Mercoledì 23 agosto, ore 11

INVITO ALLA REALTA’

Tavola Rotonda

Partecipano:

Don Divo Barsotti, Sua Em. Cardinale Godfried Danneels.

Modera:

Maurizio Vitali.

  1. Vitali:

(…) Oggi la cosa più scontata e paradossalmente più disastrata è proprio il rapporto adeguato dell'uomo con la realtà di se stesso, degli altri, delle cose. Introduzione alla realtà, dunque. Noi sappiamo che la realtà non è colta se non è afferrato il significato e forse questo è il dramma della nostra epoca. Infatti, senza un incontro con il significato della realtà l'uomo vive un disagio; e, appunto nei giovani, questo è vistosissimo. Al contrario, l'incontro con un significato attraverso una tradizione che si presenta come ipotesi che spiega la vita e che si propone attraverso maestri, spalanca al rapporto con tutto e mette in gioco il rischio della libertà. Noi abbiamo la fortuna oggi di avere con noi due maestri che possono aiutarci in questo cammino, maestri di pensiero, di vita. Sono: alla mia destra don Divo Barsotti, e alla mia sinistra il Cardinale Godfried Danneels. Don Divo Barsotti si è formato nell'ambiente fiorentino col Cardinale Elia Dalla Costa, fu amico di La Pira che lo spinse a pubblicare il suo primo libro sul cristianesimo russo, è stato direttore spirituale di Dossetti nel momento in cui questi lasciava la politica per dedicarsi alla vocazione religiosa, all'inizio degli anni '50, e da qualche anno guida una fraternità di vita spirituale che si chiama Comunità dei figli di Dio, di cui fanno parte laici sposati e non, e molti che si preparano al sacerdozio, oltre ad un sacerdote. Lo scopo di questa comunità è il primato delle virtù teologali nella vita concreta, in ogni condizione dell'esistenza. Recentemente ha avuto il premio Bassano per la cultura cattolica ed è molto noto per le molteplici pubblicazioni, tra cui ricordo fondamentali i suoi studi su Leopardi. Lo ringraziamo per essere qui anche perché, ve ne accorgerete dopo, ha un serio problema di voce per cui solo la sua bontà e generosità di fronte alle nostre imperdonabili insistenze hanno fatto sì che fosse con noi questa mattina sostenendo la fatica di parlarci. Sua Eminenza il Cardinale Danneels è Arcivescovo di Bruxelles, dal '78 membro della Congregazione per la dottrina della fede, e oltre alla sua attività scientifica, è importante ricordare che ha tenuto, in occasione del Simposio dei vescovi europei, la relazione principale sul tema "Evangelizzare l'Europa secolarizzata". Do senz'altro la parola a Don Divo Barsotti.

