vita di tutti giorni, ogni avvenimento che capita ad ognuno di noi, viene percepito da tutta la nostra persona: noi siamo un'unità e ancora di più il bambino. La persona risponde sempre come un'unità, e c'è un'unità tra i miei sentimenti: questo è quello che viene rotto durante la guerra. L'evento traumatico della guerra è talmente forte, si è davanti ad una situazione talmente improvvisa che tutti i sentimenti che si provano, l'emozione, il dolore, la paura, la collera di quello che si vede, viene staccato dall'atto che dobbiamo fare. Il bambino deve scappare, deve fuggire, deve mettersi in salvo, non ha tempo per pensare o elaborare i sentimenti che ha provato, e quindi per reagire alla situazione drammatica che sta vivendo. Ma tutte le emozioni che noi proviamo restano sempre dentro di noi, sopratutto se non abbiamo avuto la possibilità di elaborarle: quindi dopo molto tempo possono uscire e provocare angoscia. Ad esempio, un nostro bambino ogni volta che pioveva si angosciava e cominciava a piangere in maniera incontrollata. Se gli si chiedeva perché, non sapeva rispondere. Dopo avergli fatto raccontare quello che era successo, ci ha detto che i guerriglieri hanno ucciso i suoi genitori durante un grosso temporale: così, gli abbiamo spiegato che era per questo che la pioggia lo spaventava, perché ogni volta che arrivava la pioggia si ricordava quello che aveva vissuto. Questo collegamento lo tranquillizzò molto.

I bambini che hanno vissuto un'esperienza così traumatica, hanno innanzitutto bisogno di esprimere quello che hanno vissuto, di darsi una spiegazione di quello che sta loro succedendo, ma soprattutto hanno il bisogno di recuperare un conforto ed un credito nell'adulto, di ritrovare un luogo, un ambito che li riaccolga e di poter così ripensare ad un futuro. Per questo è importante che attiviamo le risorse del bambino, che lo aiutiamo a collegare quello che lui ha vissuto con il suo passato e con un possibile futuro. Lavorare con questi bambini è come accettare una sfida: è per questo che viviamo insieme ai bambini, cerchiamo di creare un rapporto di fiducia, e di far recuperare a loro la fiducia che hanno perso nell'adulto durante la guerra.

La cura del trauma consiste innanzitutto in un intervento che permette al bambino di esprimere quello che ha vissuto attraverso scritti, disegni, poesie, canzoni, preghiere, drammatizzazioni. Raccogliamo i bambini in gruppetti di 8 o 10, omogenei per sesso e per età, spieghiamo loro perché stiamo lì, abbiamo tutto il tempo per loro, spieghiamo a loro che vogliamo ascoltare quello che ci raccontano, e anche per questo è fondamentale proprio creare un rapporto di amicizia e di fiducia tra noi e il bambino che gli permetta quindi di sentirsi giudicato e ascoltato. Non sono molti quelli che non vogliono parlare, tutti vogliono parlare ed esprimersi: anche i pochi che sono reticenti dopo aver visto i loro amici parlare, dopo aver visto che ci si sente meglio, cominciano anche loro. Nel secondo incontro poi diamo dei quaderni, delle matite, delle penne, diciamo che il quaderno appartiene a loro e che possono usarlo come vogliono. Quasi tutti hanno fatto un diario di quello che hanno vissuto che poi viene riletto insieme a tutti gli altri bambini, anche per far comprendere che l'esperienza di uno è una esperienza comune, un'esperienza di tutti. È molto importante per noi, però, che tutto questo lavoro espressivo non si limiti alla fase della guerra. Come dicevo prima è importante legare il passato, cioè far parlare il bambino di come viveva prima della guerra, per fargli capire che aveva avuto un vissuto buono prima, e farlo lavorare sul futuro. È importante infatti che il bambino possa recuperare fiducia nelle sue risorse, e capire che il momento della guerra è una parte del suo mondo, non è tutto il suo mondo, esisteva un passato, ed esiste anche un futuro, quindi li facciamo lavorare anche sulla pace, sulla loro speranza e su quello che vogliono diventare da grandi.

Valorizzando le risorse presenti nel bambino prima della guerra e anche quelle che ha impiegato durante la guerra, chiedendogli come ha fatto a superare questi momenti, gli diamo la possibilità di scegliere quale atteggiamento avere di fronte alla sua situazione. Di fronte a una guerra le reazioni, in genere sono di due ordini, o uno decide di non vivere o decide di vivere per vendicarsi. Attraverso però i rapporti di fiducia e di comprensione che si stabiliscono tra gli amici del gruppo, tra noi e loro, noi vogliamo dare al bambino un'altra possibilità, la possibilità di scegliere di vivere e di dare un senso a quello che ha vissuto, anche alla sua sofferenza, di cercare un significato per la sua vita futura. Infatti, pochissimi dei bambini da noi trattati hanno parlato di vendetta dopo il lavoro fatto con loro.

Dal mese di aprile, la nostra équipe sta svolgendo anche dei corsi di formazione per tutto il Paese, per infermieri, assistenti sociali, insegnanti, per insegnare come affrontare il problema del traumatismo infantile. A uno di questi corsi un insegnante ci ha detto: "Voi non ci fate una lezione come gli altri, in quello che ci dite, ci trasmettete la vostra esperienza e la vostra unità". E il clima di amicizia e di unità che la gente vede tra noi meraviglia tutti, e a volte meraviglia anche noi stessi.

