EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Dopo l’Euro il lavoro

In collaborazione con Unioncamere

Giovedì 26, ore 16.30

Relatori:

Benito Benedini,
Presidente Assolombardo

Luigi Bobba,
Presidente Acli

Sergio D’Antoni,
Segretario Generale Cisl

Benedini: Dopo l’Euro il lavoro: per questo appuntamento, anche se non è stata fissata nessuna data particolare, noi siamo già in ritardo. Tutta l’Europa, ma ancora di più il nostro paese. Ora l’Euro è una realtà acquisita, ma l’Europa appare ancora troppo debole. Né la lotta per sconfiggere la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo, né i progetti di ampliamento dell’Unione sembrano avere uno spessore in grado di sollevare tensioni forti in progettualità condivise. E accanto alle difficoltà politiche resta il divario di competitività dell’Europa verso gli Stati Uniti e dell’Italia verso l’Europa. Già al tempo della missione dell’Italia all’Unione Europea, noi imprenditori eravamo convinti che l’Europa, per evitare il rischio di vedere contrarre le proprie prospettive di sviluppo e di occupazione, avrebbe dovuto nel suo insieme rispondere tempestivamente alle necessità di cambiamento determinate dalla moneta unica. Ebbene in realtà questo è ancora rimasto sulla carta. Questo criterio dovrebbe ad esempio guidare il nostro paese alla regolamentazione di nuove forme di lavoro che si vanno sempre più diffondendo. Minori vincoli possono non solo soddisfare le esigenze delle imprese, ma anche soprattutto i bisogni dei tanti individui che legittimamente aspirano ad entrare nel mercato del lavoro e credono nel diritto di costruirsi una vita professionale a misura delle proprie attese. Il patto che abbiamo firmato a Milano a fine luglio va in questa direzione.

Non penso affatto ad una mancanza di regole, penso invece a regole fondate su una visione moderna dei rapporti professionali sulla concertazione e sulla consapevolezza che la capacità di adeguare i ritmi dell’impresa ai cambiamenti imposti dal mercato è un fattore fondamentale di competitività e di successo e quindi di sviluppo. Perché da un lato ci sono esigenze nuove, soggettive, esigenze che gli individui manifestano nelle realtà economiche più avanzate. Ne è un esempio Milano, dove la stessa evoluzione del sistema evolutivo fa crescere nelle persone un bisogno forte di libertà di realizzazione, anche attraverso una gestione autonoma del proprio tempo e della propria professionalità. Dall’altro c’è l’esigenza oggettiva di ridurre la disoccupazione soprattutto dove le proporzioni, le quantità del fenomeno non sono assolutamente accettabili. Penso al Mezzogiorno, per il quale non sono stati ancora attivati strumenti adeguati. Anche a questo proposito è utile citare un’esperienza: Assolombarda ha firmato un patto con Crotone per il lancio di quell’area, per utilizzare il così detto contratto d’area. Ebbene, abbiamo trovato imprenditori che avrebbero investito, che erano pronti a investire: sono passati dodici mesi. Questo perché ci siamo trovati una realtà dove le leggi non sono finanziate; l’illusione si è subito trasformata in disillusione, anche perché si sono incontrate pastoie burocratiche che pensavamo fossero state superate.

Noi siamo abituati a fare il nostro lavoro, non chiediamo assistenza, ma se ci dicono che ci sono degli incentivi, questi incentivi ci devono essere veramente, non possono esserci soltanto delle notizie sulla stampa. Nel nostro DNA di imprenditori c’è l’investimento; è solo attraverso l’investimento, lo sviluppo, che si crea l’occupazione. Non conosco altre equazioni. Però, per far si che vengano fatti gli investimenti, si deve creare una situazione di fiducia, fiducia che in questo paese non c’è più, o per lo meno è molto diminuita.