  1. Barsotti:

Ci si domanda: possiamo raggiungere la realtà? Possiamo entrare in comunione col reale? Ci appare del tutto impossibile. Di fatto noi ci sentiamo stranieri in un mondo che non ci conosce ed è indifferente alla nostra pena. Si è ricordato dal moderatore il mio libro sul Leopardi. Per me uno dei fondamenti della tragedia propri di questo grande poeta è proprio il sentirsi solo in un mondo che gli è estraneo. Di fatto è così, l'uomo emerge nel mondo della natura come un essere tutto a sé nella sua libertà, nella sua potenza intellettiva. Ma può avere allora l'uomo un suo rapporto con gli uomini? Certo, ma in questo caso entra veramente in un rapporto di comunione perfetta con gli altri, o il rapporto che noi stabiliamo con gli altri fratelli rimane più o meno superficiale? Di fatto, vi è una mamma che conosca fino in fondo il suo figlio? Vi è uno sposo che conosca fino in fondo la sposa? Anche se l'uomo vuol comunicarsi totalmente, trova nella sua stessa natura un impedimento a questa comunione perfetta, rimane chiuso in se stesso, prigioniero di sé; non solo, ma l'uomo stesso non si conosce, siamo mistero a noi medesimi. Il vivere comporta per l'uomo, sempre più, questa esperienza di solitudine umana e tuttavia siamo stati creati per l'amore, per la comunione: ma come vivere questa comunione? Vi sono tre organi mediante i quali l'uomo può cercare di stabilire un rapporto con la realtà: i primi due sono la conoscenza sensibile, la conoscenza razionale. La conoscenza sensibile è una conoscenza superficiale. L'uomo nei suoi sensi viene impressionato dalla realtà fisica, ma questa realtà rimane sempre estranea alla sua vita interiore. È una conoscenza totalmente superficiale che non implica di per sé nemmeno un criterio di valore; ma dalla conoscenza sensibile l'uomo assai alla conoscenza razionale, dove si moltiplica l'oggetto nell'idea (…). La conoscenza razionale spoglia l'oggetto della sua individualità, della sua concretezza, per arrivare ad un'idea che è universale ed anche in questo caso il rapporto vero dell'uomo con le cose in qualche modo viene ad essere limitato. Qual è dunque la possibilità dell'uomo di entrare in comunione con la realtà? E la prima cosa che dobbiamo domandarci: cos'è questa realtà? Perché se vogliamo parlare di una comunione con la realtà bisogna avere un concetto ben preciso di questa realtà. Di quale realtà si parla? E vi è una sola realtà o vi sono altre realtà con le quali l'uomo deve entrare in contatto? La risposta mi sembra facile: per noi che crediamo la realtà ultima, definitiva, la realtà suprema è Dio solo, ed è in Dio che le cose hanno una loro realtà. Scisse da Dio, le cose che da lui sono create precipiterebbero di nuovo nel nulla. È lui il sostegno dell'essere, è in lui il fondamento dell'essere creato. È impossibile dunque, già per principio, riconoscere la realtà umana e mondana se rifiutiamo Dio. Mettere tra parentesi Dio vuol dire mettersi nella condizione di non accedere mai al mistero delle cose, di non raggiungere mai il mistero di un'altra anima che tuttavia noi si può amare. Ma in che modo l'uomo può arrivare a conoscere questa realtà? È la triplice conoscenza e anzi, la terza conoscenza che è propria dell'uomo, la conoscenza per fede. Ed è precisamente questa conoscenza alla quale si apre tutta la realtà. Dice San Paolo: "L'uomo naturale non comprende le cose dello spirito di Dio, esse sono follia per lui, non è capace di intenderle perché si possono giudicare solo per mezzo dello Spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa senza poter essere giudicato da nulla". Quello che mi sembra che noi dobbiamo sottolineare delle parole dell'apostolo, è il fatto che l'uomo spirituale giudica di tutte le cose. Tutta la realtà è sottoposta al suo giudizio dal momento che "Egli per lo Spirito di Dio conosce Dio stesso". Un altro testo importante è quello di Giovanni nel Vangelo, capitolo quattordicesimo. È il primo annuncio della promessa dello Spirito Santo: "Il consolatore è lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome. Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto". E ancora prima: "Se mi amate osserverete tutti i miei comandamenti; io pregherò il Padre che vi darà un altro consolatore perché rimanga con voi per sempre: lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce". Sembra che siano due le cose che vengono affermate dalla Parola di Dio. La prima: solo per una nostra conoscenza di Dio noi avremo anche la possibilità di conoscere tutto. Lo Spirito Santo ci introduce in tutta la verità. Ma l'altra cosa è più grave ancora ed è che, indipendentemente da questo Spirito, noi non conosciamo, siamo come estromessi dalla realtà vera. Ora noi dobbiamo domandarci: in che modo però l'uomo può conoscere Dio se Dio di per sé è inaccessibile, in che modo l'uomo può entrare in comunione con l'uomo se per il peccato l'uomo è diviso dagli altri e gli altri sono divisi da Lui? La risposta per noi cristiani è assai facile: Colui per mezzo del quale ogni cosa è stata creata, Egli tutto ha ripreso, e nella sua unità Egli è divenuto Colui nel quale l'uomo si incontra con Dio e si incontra con gli altri: Cristo Gesù. È Cristo Gesù veramente la via, è Cristo Gesù veramente la verità, è Gesù Cristo veramente la vita. Senza di Lui l'uomo brancola nelle tenebre, senza di Lui l'uomo si accosta agli altri uomini come vivendo nella nebbia, non raggiunge mai l'altro fino in fondo. Ci si accontenta soltanto di un rapporto fittizio o di un rapporto comunque molto limitato. Nel Cristo, io sono uno con tutti, nel Cristo io sono uno con Dio. Quante volte mi sono domandato: ma è possibile che vi siano due comandamenti che riguardano la carità come sembrerebbe insegnarci il Vangelo? Per molto tempo questo mi ha fatto problema. La carità che dovrebbe essere la virtù unitiva fra tutte mi divide, perché esige nello stesso tempo che io mi orienti verso Dio e salga verso Dio che vuole da me anche che mi espanda ed abbracci tutte le creature. È mai possibile tutto questo? Miei cari fratelli, la cosa è molto semplice: non si raggiunge Dio, non si raggiunge il prossimo, ma si raggiunge un Dio che si è fatto accessibile a noi nell'uomo Gesù. Se io voglio conoscere Dio lo conoscerò solo nel Cristo, ma se anche voglio amare gli uomini, li posso amare soltanto nel Cristo. Miei cari fratelli, noi ci domandiamo spesso perché l'amore del prossimo è una virtù teologale. Se le virtù teologali hanno per oggetto Dio, com'è possibile che l'amore del prossimo sia una virtù teologale? È semplice: perché l'amore del prossimo vuol dire per noi l'unione col Cristo. È soltanto nella nostra unione con Cristo che noi viviamo la nostra unione con Dio, che viviamo la nostra unione fra noi. Siamo qui diecimila persone, siamo uno solo, perché "laddove due o tre sono riuniti nel mio nome, lo sono in mezzo ad essi". E Gesù non moltiplica gli esseri, Gesù non è un altro tra noi, ma è Colui che tutti ci unisce in solo corpo, tutti ci unisce in un medesimo Spirito, tutti ci unisce in un medesimo amore. È Cristo Gesù solo la via per condurci alla realtà, e solo in Lui, anzi, la realtà ultima è vera, perché Colui che ha creato il tutto dal nulla, proprio mediante la sua incarnazione e la sua morte di croce tutta quanta la creazione ha riassunto in sé per portarla in Dio. Ed è in Cristo, perciò - come dice Paolo nella lettera ai Colossesi - che tutte le cose sussistono: "Omnia in ipso constant". Allora, miei cari fratelli, che cosa s'impone per vivere la realtà, per entrare in comunione con la realtà? La conoscenza vera, ultima dell'uomo, è la conoscenza mistica, è l'esperienza di questa vita che il Cristo ci ha dato, che il Cristo ci infonde, che nel Cristo noi viviamo, perché mediante la fede, mediante la carità, veramente già il Cristo vive in noi e noi vivendo nel Cristo viviamo già la nostra unione con tutti, viviamo già la nostra unione con Dio. Non si tratta qui soltanto di un'esperienza psicologica, si tratta di qualche cosa di più profondo, di una trasformazione dell'essere. La creatura che di per sé è sugli abissi del nulla, ripresa dal Verbo divino mediante la Sua incarnazione ora entra nel seno del Padre, vive la stessa eternità di Dio. Non soltanto la creazione, ma anche noi, e tutti noi in Dio viviamo la stessa vita di Dio. Questa mi sembra la vera realtà. L'invito alla realtà è ad entrare in Dio che è la realtà suprema, la realtà ultima e vera di tutte le cose. Perciò non si può veramente rinnovare il mondo senza la fede in Cristo Gesù. Se veramente Salvatore del mondo è Cristo Signore, ed è Lui solo l'unico Salvatore, ne viene che non possiamo avere altra formula, che non possiamo dare altra medicina al mondo che languisce, al mondo che ha perso il senso della vita, al mondo che non sa più dove andare, non possiamo dare altra via altra verità che Cristo Signore. È questo che il Signore vuole che noi comprendiamo. È inutile fondare su altra base la nostra speranza, la nostra certezza, la realizzazione della nostra vita, di quella unità che, nell'amore, tutti ci deve stringere in Uno, per essere noi tutti un solo Cristo e vivere in Lui la sua medesima vita che è la vita di Dio.

