L’architettura cistercense in Italia

Celebrazione del nono centenario dalla fondazione: 1098-1998

Presentazione della mostra

 

 

Mercoledì 26, ore 11.30

-----------------------------------------------------------------

Relatori:

Alberto Coratti, Direttore della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Casamari

Ugo Gianluigi Tagni, Abate Preside Emerito di Casamari

Mauro Lepori, Abate dell’Abazia d’Hauterive Posieux

Goffredo Viti, dell’Ordine Cistercense

 

Coratti: Sono il direttore della biblioteca di Casamari, che per le vicende storiche dell’unità d’Italia è una biblioteca statale, e che quindi dipende dal Ministero per i beni culturali; fra i compiti di questa biblioteca c’è anche quello di organizzare manifestazioni culturali. È anche in questa qualità che sono intervenuto, portando quattro manoscritti della nostra biblioteca. Sono soltanto un segno, ma aiutano, nell’insieme della mostra, a capire quale era lo spirito dei manufatti cistercensi, non solo quelli architettonici, e che dunque aiutano a capire quale era la vita dei monaci. Quei manoscritti sono infatti espressione della liturgia, della preghiera, della vita dei monaci stessi. Come nell’architettura cistercense c’è un rifiuto degli eccessi della scultura, delle immagini, delle vetrate, così anche nei manoscritti c’è un rifiuto di tutto ciò che è superfluo.

I quattro manoscritti esposti sono un lezionario (libro delle letture e preghiere del mattino, letture bibliche e agiografiche), un antifonario, la riproduzione della regola di san Benedetto - la regola è del ‘500, il manoscritto della fine del 1100, ed è il più interessante dei quattro - ed infine una bolla papale del 1170 che conferma i privilegi e le concessioni già precedentemente fatte all’abbazia di Casamari.

Il più interessante , proprio nella sala del capitolo, che prende nome da questo fatto.

Tagni: L’autore del Grande esordio, attribuito da alcuni a santo Stefano Harding, fa risalire la fondazione di Citeaux al 21 marzo, solennità di san Benedetto che quell’anno, 1098, coincideva con la domenica delle palme. Questa data è più simbolica che cronologica, ed è per questo che ci interessa; il nuovo monastero è una nuova sorgente primaverile e pasquale del carisma benedettino. Una ventina di monaci, capeggiati da Roberto, già fondatore nel 1075 e poi abate del monastero di Molesmes, lasciano il loro monastero per fondare in Borgogna, nelle vicinanza di Digione, un nuovo monastero. L’iniziativa aveva avuto il beneplacito dell’arcivescovo di Lione, Ugo, legato del Papa. Il nuovo monastero prese il nome di Citeaux, dal nome della località Cistercium. Il luogo era incolto e selvaggio ed era stato ricevuto in dono da Rainaldo, visconte di Beaune. La scelta del luogo è voluta per vivere nella solitudine, nella povertà e nella semplicità, nell’osservanza fedele e radicale della regola di san Benedetto.

Il desiderio di questi monaci è di cercare Dio in un luogo deserto, in una povertà effettiva, in una indipendenza reale nei confronti dei grandi del mondo. Un grande fascino esercitava su di loro la vita degli antichi padri del deserto. Il loro stile di vita era molto austero, tanto che la loro vita faceva paura ai contemporanei. Leggiamo nel Piccolo esordio: "Ben raramente in quei giorni qualcuno veniva da loro per imitarli, quasi tutti quelli che li vedevano o li sentivano parlare dell’austerità della loro vita, insolita e in certo modo senza esempio, si affrettavano più ad allontanarsi con il corpo e con il cuore che ad unirsi a loro e non cessavano di dubitare della loro perseveranza".

