Urgenza e ambiguità nel dialogo interreligioso

Martedì 23, ore 11

Relatore:

Ignace De La Potterie, biblista

 

De La Potterie: La decisione del Concilio Vaticano II nella sua dichiarazione Nostra aetate, di intraprendere un dialogo con le altre religioni rappresenta una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Il titolo del documento suona così: Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Quattro religioni vengono presentate in modo più specifico: l’induismo e il buddismo, poi le due grandi religioni monoteistiche non cristiane, ossia l’Islam ed il giudaismo. Poiché la materia è troppo ampia limiteremo la nostra indagine al dialogo ebraico-cristiano.

Divideremo la nostra relazione nelle due parti indicate nel titolo: in un primo tempo, seguendo una prospettiva storica, insisteremo sull’urgenza di questo dialogo; in un secondo momento, alla luce delle esperienze recenti, post-conciliari, dovremo constatare in quanta ambiguità si è arenato oggi questo difficile dialogo.

I. Urgenza del dialogo ebraico-cristiano

a) La svolta del Concilio - Per comprendere meglio la radicalità del cambiamento di rotta voluta dal Vaticano II, dobbiamo ricordare alcuni fatti storici essenziali per caratterizzare l’atteggiamento del mondo occidentale e cristiano verso il popolo ebraico durante molti secoli. Si può compendiarlo così: almeno dal IV secolo in poi, fino al tempo moderno, era largamente diffuso l’antisemitismo o piuttosto l’antigiudaismo. Le ragioni storiche di questo fenomeno, che è un fatto fuori discussione, non sono ancora del tutto chiarite.

Ma purtroppo, la maggior parte dei cristiani sembra ancor oggi poco informata e non consapevole. Perciò è utile ricordare alcuni esempi. In primo luogo notiamo l’esistenza di molti trattati "Contro i giudei" in tutta la tradizione antica, patristica e medievale. Uno dei più violenti era quello in otto libri di S. Giovanni Crisostomo, Vescovo di Antiochia e più tardi di Costantinopoli. Ricordiamo anche una trattazione analoga di S. Giovanni Damasceno, secolo VIII; secondo lui i giudei erano antiteoi (quelli che sono contro Dio), perché, cito ancora una frase di S. Giovanni Damasceno, "non hanno accettato che il Signore Gesù Cristo era Figlio di Dio ed era Dio". Addirittura li chiamava anche teoctonoi (quelli che hanno ucciso Dio).

L’equivalente di questa accusa si trova più volte nel mondo latino con il rimprovero di deicidio fatto ai giudei; si parlava anche spesso della loro perfidia, un termine che nel latino di quel tempo non aveva il significato che ha oggi in italiano, ma significava non avere la fede, perciò essere increduli.

Per il Medio Evo latino dobbiamo citare almeno il trattato molto pesante di Pietro, abate di Cluny dal titolo: "Contro l’inveterata durezza dei giudei". Per i tempi moderni ricorderemo l’espulsione dei giudei da diversi paesi occidentali e poi la spietata politica antigiudaica dell’inquisizione spagnola (secolo XVI e XVII); infine si arriva al dramma spaventoso del nostro secolo dell’olocausto nazista. Questi sono alcuni dei fatti essenziali e sconvolgenti che la ricerca storica moderna ci fa conoscere sempre meglio nei loro dettagli.