I giovani sono i più penalizzati sul piano dell’occupazione, ma sono anche la grande risorsa che il paese ha a disposizione per costruire il proprio avvenire. Il paese ha il dovere di investire sui giovani, dando loro l’opportunità di costruirsi un futuro. Questo per me è il significato del lavoro: qualcosa di importante, oltre che necessario. Il lavoro è un’esperienza funzionale, una via per avere una forma di riconoscimento sociale, in termini di prestigio, di carriera e di guadagno: ma è anche un mezzo di realizzazione e di emancipazione personale, uno strumento di espressione, di miglioramento della capacità dell’individuo e un’occasione di crescita anche culturale. Il lavoro è un mezzo di socializzazione, un’occasione di relazioni; è un modo per realizzare il pieno diritto alla cittadinanza. Attraverso il lavoro l’uomo entra a far parte di una organizzazione collettiva, l’impresa che consente alla collettività di progredire nel suo insieme: nel lavoro l’impegno del singolo trova una sua dimensione etica.

Il lavoro è quindi un valore per riconquistare la centralità dell’uomo: per questo affermo che il paese ha il dovere di investire sui giovani. I valori in cui la mia generazione ha potuto credere, devono essere anche quelli dei giovani. In tutto questo io credo che sia assolutamente centrale il ruolo delle parti sociali. La difesa della capacità competitiva del nostro sistema economico, e quindi la capacità di produrre ricchezza, la capacità di creare sviluppo, di attivare occupazione, si fonda oggi più che mai anche sull’adozione da parte delle varie componenti sociali di comportamenti compatibili con una società industriale moderna. Questo include lo sviluppo del metodo concertativo: mi riferisco ad iniziative di imprenditori che siano finalizzate a difendere la cultura della responsabilità, alla crescita di una cultura industriale da parte del mondo politico e sindacale, ed alle relazioni industriali che devono essere adeguate alla nuova realtà economica. Nello scenario dei prossimi anni la sfida della competizione coinciderà sempre più con quella della competitività e della flessibilità, del cambiamento, fenomeni a fronte dei quali non si può essere vincenti senza la partecipazione attiva di tutti coloro che operano in azienda. Non è possibile avere successo nella competizione globale partendo da un ambiente dove prevalgono relazioni di tipo antagonistico. Sviluppare relazioni partecipative deve diventare l’ambito su cui imprese e lavoratori dovranno impegnarsi in futuro.

Per quanto ci riguarda, non è possibile avere successo nella commutazione globale senza affrontare i nodi strutturali di questo paese che rappresentano altrettanti ostacoli alla crescita e allo sviluppo. Mi riferisco alle carenze infrastrutturali; mi riferisco al fisco inteso non soltanto come imposte ma anche come costo della contribuzione sociale che è il vero abisso che sta fra noi e gli altri paesi europei; mi riferisco alla pubblica amministrazione che credevamo di riuscire ad abbattere con Bassanini, ma rispetto alla quale purtroppo ancora oggi siamo ancora molto lontani dal raggiungere gli obiettivi che erano stati prefissati. Infine, mi riferisco ai due nodi strutturali di questo paese: la riforma sanitaria e la stabilizzazione del sistema pensionistico. Parlando di riforma sanitaria, della riforma che aspettiamo da molto tempo, non intendo certo la "riformetta" fatta dal ministro Bindi, che gli vale la maglia nera di peggior ministro della prima e della seconda Repubblica. È paradigmatico l’esempio di Milano. A Milano, con il Presidente Formigoni, e con la struttura del Policlinico avevamo pensato di fare una fondazione di diritto privato del Policlinico. Tutti erano d’accordo, regione, sanitari stessi. Naturalmente, siccome è una clinica universitaria ci voleva il permesso del ministro che, puntualmente, è stato negato.

Per quanto invece riguarda la stabilizzazione del sistema pensionistico, vorrei anzitutto far notare che l’imprenditore non parla di "riforma" del sistema pensionistico, bensì di "stabilizzazione". È un imperativo: occorre razionalizzare la spesa previdenziale con un innalzamento adeguato della soglia dell’anzianità, salvaguardando naturalmente le fasce deboli, e soprattutto, ed è questo il vero segreto, con una definitiva attuazione della previdenza integrativa. Ritardare ancora su questi fronti vuol dire affrontare sempre la solita prospettiva pensionistica per i giovani e frenare una mobilitazione di capitali che potrebbe dare un impulso significativo all’espansione del mercato quindi allo sviluppo.