Per concludere, vorrei dire che i bisogni del bambino in emergenza, sono i bisogni del bambino in qualsiasi momento della vita, e sono i bisogni di ogni uomo: il bisogno di essere ascoltato, di essere accolto in quello che ha vissuto e che vive, di ritrovare luce nell'adulto e di aver qualcuno da guardare e da seguire. Questo permette di superare il trauma e di trovare una ragione per vivere.

Bertolaso: Io sono un ottimista di natura, ma credo in questo momento di essere un realista, e mi pare che le descrizioni che abbiamo sentito non inducano a nessuna forma di ottimismo. Se andiamo a fare un'analisi delle varie statistiche, troviamo solo una sparuta pattuglia di gente di buona volontà che ci richiama alle nostre responsabilità, e non semplicemente a quel genere di lavaggi di coscienza che periodicamente riceviamo da parte di televisione e giornali. La solidarietà è ben altro, la necessità di intervenire è ben diversa rispetto al sentirsi assolti da qualsiasi tipo di colpa stando seduti nei divani di casa nostra, assistendo alle immagini come abbiamo assistito e continuiamo ad assistere.

Oggi le emergenze sono, nel 99% dei casi, emergenze create dall'uomo, non sono le cosiddette emergenze naturali o le epidemie: l'epidemia di Ebola, che tanto scalpore ha suscitato nel mondo, è niente rispetto a quelle che sono le dimensioni delle tragedie che l'uomo oggi continua tranquillamente a riproporre in tutte le parti del mondo.

Si parla tanto di progresso, ma la situazione, se andiamo a fare un'analisi dal 1945 ad oggi, ci dimostra che ci sono state 150 guerre in giro per il mondo in questi ultimi 50 anni, senza parlare delle oltre 400 guerre minori, quelle che non hanno notizia, quelle che non si conoscono se non quando delle coraggiosissime suore vengono fatte prigioniere. Queste sono le realtà di oggi. Negli ultimi 90 anni abbiamo avuto 4 volte il numero dei morti in guerre che nei precedenti 400 anni messi insieme. Negli ultimi 50 anni abbiamo avuto 20 milioni di morti e 60 milioni di feriti, l'80% sono civili, donne e bambini. Negli ultimi 10 anni, senza aggiungere a queste statistiche quello che sta succedendo nell'ex Jugoslavia, e neppure il Ruanda, si parla di 2 milioni di bambini uccisi dalla guerra, 5 milioni di bambini rimasti handicappati, 12 milioni rimasti senza casa, 2 milioni sono orfani, e 10 milioni traumatizzati.

Cosa ci possiamo aspettare da queste statistiche? Semplicemente un esercito in più di gente che ha visto solo odio e violenza, e che quando sarà grande non farà altro che ripetere quello che ha visto, quello che ha sofferto sulla propria pelle. I bambini di oggi sono i soldati di domani. Questa è la terribile realtà della maggioranza dei paesi in cui non c'è pace, che non sono solo nel Terzo mondo. Bambini-soldati ce ne sono, ne abbiamo sentito parlare: le statistiche ci possono dire che ci sono, come minimo, 200.000 bambini al di sotto dei 14 anni impiegati in più di 30 guerre.

Questa è la realtà. Di chi sono le colpe? Tutti i dittatori o i tiranni sono fomentati, soprattutto, dai mercanti di armi. Questi mercanti non fabbricano le armi a Mogadiscio o a Kigali: l'86% delle armi che circolano oggi nel mondo sono fabbricate nei 5 paesi che hanno il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Quale reale interesse hanno i governanti di questi Paesi a fare in modo che tutte queste guerre vengano debellate, che oltre 600 miliardi di dollari — la cifra che ogni anno circola per il mondo grazie alla produzione di armi — vengano utilizzati per sostituire le armi con canne da pesca, libri di testo, matite, o biciclette? Nessuno. Fanno finta di essere interessati, di voler cambiare la situazione, ma di fatto, fino quando non si vanno a toccare interessi specifici, fa estremamente comodo questa situazione di assoluta instabilità.

Credo dunque che le colpe siano facilmente individuabili. Si assiste a questa situazione non solo per un problema di natura economica e politica, ma anche a causa di una terribile mancanza di leadership a livello mondiale. Ci sono stati in questi anni, all'ONU, vari presidenti, uno più debole dell'altro, uno più malato dell'altro, uno più geloso dell'altro, ognuno più attento a fare le scarpe all'altro, piuttosto che a preoccuparsi dal bene comune. Le Nazioni Unite sono assolutamente incapaci di svolgere il loro compito.

L'Italia in questo non rientra: due anni fa, il nostro Paese offrì la sua totale disponibilità a prendere tutti i bambini dalla Bosnia e portarli al riparo dalle bombe. Ma la gelosia fra le varie organizzazioni delle Nazioni Unite e tra i vari governi ha paralizzato questa operazione, limitandosi, come di consueto, a conferenze, gruppi di contatto, seminari....

Le soluzioni? Nessuno di noi può fare nulla, però quello che è importante, è non lavare le nostre coscienze. Non dobbiamo neanche partecipare solo da un punto di vista economico: abbiamo bisogno di loro. Deve essere completamente rivoltato lo scenario, deve essere completamente rivisto e riletto l'approccio, perché se continuiamo con la mentalità di fare la carità a chi sta peggio di noi, a chi sulla carta e più povero di noi, continueremo a vedere semplicemente la situazione che peggiora. Chi si impegna oggi in prima persona contro questo è Giovanni Paolo II. Il suo urlo disperato troppo spesso rimane solamente l'urlo di una persona impegnatissima che soffre terribilmente dentro di sé, ma che non riesce a smuovere le anime di questi pseudo governanti ridicoli che siedono nelle più importanti capitali del mondo. Io credo che bisogna andare dietro a questo grande uomo.