b) Come è stato possibile che il Vaticano II abbia fatto un rovesciamento di rotta così radicale? A quanto sembra sono stati proprio gli orrori nazisti dell’olocausto, la famosa Shoah, a provocare già prima del Concilio, nel mondo occidentale una forte reazione. Si sono formati diversi movimenti di solidarietà con i giudei: per la Francia ricordiamo l’associazione Les amitiés Judéo chretiennes e l’opera di Jacques Maritain (Le Mystère d’Israél), insieme con sua moglie Raissa. In Italia manifestavano la loro simpatia verso i giudei i Cardinali Lercaro, di Bologna, Roncalli, Patriarca di Venezia, e poi il francese Tisserant, il Sindaco di Firenze Giorgio La Pira, che organizzava i suoi Colloqui Mediterranei fra ebrei, cristiani e musulmani per favorire la pace nel vicino Oriente. Un impulso decisivo venne da parte giudaica: un certo Joe Golan, amico e consigliere di Nahoum Goldman, presidente del consiglio giudaico mondiale, gli chiese una volta a Gerusalemme, nel 1957, se secondo lui, gli orrori della shoah sarebbero ancora possibili nel futuro. Goldman rispose di sì, perché, secondo lui, le radici dell’antisemitismo sono ancora presenti nei testi cristiani, che dovrebbero essere cambiati. Questa riflessione di Goldman fece molta impressione su Joe Golan il quale, con l’approvazione del presidente dell’alleanza mondiale, intraprese diversi viaggi per cercare contatti con personalità cattoliche, i cardinali Tisserant, Lercaro, Roncalli e poi anche con padre Bea, non ancora cardinale, ma confessore di Pio XII. Lo scopo di Joe Golan, che parlava a nome dell’Alleanza Mondiale giudaica, era di poter raggiungere queste personalità per ottenere da loro suggerimenti, proposte e appoggi. Diventato Papa con il nome di Giovanni XXIII, Roncalli, che era prima Patriarca di Venezia, compì un gesto clamoroso durante la liturgia solenne del Venerdì Santo. Egli infatti interruppe il lettore che stava cantando l’orazione pro perfidis Iudeis, di ripeterla, ma senza l’aggettivo "perfidis". Pochi mesi dopo, il 13 giugno del 1960, ci fu l’incontro storico tra Giovanni XXIII e il celebre storico ebreo francese Jules Isaac, autore di un libro sull’antisemitismo intitolato L’insegnamento del disprezzo. La sua visita fece una grande impressione sul Papa. Isaac gli chiese di creare un organismo che durante il Concilio sarebbe stato incaricato di ridurre tra i cristiani i pregiudizi sempre presenti contro i giudei; così fu deciso di preparare una dichiarazione conciliare in favore dei giudei. La sua redazione fu affidata a Padre Agostino Bea, rettore dell’Istituto Biblico in Roma, che fu poi, pochi mesi dopo, nominato capo del Segretariato per l’unità dei cristiani, che preparò e produsse la dichiarazione Nostra aetate, nella quale si parla ampiamente del giudaismo. Queste le grandi tappe del documento.

c) Vediamo adesso in quella dichiarazione Nostra aetate i punti principali del paragrafo 4, che tratta della religione giudaica.

La frase introduttoria, suggerita del Cardinale Lercaro, suona così: "Scrutando il Mistero della Chiesa, il Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Adamo". Qui la Chiesa di Cristo riconosce "gli inizi della sua fede". Con S. Paolo (Rom 11,1c) la chiesa vede in Israele la sua "radice santa": proprio questo costituisce il fondamento teologico del dialogo ebraico-cristiano. Il Concilio però affermava che i cristiani costituivano il nuovo popolo di Dio e la Chiesa veniva chiamata "verus Israel", quasi in contrasto con l’antico Israele. Come si vede tra il popolo ebraico di oggi e il popolo cristiano, esiste allo stesso tempo una continuità irrinunciabile, ma anche una spaccatura, una discontinuità ugualmente innegabile. Entrambi gli aspetti devono essere presi in considerazione e possibilmente integrati. E vedremo nella seconda parte quanto è difficile. Un punto più penoso vi è ancora riconosciuto dal Concilio cioè il fatto "che gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo", anzi che le autorità ebraiche si sono adoperate per la morte di Cristo. Aggiunge però che questo "non può essere imputato a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo". Qui viene dunque respinta per il popolo ebraico l’accusa classica di deicidio, così spesso ripetuta nella tradizione. Inoltre con riferimento a Paolo (Rom 11,29) si afferma "che rimangono ancora carissimi a Dio i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento". Per il futuro il Concilio aggiunge infine che "la Chiesa attende il giorno (...) in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce" e lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla (Sof 3,9). Per concludere si dice che la Chiesa "spinta (...) da religiosa carità evangelica deplora gli odi, le persecuzioni ed ogni manifestazione di antisemitismo diretto contro gli Ebrei, in ogni tempo e da chiunque".