I monaci di Molesmes, alla fine del primo anno della nuova esperienza, ottennero che il loro abate Roberto rientrasse nel suo monastero. Roberto lascia l’incarico della guida della piccola comunità ad Alberico, che continua l’esperienza con uno stile di vita che verrà così sintetizzato da san Bernardo in una sua lettera: "La nostra vita è una vita di abiezione, di umiltà, di povertà volontaria, di obbedienza, di pace, di gioia nello Spirito Santo; la nostra vita è sottomissione ad un superiore, ad un abate, ad una regola, ad una disciplina; la nostra vita è praticare il silenzio, il digiuno, le veglie, la preghiera, il lavoro manuale, ma soprattutto consiste nel seguire la vita migliore che è la carità e nel progredire di giorno in giorno in tutte queste cose e nel perseverare sino alla fine": Papa Pasquale II appoggia la nuova comunità e nel 1106 viene consacrata la prima chiesa a Citeaux.

L’abate Alberico morì nel 1108 e i monaci di Citeaux elessero come loro abate il priore, l’inglese Stefano Harding, nato verso il 1059. In questa carica Stefano sviluppò pienamente i suoi talenti; sotto di lui fiorì lo scriptorius di Citeaux, i cui primi codici sono i più belli di quel tempo. Compì inoltre una revisione della Bibbia e una riforma liturgica. Nel fare ciò, Stefano mirava sempre a rispettare la integritas regulae, a trovare testi e melodie per quanto possibile autentici. Amatore ardentissimo della povertà, così fu definito Stefano, aveva molto a cuore la povertà e la semplicità nello stile di vita e nella liturgia. Secondo l’Exordium parvum, egli e i suoi fratelli vietarono al duca ed ai suoi fratelli di tenere la corte nel monastero, come avevano fatto fino ad allora. Lo stesso Exordium attribuisce a Stefano ed ai suoi confratelli una serie di decisioni molto severe, tese ad eliminare qualsiasi lusso e superfluità dal culto e dalle loro Chiese.

Citeaux soffrì per la carestia e la mortalità negli anni 1109 e 1112, ma soprattutto per la mancanza di nuove reclute. La difficile situazione mutò grazie alle grandi donazioni iniziate nel 1111, nonché all’ingresso di san Bernardo di Fontaine, poi abate di Clairvaux e dei suoi compagni nel 1113. Nello stesso anno si potè fondare lo stesso monastero, La Ferté, al quale seguirono Pontigny, Clairvaux e Morimond, le cosi dette abbazie madri dell’ordine. Per regolare le relazioni di queste nuove fondazioni con l’abbazia madre di Citeaux, Stefano concepì con i confratelli, gli abati ed i vescovi locali, la costituzione fondamentale dell’ordine cistercense, la famosa Carta caritatis, la quale fu approvata ufficialmente, nella sua prima stesura, il 23 dicemhre del 1119 dal papa Callisto II. In quegli anni gli abati si radunarono a Citeaux per i primi capitoli generali annuali, che fino alla metà del secolo XII furono soltanto una estensione del capitolo conventuale di Citeaux, in cui Stefano, come abate della casa madre, ebbe un ruolo preminente. Nel 1133 Stefano presentò le dimissioni per motivi che probabilmente non saranno mai conosciuti. Stefano morì il 28 marzo 1134; in quell’anno l’ordine contava già 86 monasteri. Fu venerato presto dallo stesso ordine come santo e poi inserito dal Baronio al 17 aprile nel martirologio romano del 1586. Il capitolo generale dell’ordine del 1623 introdusse ufficialmente la festa di santo Stefano, mentre il capitolo generale del 1683 elesse al rango di solennità la festa, fissandola il 16 luglio. Dal 1966 la festa di santo Stefano viene celebrata il 26 gennaio insieme con quella di san Roberto e di sant’Alberico.