Concludo dicendo che queste scelte sono per il paese necessarie: di fronte ad esse è necessario ricercare una soluzione il più possibile condivisa, con la consapevolezza che una decisione vada comunque presa. Chi ha la responsabilità delle politiche per lo sviluppo ha il dovere di esercitare questa responsabilità, ha il dovere di preoccuparsi tanto del presente dei cittadini più anziani, quanto del futuro di quelli più giovani, ricercando la soluzione più efficace ed equa per esercitare, attraverso il sistema sociale, la solidarietà tra le generazioni. Per la cultura e l’impresa quale sia questa soluzione è chiaro, è quella che supera la logica della distribuzione delle risorse, per abbracciare invece quella della produzione delle opportunità che il paese – tutti insieme: governo, imprenditori e sindacati – deve assicurare ai giovani per trasformare le speranze della gioventù in certezze del futuro.

Bobba: Apparentemente, le associazioni, il non profit, il terzo settore, sembrerebbero non avere nulla a che fare con il tema di cui stiamo discutendo. Ho utilizzato tre termini diversi per indicare un soggetto che ha degli elementi comuni. Eppure, questo soggetto entra nel dibattito, perché ha incominciato a prendere una forma, a darsi un’organizzazione, una rappresentanza: è un soggetto che si pone dal punto di vista delle realtà associative e cioè di quei soggetti che creano, producono socialità, integrazione, mobilitazione sociale, difesa civica; sono soggetti che da qualche tempo sono diventati anche dei soggetti generatori di attività economiche e lavorative che producono e vendono dei beni e dei servizi sul mercato; sono comunque dei soggetti che hanno una rilevanza economica. Cercherò di rappresentare brevemente il punto di vista di questi soggetti, che hanno come scopo non tanto quello di essere dei produttori di economia ma soprattutto dei produttori di socialità; ma allo stesso tempo si sono poco per volta inseriti nel mercato ed hanno così acquisito una fisionomia che ne fa un potenziale rilevante per il futuro, potenziale che lo stesso ex Presidente della Commissione Europea Jacques Delors aveva ben individuato nell’ormai celebre Libro bianco, tanto citato quanto poco praticato. In quel libro bianco c’era un identificazione chiara: questi soggetti potevano essere un potenziale rilevante per il futuro perché si occupano di quella tipologia di attività di settori, di servizi, di iniziative, nel quale è difficile sostituire il lavoro delle persone con le macchine, con le tecnologie.

Se dunque questi soggetti diventano un elemento qualificante della possibile nuova Europa, c’è da domandarsi se questo obiettivo del lavoro sia un obiettivo che ha una consistenza, un significato, se assume la dimensione di un simbolo di un qualche rilievo, o se rimane un lungo estenuante parlare, tale che le scelte vengono fatte in un’altra direzione. Ho l’impressione che sia almeno in parte così, anche perché le politiche che l’Unione Europea si è data sono al massimo di coordinamento tra i diversi Stati, senza che vi sia alcun vincolo, né sul piano simbolico né sul piano dei parametri, quei parametri che furono vincolanti per il così detto "patto di stabilità": inflazione, debito pubblico, tassi di interesse. Nulla del genere esiste nel campo del lavoro e di fatto ciascuno Stato, ciascuna nazione pur dopo i mille vertici che hanno avuto luogo, procede con un qualche coordinamento ma senza una vera dimensione europea del problema. Basti ricordare quando più o meno un anno fa l’ex presidente del Consiglio Prodi designato a Presidente dell’Unione Europea lanciò l’idea di utilizzare le riserve di valuta internazionali che le banche centrali detenevano (in particolare in yen e in dollari) trasformandoli in un prestito obbligazionario a lungo termine da affidare alla nuova Banca Centrale Europea. Lo scopo era creare una grande iniziativa affidata a delle aziende private in tutta l’Europa: ebbene di fronte a questa idea, vi furono risposte di sufficienza o di tracotanza, come se non fosse chiaro che non c’era più bisogno che le banche centrali detenessero una mole di risorse di valute, essendoci ormai l’euro. Questo esempio mostra chiaramente che c’è innanzitutto da compiere una mobilitazione culturale, una iniziativa politica: solo così questo tema assumerà la rilevanza e la capacità di mobilitare energie collettive nei confronti di un traguardo che si rende sempre più necessario.