II. I documenti successivi al Concilio

Diverse volte, dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha emanato documenti per favorire il dialogo ebraico-cristiano. Ricordiamo i tre principali.

a) Nel 1973 l’episcopato francese pubblicò degli Orientamenti pastorali per l’atteggiamento dei cristiani verso il giudaismo. Fu accolto con viva soddisfazione dal rabbinato francese, però suscitò dure reazioni da parte dei cristiani che vivevano in ambienti musulmani, per esempio dai Vescovi dell’Africa del Nord, da 40 gesuiti libanesi di Beirut da parte di noti teologi, come il cardinale Daniélou, e il biblista A. Feuillet. Veniva contestato principalmente il fatto che il documento parlava della vocazione permanente del popolo ebraico, anche dopo la rottura tra cristiani e giudei nel I secolo. Ma consideriamo più attentamente due documenti ufficiali della Santa Sede. b) Nel 1975, due anni dopo il decreto della Francia, il comitato per le relazioni con il giudaismo pubblicava un documento Orientamenti e norme per l’applicazione della dichiarazione conciliare "Nostra aetate". Alla redazione del testo aveva collaborato anche il padre Martini che a quel tempo non era ancora vescovo.

In questi Orientamenti si parlava delle condizioni di un vero dialogo, dei legami tra la liturgia ebraica e la liturgia cristiana, dell’educazione delle scuole cristiane in cui si devono mostrare i profondi legami che esistono tra i due popoli. Il testo aggiunge che noi cristiani "dobbiamo comprendere come il giudaismo, con la sua alta coscienza della trascendenza divina, provi delle difficoltà davanti al mistero cristiano del Verbo fatto carne"(1). I due popoli vengono invitati, ad avere poi incontri fraterni per studiare i molteplici problemi connessi con le loro convinzioni.

c) Dieci anni dopo, nel 1985, fu pubblicato un nuovo documento della Santa Sede per approfondire quello del 1975. Titolo: Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Siccome questo venne attentamente studiato da parte giudaica, dobbiamo notare attentamente i suoi punti principali.

Anche qui si insiste sulle radici ebraiche del cristianesimo, sull’influsso della liturgia ebraica su quella cristiana. Inoltre, riprendendo un tema dell’episcopato francese, il documento romano afferma che la permanenza di Israele deve essere interpretata come un segno del disegno salvifico di Dio. Citando poi una parola del Papa il testo afferma che l’Antica Alleanza non è stata mai revocata, vale a dire che il popolo ebraico era e rimane ancora sempre il popolo eletto. Il documento insiste anche sulla relazione fra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento; esiste quindi "una lettura cristiana dell’Antico Testamento: identità cristiana ed identità giudaica devono essere attentamente distinte nella lettura che dalle due parti, dai due popoli si fa della Bibbia" (n. 6), ma si aggiunge che il popolo ebraico è stato eletto per preparare la venuta di Cristo, è in Lui che il piano salvifico di Dio trova il suo adempimento (n. 10). Si riconosce che i giudei non hanno creduto in Gesù e si aggiunge una osservazione importante: quel rifiuto di Cristo non è soltanto un fatto storico, "ma ha anche una portata teologica" (n. 21 c). Si tocca qui il vero nucleo del problema del dialogo: la divisione tra il popolo ebraico e il popolo cristiano viene dal fatto che gli uni rifiutano Cristo mentre gli altri lo accettano come il Messia, il Verbo di Dio incarnato. Nell’ultimo paragrafo del documento si deplora ogni forma di antisemitismo e si invitano entrambi i popoli a meglio conoscersi a vicenda.