M. Vitali:

Un grazie vivissimo a don Barsotti che con così grande chiarezza ed intensità ci ha indicato la verità ed il messaggio centrale che noi vorremmo ricavare e lanciare da questo Meeting e cioè che in Cristo, nell'avvenimento di Cristo, il più grande paradosso della storia, solo è possibile raggiungere Dio e gli altri uomini. E noi vogliamo proprio costruire, dedicare tutto il nostro sforzo e la nostra esperienza a rendere possibile ed incontrabile questa grande, unica chance per gli uomini del nostro tempo. Ora do la parola al Cardinale Danneels permettendomi di ricordare una cosa molto importante. Due anni fa è stato fra noi in questo stesso salone, nella mattinata in cui venne Madre Teresa di Calcutta e quando Madre Teresa arrivò, Sua Eminenza interruppe la sua relazione e con un gesto molto semplice e molto squisito rinunciò a proseguirla, sussurrando a Bertazzi che moderava l'incontro questa frase: "Di fronte al carisma, l'istituzione si fa in disparte". E quando noi sentiamo dire queste cose ci viene il conforto, la volontà e la ragione per continuare a servire ed a contribuire con tutte le nostre forze alla vita della Chiesa ed alla sua missione nel mondo di oggi. Prego, Vostra Eminenza Cardinale Danneels.