Mai come oggi viviamo in un continente ricco, benestante, perfino opulento, potente sul piano tecnologico, ma quasi incapace di darsi un progetto per affrontare le due grandi emergenze di questo tempo: la mancanza di lavoro e l’esclusione sociale. Se questo è il quadro che abbiamo nella dimensione europea, l’Italia, come è emerso anche recentemente, non è certo nei primi posti per quanto riguarda le politiche per la creazione di lavoro, tant’è che siamo il fanalino di coda rispetto alle persone che non hanno una possibilità di lavoro. Vi sono alcune caratteristiche, specialmente alcuni difetti del nostro mercato del lavoro che sembrano riprodursi continuamente dagli anni Sessanta in poi; anzitutto, la popolazione che lavora, nonostante dagli anni Cinquanta ad oggi la popolazione italiana totale sia cresciuta di quasi 10 milioni, è rimasta sempre circa uguale, intorno ai 20 milioni. Questo significa che l’occupazione, il numero degli occupati non è mai cresciuto. C’è poi, è evidentissima, la forbice Nord-Sud che è sotto gli occhi di tutti, che è il vero cuore del problema; c’è poi un’altra caratteristica tutta italiana, la percentuale del lavoro sommerso, che nel nostro paese ha una dimensione quantitativa assolutamente spropositata; l’ISTAT ci dice che è intorno al 27% del totale delle forze lavoro. Questo significa che un lavoratore su cinque nel Nord, uno su tre nel Sud non viene contabilizzato.

Di fronte a tutto questo ci sono state alcune politiche ricorrenti, che di fatto hanno confermato questi nodi strutturali. La prima politica è stata quella di una azione indifferenziata, come se Treviso e Caltanissetta fossero una realtà simile. Il secondo dato politico è che ancora oggi lo Stato italiano spende più soldi per le politiche cosiddette riparative – cassa integrazione, indennità, disoccupazione – piuttosto che per le politiche promozionali; è come se si intervenisse sempre quando la malattia è già conclamata, e non quando invece se ne possono prevenire perfino i sintomi. Terzo ed ultimo elemento è che in molti casi, proprio per l’associarsi di politiche che hanno avuto una natura più assistenziale e più indifferenziata, si è coperto il problema con grandi dichiarazioni di principio e non si sono invece valorizzate tante piccole esperienze di quei soggetti che hanno cominciato a cercare di affrontare questo tema. C’è stato uno spreco di risorse, di potenzialità che già ci sono e che non hanno trovato uno sbocco di carattere istituzionale; il numero delle persone che non sono al lavoro nel nostro paese produce una mancata ricchezza, un mancato prodotto interno lordo che è pari al valore doppio che aveva avuto nel dopoguerra il "piano Marshall". Questo significa che se dovessimo veramente mettere al lavoro tutti in Italia, dovremmo immaginare una specie di doppio piano Marshall come elemento mobilitante e qualificante di una vera e propria ricostruzione del paese, in grado di offrire, in particolare alle generazioni più giovani e alle generazioni del Mezzogiorno, un’opportunità che oggi rischia di essere sostanzialmente una chimera.

Concludo con un’ultima osservazione. Il soggetto di cui parlavo all’inizio, il soggetto associativo, il soggetto non profit, il soggetto terzo settore, è in Italia una realtà che comincia ad avere una sua legittimità anche se ha da sempre avuto una sua consistenza; proprio per il fatto che non è descritto, non è misurato, non è "ridotto" a statistica, non ha né volto, né voce, né possibilità di parlare. Eppure è molto probabile che noi non siamo più indietro dell'Europa in questo campo, ma siamo più avanti, perché sono state finora trovate soluzioni, modalità più creative, più capaci di affrontare i nuovi bisogni. Molte ricerche ci dicono che ormai questo terzo settore non produce solo occupazione sostitutiva, quella dismessa dal pubblico impiego, ma produce occupazione aggiuntiva, perché va spesso a coprire bisogni che non erano coperti dalla pubblica amministrazione. Una recentissima ricerca dimostra che anche i livelli di remunerazione del terzo settore non sono affatto peggiori di quelli delle istituzioni pubbliche: c’è una capacità di trovare soluzioni che si adattano a questa domanda di personalizzazione dei bisogni di cura, di servizi, di iniziative nel campo ambientale, di nuove iniziative per far sorgere soprattutto a livello territoriale delle risposte innovative nel campo delle politiche locali per l’impiego, che rappresentano un potenziale per il futuro. Le realtà associative, tra cui la Compagnia delle Opere, sono un potenziale, sono una risorsa per questo paese: per questo vogliamo prendere parte a questa fase di cambiamento, di innovazione, di crescita del paese, mettendo a disposizione una potenzialità che è in grado di creare futuro.