III. Ambiguità del dialogo ebraico-cristiano

1. La ricezione giudaica dei documenti precedenti - Partiamo dal documento vaticano del 1985 ed esaminiamo l’analisi critica che ne ha fatto il dr. Geoffrey Wigoder, che è un rabbino di Gerusalemme, e che rappresenta Israele nel "Comitato giudaico internazionale per le consultazioni interreligiose". Egli apprezza molto tutto il cammino fatto dalla Chiesa in questo ventennio dopo il Concilio per favorire il dialogo.

Per illustrare il suo apprezzamento egli cita poi discorsi di diverse autorità cattoliche, anzitutto del Papa e poi tre volte diversi discorsi del Cardinale Martini al Consiglio internazionale dei cristiani e dei giudei a Vallombrosa nel luglio 1984. Però per andare avanti credo sia più utile esaminare quali sono tra le posizioni cattoliche quelle che il rabbino dichiarò inquietanti ed inaccettabili per i giudei.

a) Il documento del 1985 diceva che la Chiesa ed il giudaismo non sono due vie parallele, per la salvezza. Osserviamo però che due vie, anche se non sono parallele, rimangono sempre due vie. Non è quindi fondata la paura del rabbino che venga reintrodotta qui la vecchia teoria "Extra Ecclesiam nulla salus", ossia che la Chiesa sarebbe l’unica via per la salvezza.

b) Si diceva nel Documento che i giudei sono stati eletti per "preparare la venuta di Cristo" (1,8) opinione che ovviamente non può essere condivisa dal dottor Wigoder. Ma si deve notare che quella era una norma per l’insegnamento cattolico nelle scuole cristiane. Per il popolo ebraico invece l’elezione ha necessariamente un altro significato, e la Chiesa questo lo ammette e lo comprende, anche se non può pienamente condividerlo.

c) Un punto analogo è la relazione fra i due Testamenti. Nel documento della Chiesa questo rapporto è presentato sotto l’aspetto della tipologia, parola tecnica del mondo della teologia che vuole dire che l’Antico Testamento ha valore di preparazione e di prefigurazione degli eventi del Nuovo Testamento. Questa è una posizione classica del cristianesimo che viene respinta dal rabbino di Gerusalemme: ciò che i cristiani chiamano Antico Testamento, egli dice, era un libro ebraico, la Bibbia del popolo ebraico, che trova il suo senso pieno in se stesso. Come cristiani noi comprendiamo questa posizione, anzi la consideriamo valida al suo livello, ma questo non sopprime la legittimità di un’altra lettura del Vecchio Testamento, una lettura cristiana della Bibbia del Vecchio Testamento, una lettura parzialmente nuova e forse più profonda.

d) Come abbiamo già osservato la differenza centrale tra cristiani e il popolo ebraico sta nell’atteggiamento di entrambi verso Gesù. La Chiesa però aveva prudentemente fatto notare una distinzione tra i Giudei del tempo di Gesù e quelli dei tempi posteriori. Ma quella posizione che voleva limitare alle autorità giudaiche del tempo di Cristo la responsabilità per la condanna di Gesù, viene vigorosamente respinta dal dr. Wigoder. Egli si esprime così: "Noi Ebrei di oggi ci identifichiamo con i giudei di quel tempo (...), il popolo giudaico rimane coerente nel suo atteggiamento verso Gesù". Questo atteggiamento, lo sappiamo, è il rifiuto. Rimane quindi vera la constatazione un po’ rassegnata di S. Giovanni nel prologo: "E i suoi non lo hanno accolto".