Lo stile di vita dei primi cistercensi era anche una reazione all’ordine di Cluny fondato nel 910 e ormai diffuso nell’Europa occidentale. Il monachesimo cluniacense aveva alterato l’equilibrio tra l’ "ora" e il "labora" proposto dalla regola di san Benedetto. Aveva allungato le celebrazioni liturgiche, le aveva rivestite di insolita solennità, gli edifici sacri erano divenuti grandiosi e molto decorati, i paramenti ricchi e sfarzosi; la preghiera tendeva a diventare continua, a scapito del lavoro, sia manuale che intellettuale. La comunità viveva di offerte, di donazioni e aveva molto personale salariato ed esterno. Inoltre la struttura organizzativa dell’ordine cluniacense si presentava molto rigida e complessa. Faceva capo al solo abate di Cluny che riceveva la professione religiosa di tutti i monaci. La riforma monastica di Citeaux reagisce profondamente a tutto questo, proponendo una struttura più flessibile, in cui tutte le abbazie siano su un piano di parità.

Il testo base di Citeaux è la Carta caritatis, mirante a stabilire un legame solido ed elastico insieme tra quelle che sarebbero state le successive fondazioni del nuovo ordine. Il legame tra i diversi monasteri veniva a stabilire tra loro non più una specie di vincolo feudale come nel sistema cluniacense, bensì tendeva a porre le fondazioni sullo stesso piano, con un abate eletto dalla comunità. Questa autonomia, conforme alla regola di san Benedetto, era però moderata da due organi di governo: la visita canonica annuale, compiuta dall’abate fondatore, e il capitolo generale annuale. Queste due istituzioni eliminavano sia gli inconvenienti dell’isolamento, propri dell’antico sistema benedettino, sia quelli di una eccessiva centralizzazione, propri del sistema cluniacense. L’unione, la comunione, era assicurata non più dalla persona dell’abate di Citeaux, ma dall’identità di osservanza. Così si esprime la Carta caritatis: "In actibus nostri nulla sit discordia sed una caritate, una regula, similibusque vivamus moribus". Anche la vita agricola venne riorganizzata dai primi cistercensi sulla base delle grange, specie di fattorie monastiche con tutti gli ambienti necessari alla vita comune e in cui i conversi risiedevano nei giorni lavorativi. Si era dato grande impulso alla categoria dei fratelli conversi, già esistenti da circa un secolo, che avevano un abito diverso, una abitazione a parte e non avevano voce in capitolo.

Un fatto veramente determinante negli inizi dell’ordine fu l’arrivo di san Bernardo a Citeaux, nel 1112. Il nuovo monastero conoscerà rapidamente uno sviluppo stupefacente, perché con la sua parola trascinatrice san Bernardo attirò a sé moltissime vocazioni. Le fondazioni vanno moltiplicandosi a ritmo accelerato. Nel maggio 1113 venne fondata La Ferté; nel maggio 1114 Pontigny, nel giugno dell’anno seguente Clairvaux, con il giovane Bernardo a capo. Un mese più tardi Morimond. L’ordine si sviluppa senza sosta; alla morte di san Bernardo, nel 1153, l’ordine conta 339 case. Numerosi monasteri già esistenti o intere congregazioni si unirono all’ordine; altri, anche femminili, ne adottarono gli usi e ne accolsero la spiritualità.

L’influenza esercitata dai cistercensi sulla Chiesa e sulla società del secolo XII fu grandissima, sia in campo economico - l’attività agricola - sia in campo artistico - lo stile architettonico cistercense - sia soprattutto in campo ecclesiale e spirituale. Citeaux fu innanzitutto una scuola di santità e di spiritualità; i cistercensi inoltre sono all’origine di alcuni ordini cavallereschi e san Bernardo indirizzò un suo scritto ai Templari.

Lepori: Vorrei offrire una meditazione sul senso e la missione di un monastero cistercense, a partire dal caso concreto dell’abbazia in cui vivo, fondata nel 1138. L’architettura cistercense è uno spazio abitato da uomini, da monaci, e questo implica un’esperienza umana, un’avventura umana.

Da quale esperienza di vita erano e sono abitate queste pietre?

Nella Chiesa il senso di ogni persona, di ogni comunità o istituzione è sempre una missione. L’avvenimento del Verbo di Dio che si è fatto carne, ha rivelato che il senso profondo di ogni esistenza è una missione, un essere mandati, che ha una sua origine nel Padre. La vita è una vocazione trinitaria, nel senso che tutti sono chiamati a partecipare al mistero del Figlio di Dio che si lascia inviare dal Padre, senza mai staccarsi dalla comunione con Lui nello Spirito Santo, per ricondurre tutto al Padre, cioè per salvare il mondo.