D’Antoni: Vorrei che a questo punto del nostro dibattito ci concentrassimo sul rapporto tra l’Europa, la moneta, lo sviluppo e il lavoro. Sono convinto che quello che abbiamo fatto per il raggiungimento della moneta unica, come paese, come singoli cittadini, come lavoratori, come insieme sia stato forte, utile, indispensabile. L’Europa per noi è una dimensione autentica, una nuova vera prospettiva per cercare di competere in un mondo che come vediamo determina sempre di più questi rapporti tra i grandi aggregati. Competere con gli Stati Uniti, con il Giappone, con aree sempre più vaste, è possibile se ci sono soggetti grandi in grado di affrontare le questioni che si pongono in termini nuovi e diversi. È difficile pensare ad una ipotesi di competizione tra singoli Stati, perché il rischio sarebbe un’illusione incredibile senza prospettive; l’unica vera possibilità che abbiamo è di costruire l’Europa non solo nella moneta ma nell’insieme di una politica che sia in grado di far diventare l’Europa un soggetto vero, economico, sociale e politico in grado di competere con gli altri paesi, e allo stesso tempo un soggetto con criteri e con caratteristiche importanti che siano frutto della storia europea. In altri termini, noi pensiamo che bisogna competere con equità.

Se la competizione è sicuramente la prospettiva entro cui siamo tutti immersi come soggetti individuali e soggetti collettivi, lo sforzo che dobbiamo fare è di pensare come questo diventa praticabile attraverso un percorso di equità, di cambiamento, di sostanziale redistribuzione della ricchezza in maniera equitativa. Assistiamo invece per naturalezza ad un rischio formidabile di una distribuzione iniqua del sapere, del potere, dell’avere, le tre grandi questioni che abbiamo davanti. Dobbiamo potere dare una possibilità di lavoro a tutti, quindi distribuire l’avere in termini di equità; dobbiamo consentire, attraverso una conoscenza più diffusa, una distribuzione sempre maggiore del sapere; rischiamo invece che le menti che sanno siano sempre di meno, e quelli che debbono praticare, debbono ascoltare, siano i pochi che sanno. Lo stesso, infine, vale per il potere: il potere si concentra in poche mani mentre noi abbiamo bisogno di allargare la partecipazione convinta di milioni di persone alle decisioni che li riguardano in maniera diretta. Trovare la via per distribuire equamente questi tre grandi fattori è la grande scommessa che hanno tutte le democrazie in Europa e in Italia. Non c’è una via chiara, non esiste più. Non esiste più un percorso frutto di ipotesi predeterminate, esiste la ricerca possibile di valorizzazione di percorsi nuovi da mettere in moto; è su questo che si chiede a tutti noi soggetti individuali e collettivi una vera e nuova sfida, una nuova collocazione. Non possiamo fidarci più delle certezze passate, non possiamo fidarci più dei rapporti e del tipo di collocazione che abbiamo avuto nel corso di questi anni; si chiede a tutti una collocazione nuova e diversa.

Sicuramente è più facile parlare dei cambiamenti quando i cambiamenti riguardano gli altri. È molto più difficile invece parlare dei cambiamenti quando si parla di se stessi. La vicenda delle pensioni è un esempio clamoroso: tutti parlano di cambiare le pensioni, ma ognuno è convinto di stare parlando della pensione di un altro, mai della sua; perché quando scopre che è la sua dice di non c’entrare niente. Così, non si capisce che ormai o il cambiamento riguarda tutti oppure non funziona, non determina il passaggio necessario per ottenere i risultati che noi vogliamo sullo sviluppo e sul lavoro.