e) C’è però un punto nelle critiche del dr. Wigoder, del rabbino di Gerusalemme e di altri giudei di oggi, sul quale possiamo essere d’accordo. Egli rimpiange che il documento cattolico dica così poco sulla shoah, quella tragedia dell’Olocausto che ha sconvolto l’anima di ogni ebreo. Egli osserva che un tale dramma ha (o dovrebbe avere) un significato per la Chiesa, se ricordiamo la storia dell’antisemitismo nella tradizione cristiana a cui ho fatto accenno all’inizio. Poi cita le parole del cardinale Willibrands: "Il cristianesimo e l’antisemitismo sono incompatibili. L’antisemitismo è anticristiano". Ma da parte giudaica ci si aspettava un esame di coscienza della Chiesa per esaminare la responsabilità dei cristiani nel diffondersi storico dell’antisemitismo durante una lunga tradizione.

Mi pare, però che non è legittimo mettere in connessione diretta l’antisemitismo tradizionale, antico, che era di ispirazione anzitutto religiosa, e l’antisemitismo neo-pagano, razzista, del tempo di Hitler, due prospettive molto diverse.

Dobbiamo essere grati al rabbino di aver analizzato i documenti della Chiesa con tanta lealtà, onestà ed acutezza; vedremo nella conclusione come possiamo prendere posizione di fronte a queste riflessioni di Wigoder, ma vogliamo prima vedere ancora le reazioni all’interno del mondo cattolico ai documenti ufficiali.

2. Le critiche del documento della Chiesa da parte di alcuni teologi cattolici - Il documento del 1985, che affermava la distinzione senza confusione tra cristianesimo ed ebraismo, è stato molto criticato in certi ambienti cattolici, perché, dicono, rappresenta una regressione rispetto alle tendenze maturate nel Concilio. Queste critiche si inseriscono nella crisi generale provocata dall’apertura del dialogo interreligioso che ha provocato molta confusione nella teologia postconciliare. L’opinione di tanta gente oggi è che tutte le religioni sono più o meno equivalenti. Perché, si dice, la religione di Gesù dovrebbe essere superiore al buddismo, all’induismo, ecc. e a fortiori al giudaismo?

Quando un teologo non sa più qual è la specificità e la novità del cristianesimo, egli non è più capace di dare una ragione della speranza che è in lui (1 Pt 3,15): la via cristiana della salvezza diventa allora per lui equivalente alla via giudaica. Non solo, ma esiste anche la tendenza ad assorbire Gesù nel giudaismo. Da diverse parti vengono scritti libri sul tema "Gesù ebreo" non soltanto da parte ebraica, ma anche da autori cattolici che scrivono "L’ebreo Gesù". Specialmente nel secondo caso la tendenza mi pare molto ambigua. Un teologo che non riconosce più ciò che fa la novità e la specificità dell’evento cristiano, dimentica ciò che era stato già proclamato con tanta forza e chiarezza da S. Ireneo contro gli gnostici del II secolo. "Sappiate, scrive Ireneo contro i Valentiniani, che Cristo ha portato tutta la novità portando se stesso". Si tratta quindi di essere attenti alla tendenza attuale di giudaizzare Gesù; si insiste troppo sul fatto che Gesù era giudeo, ma si dimentica o si omette di dire che era anche il Messia, il figlio di Dio incarnato: due elementi irrinunciabili della fede cristiana.

Ma esaminiamo adesso tre critiche più precise che fanno alcuni teologi cattolici al Documento della Santa Sede.

a) Partiamo dal fatto, riconosciuto da tutti, che l’identità del popolo ebraico è radicata nell’elezione e nell’Alleanza. Ora, dicono alcuni, citando un discorso del Papa fatto in Germania, l’Alleanza non è mai stata revocata. Quindi, affermano, il popolo ebraico rimane dunque il popolo eletto, anche dopo aver rifiutato Cristo. Anzi, dice un noto teologo tedesco del dialogo, Gesù stesso è stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio, Gesù stesso si era escluso dal giudaismo. Il popolo ebraico rimane quello che era, continua la propria strada. Si arriva così al paradosso supremo: proprio rifiutando Cristo, Israele avrebbe messo in luce la propria vocazione divina.