In che modo una abbazia cistercense, pur nella sua stabilità partecipa del dinamismo della missione di Cristo?

È una domanda fondamentale, perché in questa partecipazione al mistero e alla missione del Figlio di Dio risiede tutto il senso dell’esistenza di un monastero.

Il seme dell’inizio

Negli inizi è spesso inscritto il senso di tutta una storia, così come nel seme c’è già tutto l’albero che crescerà. Soprattutto quando si tratta di una storia il cui inizio è una chiamata di Dio. La storia del fondatore del mio monastero di Hauterive, Guglielmo Di Glâne, mi ha sempre affascinato, anche se in gran parte bisogna supplire con l’immaginazione al laconismo dei documenti storici.

Nel febbraio del 1127 Pietro Di Glâne ed il figlio Ulrico vengono assassinati in un attentato volto ad eliminare l’erede dei conti dell’Alta Borgogna, Guglielmo IV, strage che ebbe luogo nella chiesa dell’abbazia cluniacense di Payerne. Guglielmo, figlio di Pietro, l’unico erede maschio della famiglia Di Glâne, decide di sostituire la vendetta con la fondazione di un monastero. Fu così che, undici anni dopo questa tragedia, Hauterive venne fondata.

Hauterive dunque è stata voluta come segno di perdono, come segno di rinuncia all’odio ed alla vendetta. Un segno così importante per questo signorotto del XII secolo da decidere, pare, di sparire in esso, terminandovi i suoi giorni come fratello converso.

Sono convinto che la decisione di Guglielmo Di Glâne ha segnato la vita dell’abbazia, perché ha inscritto la fondazione di Hauterive in una dimensione fortemente e chiaramente cristologica.

Hauterive è stata fondata per affermare l’amore di Cristo, per affermare che questo amore è tutto, e che è più forte del male, dell’odio, della violenza e della morte.

Fondando Hauterive, Guglielmo ha voluto dire: "Rinuncio ad opporre il male al male, ad opporre la violenza alla violenza, la morte alla morte". Ha deciso al contrario di creare qualcosa di buono, un luogo di preghiera e di ricerca dell’amore di Dio, un luogo di accoglienza e di silenzio, un luogo di fraternità, un luogo in cui il lavoro benedice la terra e la materia, un luogo di adorazione.

Guglielmo non si è accontentato di dire: "Io perdono!". L’uomo del Medioevo non amava le astrazioni. La filosofia moderna non aveva ancora ridotto l’esperienza umana al solo pensiero, e quindi alle sole intenzioni o ai sogni. L’uomo del Medioevo sapeva ancora che una scelta che non si esprime è vana, e che i valori che non prendono carne si volatilizzano e non cambiamo la vita.

Guglielmo aveva bisogno di un segno di pietra e di carne per incidere il suo perdono, nel suo proprio cuore e nel cuore degli altri, per sempre.

Il cuore gravido d’ira

Il mio monastero è costruito in una situazione tipicamente cistercense: sul fondo di un avvallamento boschivo, sulla riva di un fiume; uno spazio delimitato e caratterizzato da un’alta falesia rocciosa, scavata dal fiume, la quale, dirimpetto al monastero, educa il nostro sguardo, istintivamente assetato di vasti orizzonti, ad elevarsi direttamente dalla terra al cielo. È questa falesia, questa "alta riva", che ha dato il suo nome all’abbazia.

Immagino dunque Guglielmo Di Glâne scendere in questo luogo recondito, che doveva far parte delle sue terre, dove probabilmente, era venuto da bambino per giocare e più tardi per esercitarsi al combattimento. Lo vedo scendere ora con il cuore gravido di dolore e d’ira dopo l’uccisione del padre e del fratello.