G. Danneels:

Tutta la storia dell'uomo è un'avventura, l'avventura dell'uomo alla ricerca della propria vocazione alla realtà. Quando trova questa realtà, quando la capisce, quando l'utilizza, allora è felice. Quando è immerso nella solitudine, quando pensa che la materia è troppo dura, quando si sente ignorante, l'uomo è triste; e quando non trova rapporto o relazione con il mondo, entra in profonda crisi. Ecco, penso che l'uomo di ogni epoca, e quindi noi stessi che siamo qui riuniti, siamo tutti alla ricerca della realtà, come Orfeo è alla ricerca di Euridice. Ed è di questo incontro, di questa percezione, di questa alleanza con la realtà che vorrei parlarvi oggi. Dobbiamo quindi trovare un nuovo tipo di uomo. L'uomo come esiste ora è profondamente handicappato, almeno per percepire la realtà. È in crisi, abbiamo detto, non solo ora: è in crisi dall'inizio del mondo. E la crisi la possiamo vedere, la possiamo constatare, ad esempio, nell'arte. La pittura si dibatte con la realtà e il cubismo cerca di cambiare, di lavorare e di fare delle ricerche. La musica, anch'essa, sta cercando una nuova relazione con la realtà. Basti pensare ad esempio alla Passione di San Luca, del compositore polacco Pendereszky. In quell'opera d'arte, oltre un'ora e mezza di durata, vi sono solo suoni dissonanti, soltanto l'accordo finale è un accordo consonante. È un'immagine, certo, è lo specchio di questa rottura, di questo sfaldamento tra l'uomo e la realtà. Guardate l'amore come si dibatte con la realtà, la cerca, come Don Giovanni, cambiando l'oggetto: la cerca più profondamente, pensiamo alle grandi ideologie e alle loro crisi. Siamo anche in crisi nella nostra percezione della realtà e per trovare un rimedio a ciò bisogna creare, forgiare un uomo nuovo, con un altro sguardo ed un altro cuore. Allora, qual è questo uomo? Dato che la realtà è paradossale, l'uomo stesso è paradossale, ed ecco che vorrei indicarvi, così, qualche paradosso in più, per incamminarmi lentamente verso questo tipo di uomo nuovo che cerchiamo tutti. Un primo paradosso nell'uomo è, da un lato, una certa tendenza a pensare che tutto è animato, che in ogni fontana c'è una ninfa e che in ogni bosco c'è un fauno, che gli spiriti sono ovunque, che le forze occulte abitano tutti i luoghi. Tutto ciò, lo sappiamo è esistito da sempre nella storia dell'umanità, esiste ancora oggigiorno e credo che anche da noi, anche qui in Occidente, torni una specie di mistero, o meglio di mistificazione nella tentazione dell'uomo di essere stregone. Dall'altro lato, c'è una parte del corpo dell'uomo dove l'intera realtà è ovvia, evidente, è piatta, senza profondità, è completamente sfatata, non c'è nulla di speciale di particolare, di spirituale, è il mondo l'universo del laboratorio, del fisico che cerca l'efficienza del mondo, degli uomini, delle donne vestiti di camici bianchi. Sono due cose, due momenti, due tendenze che esistono nell'uomo: da un lato il senso del mistero, e sull'altro piatto della bilancia il mondo in profondità, il mondo piatto. Bisogna vincere, bisogna andare oltre, bisogna superare questa dualità, diventando che cosa? Diventando uomini che sappiano ancora meravigliarsi. Bisogna ritornare alle fonti della filosofia antica greca, laddove il filosofo dice che l'unica cosa che fa è di meravigliarsi, stupirsi. Allora ritroviamo quest'uomo, quest'uomo che ammira, che si stupisce, che si meraviglia, ritroviamo la poesia, la pittura, la musica, l'amore in tutte le sue manifestazioni. Ritroviamo, per esempio, nella pittura questo cambiamento dello sguardo che si porta agli oggetti ed alle cose. C'è stata un'epoca in cui, nella storia dell'umanità, la pittura si limitava a copiare più fedelmente possibile la realtà. Pensate un attimo ai bei quadri dei primitivi fiamminghi, dove la Santa Vergine è una semplice ragazza dipinta col massimo dettaglio possibile, con i gioielli, con i vestiti, con le trine. C'è un'opera pittorica che ha cercato di avere la padronanza totale della realtà ed è stato il movimento chiamato cubismo. Torniamo all'icona, una pittura non particolarmente bella, che certamente non è copia della realtà, una pittura di stupimento, di meraviglia (…).Una seconda cosa, ora: nel corso della storia l'uomo si è sentito impotente di fronte alla natura, di fronte al mondo, basti pensare alla peste nel Medio Evo, al fatalismo, ai pianti di tante e tante generazioni di uomini; nel cuore dell'uomo, da qualche parte, c'è questo senso e sentimento di impotenza. Dall'altra parte c'è l'uomo della manipolazione, che crea la tecnica che può essere ed è utile, ma che può anche rompere, spezzare, opprimere, schiacciare la realtà; è un paradosso, questo del cuore umano, l'impotenza da un lato e l'onnipotenza della tecnica dall'altro. Che fare quindi? Ritrovare un uomo che trovi il senso della gratuità, un uomo che trovi l'equilibrio tra intervenire nel mondo e rispettarlo. Un fiore tagliato e messo in un vaso, su una