Se autori cattolici arrivano ad una teoria così sconcertante, si deve supporre che ignorino o respingano diversi testi che mettono in luce la specificità cristiana; prima i testi biblici sulla nuova Alleanza, (Ger 31,31; Ebr 9,15), poi i testi del Concilio sulla Chiesa come nuovo popolo di Dio (Nostra Aetate, 4) e come nuovo Israele (Lumen gentium). Bisogna inoltre ignorare l’orientamento dell’Antico Testamento verso l’evento di Cristo, quell’evento che, secondo S. Paolo, realizza proprio "la pienezza del tempo" (Gal 4,4).

b) Un altro disaccordo di questi teologi rispetto alla teologia comune concerne il tema della verità della venuta del Messia. Secondo loro la speranza messianica ci accomuna con i giudei. Ma qui si gioca con le parole e si provoca dunque un grosso equivoco. Per i giudei l’attesa del Messia si realizzerà solo nel futuro; anche i cristiani aspettano per il futuro la venuta del Messia all’ultimo giorno, ma sarà la sua seconda venuta, quindi il ritorno di Cristo che è già venuto, con l’Incarnazione, tra di noi (Cfr. Fil 3,20-21; 1 Gv 3,2.5.8). La speranza giudaica e quella cristiana sono simili solo apparentemente: in realtà, sono contraddittorie, perché ciascuna delle due può essere vera soltanto se l’altra è sbagliata.

c) Un altro punto di disaccordo ha come oggetto la teoria classica della conversione futura di Israele. Questa teoria si basava su due passi famosi dell’epistola ai Romani (11,11-15; 20-26) dove Paolo dice che i Giudei non rimarranno nella loro incredulità. Ma di quale incredulità si parla qui? Secondo i nostri teologi questo non significa che si uniranno ai cristiani. Vuol dire, secondo loro, che si convertiranno a Dio perché anche loro sono peccatori, all’interno della loro propria elezione, che non è stata cancellata. Questa teoria sembra dunque difficilmente conciliabile con la dottrina di Paolo: quando egli parla dell’incredulità dei giudei, del loro accecamento, della loro inimicizia (11,20.23.25), lo fa in riferimento al Vangelo. Una interpretazione analoga si può ricavare anche dalla seconda lettera ai Corinzi (3, 14-17), cioè dal fatto che i figli di Israele hanno un velo sugli occhi quando leggono la loro Bibbia, ma quel velo viene tolto dai loro occhi, vedono chiaramente il senso della Bibbia con la loro conversione al Signore, ossia a Cristo. L’incredulità di Israele, per Paolo, consiste nel fatto che loro non hanno creduto a Cristo.

Questi tre esempi delle reazioni, anche nel mondo cattolico, ai documenti della Chiesa mostrano quanto è confuso, ambiguo e paradossale oggi il dialogo ebraico-cristiano. Sembra quindi anche sterile ed inutile. Questa è anche l’opinione di alcuni ebrei, per esempio del celebre filosofo giudeo, Yeshayahou Leibovitz, morto recentemente all’età di 91 anni. Era una persona molto contestata anche in Israele.

In una intervista affermava: "Questo bisogno di un dialogo si fa sentire solo dai cristiani, per loro l’esistenza permanente del giudaismo è un fatto accettabile, poiché il cristianesimo si presenta come il vero Israele, quindi come l’erede del giudaismo. Ora – sentite la battuta – non si può diventare erede di qualcuno che non è morto. Quindi nella logica cristiana noi dobbiamo essere ridotti a cadavere, invece per i giudei l’esistenza stessa del cristianesimo è un fenomeno indifferente, non ci interessa per niente".