È questo cambiamento che ci ha portato in Italia ad adottare una politica che abbiamo chiamato di concertazione. Sulla politica di concertazione se ne dicono di tutti i colori, mentre si tratta in realtà di qualcosa di molto semplice: è una politica, non è un metodo. È una politica che consiste nel mettersi d’accordo sugli obiettivi da raggiungere e nell’impegnarsi ad avere comportamenti coerenti per il raggiungimento di quegli obiettivi. Niente di più e niente di meno. Non c’è scambio, non c’è consociazione, c’è solo l’assunzione di una responsabilità. L’inflazione è un nemico? Se l’inflazione è un nemico, condividiamo l’obiettivo di abbattere l’inflazione; e ci impegniamo tutti quanti ad avere comportamenti coerenti per evitare che l’inflazione cresca. Il sindacato con la politica salariale, le imprese non aumentando i prezzi, il governo non aumentando le tariffe, facendo funzionare la concorrenza e il mercato. Quest’ultimo punto è particolarmente importante. È utile, attraverso un percorso di concertazione, far funzionare la concorrenza e il mercato. Noi abbiamo sconfitto l’inflazione in questo paese – quando nessuno ci credeva – attraverso questa politica di assunzione di responsabilità; abbiamo determinato un vero cambiamento nelle questioni reali del paese, che hanno risanato la finanza pubblica e ci hanno consentito di raggiungere il gruppo di testa della moneta unica.

Tutto questo ha bisogno per progredire di una politica che sviluppi questo andamento e lo determini sia a livello europeo sia a livello nazionale. A livello europeo, non basta avere una politica e una moneta per avere uno sviluppo. Ci vuole la decisione di gestire l’Europa come un nuovo grande paese. Non possiamo continuare ad avere la moneta e a non avere la politica economica e sociale europea: i due fattori non possono essere separati. Abbiamo bisogno di un accordo tra i governi europei, con le parti sociali, per una politica dei redditi europea; questo non significa omogeneizzare trattamenti, salari, rendimenti, piuttosto omogeneizzare le dinamiche, ovvero inflazione, prezzi, tariffe, salari. È importante omogeneizzare le dinamiche a livello europeo, altrimenti c’è il rischio che l’Europa faccia a se stessa una concorrenza al ribasso, al suo interno. Se abbiamo rinunciato alla sovranità della moneta, che era la principale sovranità, non si capisce perché non dobbiamo rinunciare alla sovranità delle altre dinamiche; tuttavia, l’ostacolo difficile da superare è il modello nazionale, di cui tutti sono prigionieri.

Se trasferiamo tutto questo nel nostro paese, ci accorgiamo di tre cose: anzitutto, ci sviluppiamo poco – abbiamo un ritmo di crescita dell’1%, massimo 1,3% – in secondo luogo, dobbiamo avere un rilancio vero degli investimenti pubblici e privati. Per fare questo, dobbiamo partire dall’analisi del paese, un paese contraddittorio, disuguale: 23 province italiane hanno il 3% di disoccupazione, 23 province invece hanno il 30% di disoccupazione. Non possiamo avere le stesse regole e le stesse politiche, per le 23 province che hanno il 3% di disoccupazione, e le 23 province che hanno il 30% di disoccupazione.

In terzo luogo, occorre flessibilità. Flessibilità anzitutto fiscale: significa che chi va a investire nelle zone dove ci sono tanti disoccupati deve pagare meno tasse di quelli che investono invece dove non ci sono disoccupati. Occorre anche la flessibilità del mercato del lavoro e del salario. Non possiamo andare avanti con regole uniformi, noi abbiamo bisogno di una nuova stagione in cui sia possibile differenziare le regole adattandole alla realtà; tutto deve essere fatto in trasparenza; perché se non si opera in trasparenza, alla fine cosa vince il sommerso, vince il lavoro nero.