scrivania, mi piace, però mi piace ancora di più quando è insito nella natura, nel giardino: bisogna ritrovare la capacità di non manipolare se non nella misura in cui può servire l'uomo. Pensate un attimo all'ecologia: per fortuna riscopriamo il senso della natura, ma è un po’ ambiguo questo sentimento. Perché vogliamo salvare gli alberi? Perché i nostri figli possano giocare sotto gli alberi, forse? Certo, ma dovrebbe essere perché gli alberi sono stati creati da Dio e vanno rispettati. C'è un'immensa differenza fra proteggere la natura per sopravvivere e proteggere la natura per servire Dio. Bisogna ritrovare questa gratuità, questo senso delle azioni di grazia. Una terza cosa: nell'uomo e nel cuore dell'uomo c'è il senso del meraviglioso. C'è stata un'epoca dove tutto era popolato da esseri invisibili, laddove i Santi e gli Angeli erano quasi evidenti: è il mondo di Dante, è l'universo dei grandi pellegrinaggi del Medio Evo, è il mondo di San Francesco d'Assisi, di San Bernardo e di San Domenico dove l'invisibile è evidente. Nessuno doveva provare Dio, Dio era lì e veniva accettato. Poi arrivò la rottura, lo sfaldamento: dapprima l'invisibile è diventato oggetto di dubbio. Esiste, non esiste? Poi l'invisibile è diventato inesistente, infine l'invisibile è diventato nocivo e solo l'empirico, il quantitativo, il misurabile, il sensibile presentano interesse. Ecco un terzo paradosso, quindi, insito nel cuore dell'uomo che va e viene tra il senso del meraviglioso e il sentimento della demistificazione totale. Che fare quindi? Dobbiamo ritrovare uno sguardo sulla realtà che veda veramente la profondità delle cose, non perdiamoci nel facile sogno del meraviglioso, ma nemmeno dobbiamo essere piatti e senza profondità. C'è da qualche parte, nella retina del nostro occhio, un punto detto cieco ed è il punto in cui si vede la profondità delle cose. È da lì che Romano Guardini disse: "Bisogna ritrovare questo sguardo, lo sguardo in profondità". Questa perdita dello sguardo in profondità costituisce il dramma della liturgia odierna, dove abbiamo ritrovato parecchie cose e si sono fatti grandi progetti. Tutti i sensi del corpo sono entrati e coinvolti, l'orecchio è aperto perché si parla con la lingua di tutti i giorni, la lingua si è aperta, si canta, si cammina, ci si muove, si respira, ma una cosa manca: l'occhio interno, l'occhio contemplativo, quell'occhio pittore, che vede oltre il pane, oltre il vino, oltre i segni che percepisce. Quindi, l'invisibile nel silenzio e nell'immobilità. Bisogna ritrovare questo sguardo interiore, se vogliamo completare la riforma liturgica: e non è sufficiente cantare, non basta ascoltare, non basta muoversi, camminare, non bastano i suoni e i colori nella liturgia. Bisogna guarire dalla nostra cecità e ritrovare lo sguardo interiore per vedere oltre i segni. Un quarto paradosso: da un lato l'uomo si sente impotente, è una formica nell'universo, è un po’ come quando ci si trova alle falde di un monte o di un tempio in Egitto, per esempio, quando si guardano le statue immense dei faraoni: l'uomo è una formica nell'universo, un piccolo costruttore di piramidi. D'altra parte, l'uomo ogni tanto ha l'impressione di essere capace di tutto, anche di tutti i mali, di tutte le cose negative. Il fondo dell'umanità è senza misura, e nello stesso tempo il corpo e il cuore umano sono impotenti. Altre volte questo corpo e questo cuore si sentono Dio e l'uomo allora pensa: ce la faremo, vinceremo tutte le nostre difficoltà, cambiamo il sistema economico, aboliamo la differenza tra le classi, creiamo un nuovo mondo, in cui tutti gli uomini saranno fratelli e sorelle e potremo tutto senza Dio, senza padre. Ebbene, per risolvere questo paradosso nel cuore umano tra la piccolezza della formica e la grandezza faraonica bisogna ritrovare il vero senso della libertà umana che è una libertà reale, autentica, fantastica, potentissima, ma condizionata; una libertà che deve autoregolamentarsi, come si dice oggi, perché se non lo fa si distrugge da sé. Per la prima volta nella storia dell'umanità dobbiamo, noi che siamo capaci di andare sulla luna, sui pianeti, entrare fino nel cuore della materia, noi stessi, volontariamente, porre dei limiti alla nostra libertà, convertirci all'obbedienza, a Dio, alla natura e anche agli uomini, per ritrovare il vero senso della libertà umana. Contemporaneamente, dobbiamo ritrovare il senso della legge e aderire alla legge di Dio, alla legge degli uomini e alla legge dell'umanità. Perché la legge libera, non chiude in una prigione; e se vogliamo risolvere questo paradosso tra la pochezza dell'uomo e la sua impotenza da un lato, e dall'altro i suoi sogni di faraone, ebbene è ora di ritrovare il vero senso della libertà umana. Chi ci aiuterà a ritrovare questo senso della libertà umana se non colui che è venuto per liberare l'uomo dalla sua libertà e quale legge potrà salvarci se non la legge di Mosse e la legge della montagna? Quinto