Oggi purtroppo in tanti luoghi migliaia di uomini e di donne conoscono questa sofferenza amara in cui si mescolano, in un’alchimia disperata, l’aggressività e la debolezza impotente.

Immagino Guglielmo sedersi dove oggi c’è il monastero e ascoltare lo scorrere del fiume, il canto degli uccelli, il frusciare delle foglie agitate dal vento...

Doveva trovare in questo luogo incassato una specie di rifugio, di seno materno, una protezione non tanto contro i suoi nemici, ma contro se stesso, contro il male, l’odio e la violenza che volevano affiorare dal suo cuore e dai suoi pensieri febbrili per diventare azione, perché l’uomo del Medioevo era concreto ed operativo anche nell’espressione del male.

La debolezza della croce

In questo raccoglimento, in questo deserto verde, la grazia ha potuto ispirargli una scelta diversa. La scelta di rendere perpetua e viva la sua decisione di opporre il bene al male, di opporre l’amore all’odio, di opporre alla morte, frutto dell’ambizione al potere, l’amore di Cristo, più forte di ogni potenza, nella debolezza della croce.

Anche se tutto quello che ho descritto finora non fosse che pura fantasia, sta di fatto che è a questo livello che troviamo il senso più profondo dell’esistenza di un monastero.

I monaci non sono soltanto degli uomini che pregano e lavorano. La loro vita è inserita essenzialmente nel mistero profondo dell’uomo, là dove la libertà è chiamata costantemente a scegliere fra l’autodeterminazione che, in un modo o nell’altro, conduce la violenza, e il lasciarsi determinare dall’amore di Cristo che solo può disinnescare i meccanismi distruttori del peccato e dell’odio.

Non è un caso se, storicamente, il monachesimo ha preso la successione dell’epoca dei martiri. Non credo che si debba cercare il senso di questa successione unicamente nella componente di mortificazione che la vita monastica comporta. I monaci non succedono ai martiri quanto alla loro morte, ma quanto al significato della loro morte, che è quello di opporre all’odio del mondo l’amore di Cristo che trasforma il mondo perdonandolo.

La Trinità misericordiosa

Nel coro del mio monastero, un coro riccamente scolpito della fine del XV secolo, c’è un bassorilievo della Trinità che è una suggestiva rappresentazione artistica del mistero di cui sto cercando di parlare. È un trono di grazia in cui il Padre porta sulle ginocchia il corpo morto del Figlio, il corpo che è appena stato flagellato, coronato di spine, crocifisso e trafitto dalla lancia. Fra i volti del Padre e del Figlio si scorge lo Spirito Santo nella forma di un’aquila, forse per esprimere, meglio che con l’immagine tradizionale della colomba, la potenza divina della resurrezione, della vita attraverso la morte.

Il Padre presenta e offre il suo Figlio nell’atto stesso di riaccoglierlo, consumato dalla passione e dalla morte; presenta ed offre anche l’offerta del Figlio che, nonostante lo stato mortale in cui si trova, sembra muovere le braccia per indicare con la mano destra il costato trafitto, sorgente della redenzione, e per esprimere, con l’apertura e la tensione della mano sinistra, il dono della salvezza a tutta l’umanità.

La sfera dell’universo è posta sotto i suoi piedi, non per essere calpestata, ma per ricevere tutto il sangue che sembra ancora scorrere su tutto il corpo come tanti ruscelli.

Questa rappresentazione della Trinità misericordiosa, della Trinità redentrice, di Dio che manifesta nel suo Figlio le proprie viscere di misericordia, tutta questa scena presenta sullo sfondo delle emanazioni dorate dalla forma di fiamme e di foglie nello stesso tempo, come fronde infiammate. Allusione sia al roveto ardente di Mosè che all’albero della vita da cui l’uomo si è allontanato dopo il peccato originale.

La gloria di Dio, lo splendore di Dio, è dunque alimentato dalla sua misericordia. Dio appare nella sua volontà di non più distinguersi dal mistero della redenzione. La passione e la morte del Figlio hanno introdotto nella Trinità il dramma umano totalmente abbracciato dalla misericordia. Non esiste più dramma umano che non trovi il suo posto al cuore del dramma di Dio che offre il suo Figlio per salvare il mondo.