Una riflessione così forte, così dura, quasi cinica sembra chiudere ogni possibilità di un autentico dialogo. Noi cristiani non dobbiamo avere dunque troppe illusioni, ma è un invito pressante per riflettere sulle possibilità reali di uscire da questa ambiguità e sul modo concreto di riallacciare un dialogo.

Conclusione. Le due parti della nostra relazione hanno mostrato, mi pare, che il dialogo ebraico-cristiano, è allo stesso tempo urgente ed ambiguo, necessario, ma difficile se non quasi impossibile. Da questa situazione attuale vorremmo tirare due conclusioni: una a livello teologico e l’altra a livello pratico ed operativo.

Conclusione teologica

La condizione fondamentale di un vero dialogo è già stata indicata nel Documento del 1975: "Il dialogo suppone il desiderio di conoscersi l’un l’altro, di sviluppare e di approfondire questa mutua conoscenza. La condizione del dialogo è il rispetto dell’altro così com’è, nella sua fede e nelle sue convinzioni religiose". Ed aggiungiamo noi: il vantaggio di un tale dialogo aperto è che ciascuno dei due vede meglio ciò che c’è nella propria posizione di secondari e quindi cambiabile, e ciò che invece deve rimanere per lui irrinunciabile.

Applichiamo questi principi al nostro caso. In alcuni testi cattolici pubblicati gli ultimi anni vengono talvolta presentate delle immagini incomplete o unilaterali del cristianesimo, nella speranza di favorire l’avvicinamento. Ma un tale procedimento è ambiguo, illusorio, e a lungo andare può diventare un inganno. Il primo di questi modi equivoci consiste nel sottolineare quasi unicamente ciò che l’ebraismo antico e il cristianesimo hanno in comune (per esempio la "radice santa", la stirpe di Abramo, la continuità tra le due liturgie), ma si omette di sottolineare che il cristianesimo come tale è cominciato solo con Cristo, e che proprio a proposito di lui sono emerse le differenze: accoglienza di Gesù da una parte, rifiuto dall’altra, anzi un rifiuto che si mantiene tutt’oggi. Ora è con questo giudaismo contemporaneo che noi cerchiamo di dialogare, il rifiuto di Cristo, l’abbiamo detto, non è soltanto un fatto storico, ma ha avuto e conserva ancora sempre un significato teologico.

Il secondo modo di rendere ambiguo e sterile il dialogo è quasi l’opposto del precedente: parte non da Abramo, ma dalla realtà del giudaismo di oggi, però nel presentare il cristianesimo si insiste talmente sulla continuità coll’ebraismo, ossia sulla "giudaicità" di Gesù che si arriva quasi ad una riduzione del fatto cristiano a quello giudaico, di un assorbimento del primo nel secondo. Certo, anche nel Documento del 1985 si dice: "Gesù era giudeo e lo è rimasto sempre" (III, 12), ma Gesù viene anche riconosciuto come il Messia (I, 8), il Figlio di Dio (III, 15); d’altra parte secondo il Vangelo c’è stata una certa rottura col giudaismo, quando Gesù ha annunziato la distruzione del Tempio (Lc 19,34) e la sostituzione del Tempio col suo corpo risorto (Gv 2,20-23). Ma di questi elementi innegabili della missione di Cristo si preferisce non parlare; però sono irrinunciabili per i cristiani, mentre sono evidentemente inaccettabili per il giudaismo. Arrivati a questo punto di chiarificazione si può solo concludere che l’intesa propriamente teologica col giudaismo è irraggiungibile, e che forse lo sarà sempre, almeno se ciascuno di noi vuol dimostrare all’altro la verità della propria posizione. La sola cosa che ci si deve chiedere a tutti e due è di accettare che ci può essere un po’ di verità nella posizione dell’altro e di accogliere questa posizione dell’altro come invito alla riflessione.

Tuttavia è più urgente e realistico intensificare le relazioni ad un livello più modesto, quello della collaborazione diretta, sincera ed amichevole per realizzare compiti comuni in diversi settori della vita.