paradosso: l'uomo da un lato è chiuso in sé, introverso, si accontenta di se stesso e per salvarsi trova tecniche, saggezze, specchiandosi e prendendo il cammino che porta all'interno di se stesso, verso un santuario dove, purtroppo, c'è soltanto un idolo. L'io divinizzato, ecco un altro brandello del cuore dell'uomo. D'altra parte, nell'uomo c'è la tendenza contraria, verso l'esterno, a perdersi in mille cose, a correre errabondo nel mondo, a fuggire se stesso. L'uomo del divertimento è Don Giovanni, che cerca l'assoluto attraverso una serie di relativi successi e che in questo cammino trova sempre, alla fine, se stesso, cioè l'idolo dell'io insoddisfatto. Che fare quindi? Ritrovare il senso della vera interiorità, un cammino verso il cuore dell'uomo, verso il vero santuario dell'uomo, laddove non ci sono più idoli, dove si trovano Dio, la Trinità, lo spirito di Cristo e la compassione con tutti gli uomini di ogni tempo. Questo cammino dell'interiorità per ritrovare il microcosmo della nostra anima: come diceva San Bernardo, di cui l'anno prossimo festeggeremo il centesimo anniversario della nascita, agli scolari dell'università di Parigi: "Di grazia, abbiate pietà delle vostre anime". Cercare un'interiorità è la via verso il santuario che la Bibbia e i Padri della Chiesa chiamano il cuore dell'uomo, il luogo della carità, il cuore abitato da Dio, plasmato dal suo amore per tutti gli uomini. Sesto paradosso: l'uomo è un essere di miseria e di bisogno e questo è il destino di ogni uomo, anche di coloro che vivono nel lusso, ma soprattutto del Terzo e Quarto Mondo, è la povertà imposta che Dio condanna (…). Dall'altro lato c'è l'uomo del consumo, del lusso, del possedere tutto immediatamente, subito e per sempre: è sempre Don Giovanni che cerca gli oggetti, gadgets, ma che nel profondo è abitato, è assetato di assoluto. Pur peccatore, non condannabile ma è perdonabile. Ecco un paradosso: miseria dell'uomo e lusso dall'altra parte, lo scandalo tra il Nord e il Sud, nel mondo. Che fare? Combattere la fame, certo, ma iniziare da qui, da adesso, a ritrovare il senso della sobrietà, della povertà volontaria, non imposta, quella che noi imponiamo a noi stessi. L’uomo moderno, se vuole ritrovare il vero rapporto con la realtà, deve ritrovare ciò che i monaci di ogni tempo hanno trovato: rendere alle cose la loro verità, essere sobrio e vero negli alimenti, amare l'acqua. Essere sobrio anche nella parola, imporsi una povertà di linguaggio, entrare nel silenzio, avere il senso dell'adorazione e non della manipolazione, della contemplazione. Girare intorno senza toccare, ritrovare il senso della grandezza di Dio, ritrovare la gioia semplice della convivenza, della fraternità, ritrovare il senso della creazione, della cultura, con mezzi semplici; e ridare il valore alle parole, perchè le parole sono svalutate, svilite, ritrovando il senso delle espressioni. Soprattutto ridare la priorità a Dio, all'invisibile, all'intoccabile, all'adorazione, all'azione di grazia, al non efficace, al non efficiente che in realtà è la cosa più efficace. In altri termini, se vogliamo guarire dobbiamo ritrovare l'uomo delle beatitudini: altri Francesco, altri Bernardo, altre Santa Teresa di Lisieux, altre Bernardette si alzino sennò non ne verremo fuori. Settimo paradosso: uno dei maggiori problemi dell'uomo moderno è di saper gestire il negativo, i propri limiti. E qui il rapporto con la realtà è profondamente scosso. Ci sono tre ambiti nei quali bisogna gestire la negatività. Il primo ambito: saper gestire la propria finitezza, accettare i limiti, quindi, del nostro potere. Questo non significa certo ricadere nel fatalismo dei secoli oscuri, e nemmeno nel fatalismo delle cosiddette nuove saggezze. Questo significa non cadere nel beato ottimismo di un progresso illimitato, senza nubi, una specie di trionfalismo che forse abbiamo conosciuto negli anni Sessanta e Settanta. Oggi queste ideologie sono, morte. Però dobbiamo saper gestire la nostra finitezza, non possiamo tutto. Possiamo tanto, molto, certo con Dio tutto è possibile, ma non se perdiamo Dio. Secondo ambito: saper gestire la colpa e i limiti del nostro essere morale. Non siamo santi, o almeno non canonizzabili, non siamo degli eroi, siamo degli uomini, poveri e di buona volontà. Cadiamo, inciampiamo.Allora dobbiamo saper gestire la nostra colpevolezza, gestire gli smacchi, gli insuccessi, gestire le nostre colpe, gestire tutto ciò che di negativo c'è nella nostra vita, perché è un mito quello di credere o di pensare che siamo innocenti. Ci sono due miti da evitare: il primo è il mito dell'onnicolpevolezza, che tutto è cattivo e che non siamo capaci di nulla, una massa comunque condannata. Ciò porta semplicemente alla nevrosi della colpevolezza, e la miglior prova per verificare se viviamo in questo mito è la tristezza. Ma c'è un altro mito, quello dell'innocenza, un'innocenza sognata, ogni giorno negata, contraddetta a ogni passo, a