L’immagine del cuore

Questo mistero, che è l’essenza del cristianesimo, sta al cuore della vita di una comunità monastica. Non so fino a che punto Guglielmo Di Glâne ne avesse coscienza; comunque la sua decisione di fondare Hauterive in sostituzione di una vendetta umanamente comprensibile, ha radicato la nuova abbazia in questo mistero. Dio vuole che ci siano dei luoghi, delle comunità in cui, ad immagine di tutta la Chiesa, possa riflettersi il suo cuore, questo cuore più grande del nostro, questo cuore più grande di tutto il male dell’uomo, più grande della morte.

Questa è di per sé la vocazione di ogni cristiano, ma ci sono delle persone o delle comunità per le quali questa chiamata ha un carattere di priorità quasi esclusiva, per essere un segno al servizio di tutta la Chiesa.

Una comunità monastica è, per utilizzare un termine di san Benedetto, una officina, un laboratorio, consacrata a questa opera. Opera che potremmo riassumere con due espressioni del IV capitolo della regola: "Non preferire nulla all’amore di Cristo" (v. 21) e "Non disperare mai della misericordia di Dio" (v. 74).

Certo, in un’abbazia ci sono molte attività, molte pratiche spirituali e materiali. Ma questa missione originale resta come soggiacente a tutte le altre, e le supera tutte, le porta tutte a compimento, anche se non ne siamo tutti e sempre coscienti. Il senso profondo della nostra esistenza, al di là di tutte le apparenze, delle nostre fragilità, è la chiamata ad aprirci all’amore misericordioso della Trinità, a lasciarci penetrare e trafiggere da questo amore che è la salvezza del mondo e la fiamma d’oro che arde per l’eternità.

Mendicanza

Evidentemente ogni vocazione supera coloro che ne sono investiti. Se non li superasse non sarebbe una vocazione, la chiamata di un Altro, ma un progetto, e ultimamente un sogno.

"La vita non è sogno!"

La vita non è sogno se è vissuta come vocazione, come esistenza chiamata da un Altro. La vita non è sogno se è vissuta come la missione provocata ed animata dalla presenza di un Altro: Gesù Cristo.

Anche in questo l’esperienza e la scelta di Guglielmo Di Glâne ci insegno l’atteggiamento giusto. Guglielmo sapeva che perdonare gli era impossibile. Se ha fondato Hauterive, non era per erigere un monumento alla sua capacità di perdonare, bensì per esprimere tutta la sua impossibilità.

Avrebbe potuto dare tutte le sue ricchezze ai poveri, o consegnarsi a coloro che avevano ucciso suo padre e suo fratello... No, ha scelto di fondare un luogo la cui attività essenziale sarebbe stata quella di mendicare e accogliere, giorno dopo giorno, la presenza di Cristo.

L’uomo non può perdonare, non può amare veramente i suoi nemici, e non può, in questa vita, andare al di là della soglia della morte per ritrovare le persone care che ha perduto. Ma Gesù Cristo è Lui stesso perdono, è Lui stesso amore dei nemici ed è la vita più forte della morte.

Guglielmo Di Glâne ha capito che ciò a cui era chiamato, il perdono che Dio gli domandava, era più grande di lui. Ha capito anche che la società nella quale viveva, come la nostra, aveva bisogno essenzialmente di una grande misericordia, più grande di tutti i cuori feriti e ferenti che la componevano.

Allora Guglielmo ha capito che ci voleva un luogo, una comunità, degli uomini, il cui solo scopo fosse quello di amare la presenza del Signore, di domandare e accogliere la presenza del Signore, questa presenza che è già nel seno del Padre, questa presenza crocifissa eppure viva, questa presenza dal cuore aperto, a disposizione dell’umanità in tutte le sue sofferenze, affinché Lui, Cristo, possa essere accolto e quindi essere presente per tutti, Lui che è perdono e resurrezione, misericordia e vita.