Milano non è Napoli, e Napoli non è Palermo, e Torino non è Genova, ed è giusto che per affrontare le questioni di quelle città si usino strumenti contrattuali trasparenti sul mercato del lavoro: per questo abbiamo firmato l’accordo di Milano, e per questo troviamo incredibile la posizione di un sindacato come la CGIL che si rifiuta di prendere questo atto, di prendere questa coscienza, ma non solo: sulla questione salariale, se il salario ormai rimane una questione nazionale e l’inflazione si proietta a zero, noi non avremo la possibilità di determinare un vero avanzamento sul versante delle politiche distributive. Dobbiamo legare il salario alla produttività, dove essa è, nell’azienda dov’è e nel territorio dov’è: questo ci darà più spazi, più domanda, più possibilità.

Benedini: Abbiamo detto: dopo l’euro, il lavoro. Si sente soprattutto un’esigenza di flessibilità che significa modernizzazione che se ben calibrata e governata favorisce lo sviluppo dell’impresa e di conseguenza l’occupazione, ed è tanto vero questo che nei paesi con un mercato del lavoro più libero sia in entrata che in uscita, attirano più investimenti. E quindi registrano ricadute positive sul fronte dell’occupazione. Questo è un dato di fatto. I risultati raggiunti negli Stati Uniti e in Europa da Inghilterra e Olanda dimostrano l’efficienza di un quadro legislativo che lasci spazio all’incontro della volontà delle parti, cioè flessibilità nella semplicità. Onde evitare qualsiasi polemica al riguardo ripeto ancora che non intendo con questo che ci sia una mancanza di regole: ho troppi anni di lavoro dalla parte imprenditoriale di trattativa a livello nazionale perché mi possa illudere di questo.

Noi imprenditori vogliamo la partecipazione. Partecipazione che all’estero viene già fatta, ma rispetto alla quale anche l’Italia è matura. Noi in Assolombarda abbiamo voluto, durante la nostra assemblea generale di pochi mesi fa, richiamare con forza l’urgenza di un progetto di sviluppo per l’Europa, ribadendo la necessità di trovare una via europea alla competitività. Una via che sappia creare condizioni favorevoli allo sviluppo dell’attività economica e far rinascere un clima di fiducia.

Cosa bisogna fare perché effettivamente si crei un’inversione di tendenza alla disoccupazione? Bisogna promuovere l’imprenditorialità, soprattutto nei giovani, bisogna stimolare la concorrenza, come ha accennato anche D’Antoni, bisogna migliorare le regole. Questi sono i tre obiettivi per la nostra proposta per la crescita e la flessibilità dei mercati: una politica economica europea, anche rispetto al fattore lavoro, la crescita della ricerca, la riforma delle pubbliche amministrazioni tramite lo snellimento delle regolamentazioni che presidiano l’attività produttiva. Queste sono le cose che si devono fare, le cose che noi dobbiamo perseguire, in Italia e in Europa.

Bobba: Vorrei formulare una serie di proposte. Le prime riguardano l’Europa: due aspetti li ha già toccati D’Antoni: il non conteggiare gli investimenti produttivi nei vincoli del patto di stabilità, che sarebbe l’unico modo per generare crescita, e quello della differenziazione tra le diverse zone europee.

La prima proposta per l’Italia invece riguarda la cosiddetta modifica del regime di IVA; esiste attualmente una proposta che tende a modificare il regime di IVA per quelle imprese ad alta intensità occupazionale, in particolare nel settore delle costruzioni. Credo che questa proposta vada estesa anche a tutto il campo dei servizi alla persona, che sono oggettivamente, strutturalmente imprese ad alta intensità di occupazione. È chiaro che questo potrebbe consentire in un settore, che è l’unico che negli ultimi cinque anni è sempre stato in crescita, di poter avere uno sviluppo molto più forte e soprattutto di assorbire una parte rilevantissima di quel sommerso che abbiamo visto essere uno dei problemi chiave del paese.

La seconda proposta attiene alla formazione, in particolare alla formazione professionale; il nostro paese spende gli spiccioli per la formazione professionale, rispetto alla media della spesa degli altri paesi. La formazione potrebbe essere per il nostro paese l’arma decisiva.