ogni momento, perché cadiamo, inciampiamo. E questo porta a un'altra nevrosi che rende ammalati come la prima, la nevrosi dell'innocenza, e la cartina di tornasole di questo senso dell'innocenza è l'ipocrisia farisaica. Parliamo, pensiamo così, ma il nostro cuore è diverso. Un altro test è la noia, un altro ancora il coma spirituale. Dobbiamo quindi ritrovare i mezzi per gestire la nostra colpevolezza. Per fare ciò, bisogna accettare il fatto che esiste il Redentore, più di un modello, perché un modello lo possiamo solo imitare ma con le nostre forze, un Redentore invece lo si può imitare, ma è lui che ci salva. Per poter gestire il peccato infatti abbiamo bisogno di Cristo, più che modello, Cristo Redentore e Salvatore. E chiedo a Dio ogni giorno, per i grandi e per i piccoli, per i giovani e per i più anziani, di fare intervenire un giorno o l'altro nella loro esistenza l'esperienza del perdono di Dio. Incontrare Dio nella sua tenerezza e nella sua compassione, direi quasi trovare la maternità di Dio accanto alla sua paternità, perché Dio è padre e madre nel contempo (…). Ed è gestendo la colpa, il peccato, trovando il perdono, scoprendo la compassione di Dio, scoprendo la nostra pochezza e umiltà che potremo creare finalmente nel mondo una civiltà dell'amore, perché la civiltà dell'amore inizia col perdono illimitato di Dio e il perdono limitato degli uomini nei confronti degli altri uomini. Saper gestire la propria finitezza, saper gestire la colpa, terzo limite, saper gestire la morte, superare il timore della morte, considerata oggi una fatalità o un incidente. Non seguiamo in questo la nostra civiltà che fa un maquillage della morte per sradicarla, eliminarla, per allontanare i defunti dalla vita. Questa paura della morte, di cui nella nostra civiltà nessuno più parla, onnipresente ma silenziosa: le maggiori sofferenze sono quelle non confessate e la morte fa parte di queste. Integriamo la morte alla vita, fa parte della vita! Se siamo cristiani, la morte non è la fine, non è un incidente di percorso qualcosa che bisogna dimenticare il più rapidamente possibile, la morte è una nascita. Ogni tanto si sentono delle persone che dicono: nessuno è mai tornato per dire cosa c'è dopo la morte. Sì, uno è tornato: Cristo (…). Se un rapporto con la grande avventura umana vogliamo ritrovare, dobbiamo cambiare noi stessi per diventare uomini nuovi e guarire le nostre relazioni con il mondo, integrarle, completarle. Io vedo soltanto una possibilità, perché da nessuna parte, nella lettura religiosa dell'umanità, trovo il messaggio di un uomo nuovo, creato nello spirito: solo nella Bibbia e nel Nuovo Testamento vedo Cristo che può farci e renderci nuovi. Allora quest'uomo nuovo, spirituale ma nel corpo, contemplativo ma attivo, interiore ma rivolto verso gli altri, deve nascere in noi e s tra - qui mi riallaccio ai sette paradossi precedenti - un uomo che sa stupirsi, meravigliarsi davanti a Dio, davanti al creato, davanti all'umanità, davanti alla storia e davanti a se stesso. Sarà un uomo della gratuità, dell'azione di grazia, che non ha diritto a nulla ma possiede tutto. Un uomo guarito nel punto cieco della propria retina, con l'occhio interiore aperto, che ha ricevuto quindi il dono dello sguardo sulle cose e sugli esseri, in profondità. Sarà un uomo dell'interiorità, che entra nella sua camera interna, non come se ne parla in certe saggezza laddove si adora se stessi come un idolo, ma per adorare la Trinità che è in lui. Sarà un uomo che cercherà la povertà volontaria, la sobrietà le abitudini e i consigli evangelici. Sarà un monaco, nel mondo o fuori dal mondo, ma col cuore del monaco. Sarà un uomo che saprà gestire le negatività, la propria finitezza e non farne motivo di depressione, la colpa e il peccato, un uomo perdonato e che perdona e infine un uomo che non ha paura della morte perché resusciterà ed è già resuscitato. L'uomo, l'unico essere che abbia la padronanza dei propri paradossi: quest'uomo, discepolo di Cristo, andrà oltre Scorate, andrà oltre Sherlock Holmes, andrà oltre Don Giovanni, andrà fino a Dio tramite Cristo.

  1. Vitali:

Grazie a Sua Eminenza perché ci ha indicato in modo così vivo e pertinente che l'uomo nuovo che nasce da Cristo riconquista la verità della vita attraverso i paradossi della sua esistenza, emerge attraverso una lotta: essere riconquistati dalla verità non è acqua fresca, è una lotta, come citando la Bibbia spesso, in questi giorni, ci ha ricordato Giancarlo Cesana che non dice mai una parola a vanvera. Una lotta per riguadagnare lo stupore e la gratuità dell'essere amati, per quella costruzione che, attraverso le opere e attraverso tutta la paziente fatica di esprimere la gratuità, la povertà nei rapporti con tutti, vogliamo continuare a fare. Prima che applaudiate per ringraziare, voglio associare in questo applauso Mons. Edoardo Ricci, vescovo di San Miniato, che ha voluto onorarci della sua presenza in sala. Grazie ancora.