La mendicanza della misericordia, che è Cristo, sta al cuore del monachesimo cristiano. Il monastero è il luogo in cui tutto è teso alla mendicanza, la convivenza, il silenzio, le ore di preghiera corale o in solitudine, il lavoro, l’accoglienza, il mangiare, il dormire, il vegliare... tutto è alveo di mendicanza della carità di Cristo.

Per questo il punto di drammaticità in cui, nell’esperienza di Guglielmo, è germogliata la nascita di Hauterive, descrive il passaggio obbligato che ogni monaco deve accettare se non vuole vivere formalisticamente la sua vocazione. La "porta stretta" non sono le asperità più o meno reali della vita monastica, ma quel punto in cui ognuno di noi riconosce che la sua miseria non può essere salvata che dalla presenza del Signore. È un "giogo leggero", fonte di letizia, perché è il riconoscimento che il peso della nostra miseria e della miseria del mondo è portato da Lui.

Verifico ogni giorno, in me stesso e nei miei confratelli, che è quel punto che rende monastica la nostra esistenza, che rende monastico questo giorno, questa ora, l’incontro che vivo qui ed ora, mi trovassi anche lontano dal mio monastero.

Ma questo vale per tutti, perché il monaco è chiamato ad essere segno del cuore del cristianesimo. Senza orgoglio, appunto perché il cuore del cristianesimo è la miseria umana redenta da Cristo.

Viti: Per parlare di arte nel mondo cistercense, non si può non iniziare a parlare di architettura. Il prototipo classico di architettura cistercense è Fontenay in Borgogna, uno dei pochi insediamenti rimasti puri, come uscirono dal pensiero di san Bernardo subito dopo aver iniziato la sua Clairvaux; ma a Clairvaux non esiste più nulla del progetto architettonico e cistercense iniziale, mentre a Fontenay ci sono delle documentazioni notevolissime.

Nelle costruzioni dei cistercensi, elementi quali la povertà, la nudità delle pareti, l’assenza di decorazioni, sono frutti di una volontà cosciente che nei testi legislativi e spirituali delle origini e dei primi venti anni di storia - dal 1098 al 1120 circa - sono proposti come programma da realizzare. Il divario tra l’ideale e la realtà concreta, tra la volontà di essere fedeli a un messaggio e la pratica concreta, è stato provato anche da questi nostri padri, per cui nel susseguirsi dei secoli XII e XIII alcuni elementi che avevano desiderato di eliminare verranno accettati. Nonostante che il capitolo generale vigili, questi peccati di abuso o di decorativismo si faranno sentire, anche se spesso gli artisti, soprattutto i decorativisti, faranno orecchie da mercante.

L’architettura cistercense è nata nel 1135, con Bernardo di Clairvaux: dal 1098 al 1135, i monaci non si erano proposti una tipologia di abitazione, vivevano in baracche di legno, fino ad arrivare al razionalismo spietato e alla simmetria rigorosissima della planimetria di Fontenay, e delle altre abbazie, tutte, almeno a prima vista, abbastanza simili. Vi è una sorta di progetto standardizzato, che viene riproposto, un progetto pilota, un’architettura prefabbricata. Chi è stato l’ideatore di questa realtà? Perché ha voluto esprimersi in questo modo? Nasce qui una serie di interrogativi essenziali per capire l’architettura cistercense; personalmente, ritengo la si possa leggere in una chiave spirituale.