Conclusione a livello etico, sociale e culturale

In occasione del viaggio di Giovanni Paolo II in America nel 1987, il Rabbino Mordecai Waxman, nel suo discorso di benvenuto al Papa, per la sua venuta nella comunità giudaica, disse: "Una convinzione fondamentale della fede giudaica è la necessità di rendere il mondo migliore sotto la sovranità di Dio. In questo spirito cattolici e giudei devono cooperare nel trattare i problemi sociali, morali, economici e politici del mondo". E poi aggiunse: "Cattolici e giudei hanno iniziato un processo di riconciliazione che è stato intrapreso così faticosamente. La relazione tra cattolici e giudei costituiscono uno degli sviluppi positivi più importanti di questo secolo" (doc. catt. 1987, 936-). E nella sua risposta il Papa esortava tutti all’impegno universale per la giustizia e la pace (p. 987). Secondo la tradizione ebraica, la promozione della giustizia sarà uno dei compiti maggiori da realizzare nel tempo messianico. A questo impegno devono collaborare anche i cattolici; questa collaborazione deve estendersi a diversi livelli, sociale, culturale, diplomatico e politico.

Per questo ultimo ricordiamo il riconoscimento recente dello Stato d’Israele da parte della Santa Sede.

Una riflessione analoga si deve fare per la ricerca della pace. Si sa quanto questo tema (shalom) sia caro alla tradizione ebraica. Perciò rallegriamoci che fra poco si terrà ad Assisi il secondo incontro delle religioni del mondo, proprio per pregare per la pace. Lo stesso tema è anche molto importante nella visione cristiana sul mondo. Ora, essa può portare qui qualche elemento nuovo. Ricordiamo la beatitudine di Gesù: "Beati i pacifici, perché saranno figli di Dio" (Mt 5,9). Paolo ci insegna che "egli (Cristo) è la nostra pace" (Ef 2,15); similmente Gesù dice nel Vangelo di Giovanni: "Io lascio a voi la pace, io dò la mia pace a voi, non come la dà il mondo ve la dò io" (Gv 19,27). Questa pace sua, solo Gesù può darla perché la fa scaturire dal cuore dell’uomo: questa pace cristiana i primi cristiani la chiamavano "la pace profonda". Qui si vede che il cristianesimo – e forse solo lui – porta l’approfondimento decisivo. Proprio qui il dialogo ebraico-cristiano può essere molto fecondo specialmente se noi, cristiani, lo pratichiamo nello spirito del grande comandamento di Gesù di amarci gli uni gli altri.

 

NOTE

(1) Alcuni anni fa, partecipando ad un convegno a Roma, ho avuto la fortuna di incontrare l’ebreo francese, filosofo molto conosciuto, Emmanuele Lévinas. Nell’intervallo tra due conferenze gli ho chiesto: "Professore, può dirmi onestamente che cosa rappresenta per lei, ebreo convinto e filosofo conosciuto, il cristianesimo?". Mi ha risposto: "Padre, se me lo chiede glielo dirò: per me il cristianesimo è idolatria". Ho replicato: "Grazie per la sua sincerità, ma posso fare una riflessione critica anch’io: per lei il cristianesimo è idolatria perché lei pensa che noi adoriamo un uomo e se fosse così noi saremmo idolatri davvero, però questa non è la fede cristiana, secondo la fede cristiana noi abbiamo un culto per Cristo, ma lo adoriamo come Dio. Lì naturalmente le due vie si stanno separando: voi non accettate che Cristo era figlio di Dio ed era Dio, ma questo è il credo cristiano. Dunque se è così non è idolatria, è il culto per l’uomo che è il Verbo incarnato, figlio di Dio e vero Dio, in quanto Dio viene considerato da noi come oggetto di culto e della preghiera nostra. Quindi questa non è idolatria". Ha detto solo: "Bene, grazie".