La terza proposta attiene ad una possibilità di sostenere realmente uno sviluppo del mercato sociale, e quindi uno sviluppo delle iniziative del terzo settore; abbiamo fatto prima un sistema di detrazione fiscale favorevole con l’auto, poi il governo ha fatto – è ancora in corso – il sistema di detrazione per la ristrutturazione della casa, sarebbe tempo di prendere quello spiraglio che è stato messo nella finanziaria dello scorso anno, e farlo diventare una regola, di una qualche consistenza, offrendo finalmente ai cittadini, alle famiglie, la possibilità di una detrazione significativa per le spese di cura, di assistenza e di servizi formativi come un grande investimento sulla qualità del vivere e sul capitale umano del paese.

La quarta proposta attiene a una revisione della tassazione, introdotta recentemente, dell’IRAP, una tassa che ha finito per sfavorire indirettamente e direttamente, proprio l’impresa ad alta intensità di lavoro.

La quinta proposta attiene ad una utilizzazione – si è parlato molto anche in Italia del cosiddetto modello olandese – di un insieme di misure che consentano una conciliazione attraverso forme diverse di flessibilità fra il lavoro, l’educazione dei figli, la famiglia.

La sesta proposta ha a che fare con la possibilità che siano affidate non solo ad istituzioni pubbliche ma, segnatamente attraverso dei bandi di carattere pubblico, a dei soggetti di terzo settore le capacità di sviluppare soprattutto nelle aree a maggiore disoccupazione nuove imprese non profit, nuove attività, nuove imprese sociali.

L’ultima proposta, infine, ha a che fare con le recenti proposizioni che sono state anche evidenziate dal governo quando si è detto in qualche modo di mettere mano alle pensioni d’oro e ai regimi speciali: qui lo zampino del sindacato non è stato del tutto indifferente, perché non si capisce il motivo per cui un lavoratore del volo o dell’elettrico abbiano una media di pensione di 4 milioni e mezzo, e i lavoratori dipendenti invewce abbiamo una media di un milione.

D’Antoni: Vorrei soffermarmi soltanto su due questioni: la prima è il fatto che, per essere protagonisti nella società, dobbiamo democratizzare l’economia, democratizzare il capitalismo. Dobbiamo cioè avere un modello di democrazia economica che sia tale da poter determinare quel tipo di conciliazione tra competizione ed equità di cui parlavamo all’inizio. Nel fare questo dobbiamo far avanzare un modello di partecipazione. Benedini ha detto che Confindustria, nel suo caso Assolombarda, è disponibile, ma noi dobbiamo fare in modo che questa disponibilità si traduca in comportamenti concreti. Io sono convinto che questa è una grande carta che possiamo giocare nel protagonismo dei prossimi anni, nella modifica vera dei comportamenti, nel tipo di azione che possa produrre più sviluppo e più lavoro. Questo significa avere relazioni sindacali partecipate, e significa anche proporre un modello di azionariato dei lavoratori, di partecipazione dei lavoratori al capitale di rischio delle imprese, con tutto quello che ne consegue in termini di diritti e di doveri che da questo punto di vista si possono determinare. Se Confindustria uscendo dalle ambiguità che sinora ha avuto fa di questa battaglia una battaglia nel paese, sarà sicuramente una vittoria. La seconda questione, strettamente connessa, è l’equità del sistema. Le due questioni in realtà non sono separate, come comunemente si ritiene: dobbiamo sconfiggere esattamente questo tipo di mentalità, perché far aumentare l’efficienza, la solidarietà, l’equità e il potere dei lavoratori, significa far aumentare complessivamente la democrazia in questo nostro paese.

Se questo è vero superando le questioni aperte noi possiamo dare un impulso autentico alla società, al vero cambiamento dello Stato sociale, al principio vero di sussidiarietà; non si tratta di cambiare le condizioni delle persone, si tratta di cambiare cultura, mentalità, gestione, avanzare su un percorso che renda protagonisti milioni di persone. In Italia c’è una ricchezza spaventosa, dal punto di vista della capacità organizzativa, associativa, che si può mettere alla prova superando concezioni veramente vecchie.

Ci vuole più coraggio, più forza, ma anche più fiducia. Siamo circondati da sfiduciati, siamo circondati da opinion leaders che impongono quadri negativi, che presentano tutto al contrario: anche le cose buone sono presentate sempre al contrario. Occorre anzitutto combattere questa mentalità per costruire il futuro del nostro paese.