Alcuni hanno definito lo spazio della Chiesa cistercense uno spazio di pura preghiera, dove la nudità delle pareti è logica se deve raccogliere solo l’animo del monaco in contemplazione del suo Dio; altri ancora la definiscono l’officina per il duro lavoro della santificazione, o ancora si parla di rivoluzione estetica, nel segno di Agostino. Di fronte a queste definizioni, ho cercato invece di trovare un denominatore comune: questa architettura, più che standardizzata e prefabbricata, è piuttosto una architettura proporzionale. Qual è il denominatore comune di questa proporzionalità? Bernardo era molto attento alla parola di Dio; era inoltre un uomo medievale, vivente in un contesto di simbologia, di memoria, di qualcosa da tramandare. Dopo varie ipotesi di lavoro, sono arrivato a considerare l’architettura cistercense come una realizzazione in miniatura della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse di Giovanni. Ho anche cercato di trovare un codice progettuale che scaturisce dalla descrizione, nei capitoli XXI e XXII dell’Apocalisse, della Gerusalemme celeste, per poi verificare questo codice progettuale nell’architettura cistercense.

Il primo elemento che emerge dalla descrizione giovannea è l’angelo con la canna per misurare la città. L’angelo nell’Apocalisse è il vescovo della Chiesa: nel caso dell’abbazia si suppone che sia il vescovo che, d’accordo con il donatore dell’abbazia, delimitava lo spazio per la costruzione. Le mura di cinta davano la sacralità al luogo ormai conquistato e destinato alla costruzione di un luogo sacro. La forma quadrata e cubica della città misura 12.000 stadi - uno stadio è 184 metri - quindi la Gerusalemme celeste acquisterebbe una dimensione di 2.200 chilometri di lunghezza, larghezza e altezza. Sarebbe così una città materialmente improponibile: ma nell’architettura cistercense questa simbologia numerica ritorna puntuale, e abbiamo infatti le 12 porte - quattro per ogni lato -, i 12 basamenti o 12 ambiti dove si svolge la vita del monaco, e le restanti misurazioni seguono i numeri ricorrenti nell’Apocalisse il 3, il 4, il 12, 144, 12.000. Analizzare una abbazia cistercense con questo programma, con questa proporzionalità, è solleticante. Molto probabilmente Bernardo, nella sua coscienza di voler pianificare con lucida ratio, ha voluto anche organizzare questa architettura in un modo tale da rimandare direttamente, alla Gerusalemme celeste.

Il denominatore comune è stato trovato da Bernardo nella misura. Dai punti cardine della Gerusalemme celeste, si è arrivati a questo codice progettuale di Gerusalemme celeste. Trovato il modulo - la prima cosa che si costruiva era l’abside della Chiesa, la parte più a nord - si continuava a costruire, e il modulo che veniva identificato per costruire la Chiesa era il modulo che successivamente veniva applicato al resto del monastero. La lunghezza della Chiesa, o meglio il modulo della Chiesa primordiale, moltiplicato per dodici dà le dimensioni della Chiesa. Prendendo il modulo e riproponendolo nel lato dei fratelli conversi o nel lato dei monaci, chiudendo idealmente questo elemento del quarto lato del quadrato, noi abbiamo 144 tasselli in moduli che compongono l’abitato monastico.

Per quanto, sinteticamente, riguarda le altre arti, la miniatura costituiva un elemento fondamentale dell’arte cistercense, e rendeva difficile il far accettare, eccetto che per alcuni anni tra il 1140 e il 1150, la monocromia. Oltre questa realtà dei codici, tra le arti cistercensi spiccano le vetrate. All’inizio erano un obbligo serio, perché il vetro colorato era molto costoso. In Borgogna si preferiva mettere i teli colorati di verde per tamponare le aperture delle finestre o delle porte. E così forse capitò fino ai primi anni delle abbazie cistercensi. In seguito, i monaci stessi cominciarono l’arte di fondere il vetro e lavorarlo in casa. La lavorazione usciva dal crogiolo chiara, senza nessuna decorazione, con sistema geometrico figurativo molto bello, ma senza nessun colore. Fin qui nel secolo XII; in seguito comincerà la decorazione: non ci si accontentava di come usciva il vetro, ma si dava una gradazione di colore. Successivamente, la pittura entra anche nelle vetrate dei monaci cistercensi, ed anche nelle mattonelle. Nella seconda metà del 1200 il decorativismo cluniacense comincia a prendere piede anche da noi. Gli arredi sacri, infine, sono venuti molto tardi, dal XIV e XV secolo in poi.