VERSO UN NUOVO WELFARE: VALUTARE IL NON PROFIT PER VALORIZZARE IL TERRITORIO

Verso un nuovo welfare. Valutare il non profit per valorizzare il territorio

Verso un nuovo welfare: valutare il non profit per valorizzare il territorio

Partecipano: Giuseppe Guerini, Presidente Federsolidarietà di Confcooperative e Presidente Cooperativa sociale Ecosviluppo; Donato Iacovone, Amministratore Delegato EY Italia; Roberto Maroni, Presidente Regione Lombardia; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere Sociali.

 

MONICA POLETTO:
Iniziamo il dibattito sul tema: Verso un nuovo welfare: valutare il non profit per valorizzare il territorio. In questo periodo di crisi le opere sociali, così presenti nel territorio italiano, hanno dimostrato di essere fondamentali per la tenuta della nostra società. Sono cresciute, hanno incrementato moltissimo i livelli di fatturato, di occupazione; questo ha stupito molto, in un periodo in cui invece l’occupazione stentava a crescere, e in un momento in cui le risorse, sia pubbliche che private, venivano decisamente meno. Evidentemente siamo in un momento di grande ripensamento del sistema del welfare: si sta ridisegnando il rapporto tra pubblico e privato, in un contesto non solo di scarsità di risorse ma di grande incremento dei bisogni. Per questa ragione, ed è lo scopo di questo incontro, ci sembrava importante porre al centro lo scopo del sistema di welfare, che non è la conservazione di forme di intervento ormai superate e non più efficaci, ma le persone portatrici di bisogni, ma anche di impeti di costruzione e di gratuità. In questo scenario ci è sembrato importante che si sia tornati a parlare di valutazione, perché la valutazione è la grande possibilità per superare gli steccati ideologici – che vedono contrapposto l’intervento pubblico e quello privato – per mettere al centro il risultato, l’efficienza e l’efficacia e la creazione di azioni effettivamente utili e positive per le persone. Perché si è ricominciato a parlare di valutazioni? Innanzitutto, il disegno di legge che reca la riforma del terzo settore e dell’impresa sociale, negli articoli in cui mette a tema il rapporto tra pubblico e privato, e la valorizzazione dei soggetti privati anche in fase di programmazione, dispone la creazione di criteri e modalità per la valutazione dei risultati ottenuti. Nella valutazione che viene data di impresa sociale, si parla di impresa che ha come scopo la realizzazione di impatti sociali positivi. Il tema si è dimostrato fondamentale relativamente alla recente vicenda Imu: la possibilità, cioè, anche dal punto di vista della disciplina dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato e di concorrenza, che imprese senza scopo di lucro che svolgono attività commerciale possano essere detassate. L’Agenzia delle Entrate in sede di audizione alla Camera sulla riforma del terzo settore ha aperto ad una interessante possibilità, centrando il punto sulla valutazione degli impatti sociali positivi. Per questa ragione ci è sembrato molto interessante affrontare qui questo tema. Dico anche questo: il nuovo sistema di welfare se vorrà porre le persone al centro, dovrà identificare degli strumenti che permettano di verificare quanto i bisogni di queste persone siano effettivamente soddisfatti, e quanto le azioni intraprese corrispondano ai bisogni. Allo stesso tempo non potrà che nascere da una valorizzazione di tutti i soggetti che già operano e realizzano azioni di pubblica utilità, avendo come scopo il protagonismo di tutte le persone presenti sui nostri territori. Di questo parleremo questa sera. Innanzitutto, lascio la parola al professor Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, chiedendogli innanzitutto perché la valutazione dei servizi è così importante, anche dal punto di vista culturale. Nella tua esperienza, cosa vuol dire valutare quali sono i rischi rispetto ai quali bisogna stare attenti, per non irrigidirsi rispetto ad un mondo cosi variegato? Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
Noi abbiamo sempre pensato che ci dovesse essere un pluralismo di offerta nei servizi del welfare, siano essi servizi statali – educazione, sanità, assistenza – o realtà profit e non profit. Un pluralismo di offerte che potessero collaborare alla erogazione di questi servizi. Per esemplificare, la Regione Lombardia funziona così e mi sembra essere, sia nella precedente legislatura che in questa, un modello per tutti. Evidentemente, offrire servizi in modo concorrenziale, pur con una concorrenza regolata come avviene in questi tipi di settore, vuol dire permettere una maggiore qualità e una maggiore possibilità di risposta ai bisogni della gente. Questo lo dico all’inizio, perché lo collego a quello che penso dirà poi il Presidente Maroni, delineando il sistema del welfare. Ma qual è l’obiezione che la letteratura, soprattutto un certo tipo di letteratura, e molti politici, legati ad un’immagine statalista, hanno sempre dato rispetto a questo? Che nel momento in cui si costruiscono dei servizi di questo tipo, in cui c’è libertà di scelta da parte dell’utente, compare un’asimmetria informativa: l’utente non è in grado di capire cos’è meglio. Quindi, prevedere un’offerta dei servizi che non sia pluralistica e con la libera scelta dell’utente vuol dire di fatto fare qualcosa che potrebbe essere giusto in astratto e non giusto nella realtà. Perché politica e letteratura dice questo? Il welfare definisce i servizi di pubblica utilità alla persona. Ma cosa vuol dire pubblica utilità alla persona? Pubblica utilità: non sono servizi come il barbiere o il supermercato, ma sono utili per tutti. L’educazione, l’assistenza, la sanità, la cultura, sono – qui nasce l’obiezione – i cosiddetti experience goods, tali per cui non posso vedere quale sia la qualità prima dell’erogazione del servizio. Per esempio, voi potete dire che un insegnante è bravo, ma non potete dire che ha fatto una buona lezione fino a quando la lezione non viene fatta. O voi potete dire: quel chirurgo è preparato, ma fino a quando non ha fatto l’operazione non potete dire se l’operazione è stata buona o no. Anche nella cultura, voi potere dire: il tenore è bravissimo, ma fino a quando non è stata fatta l’opera musicale, io non posso dire se è stata buona o no. Allora, siccome non posso verificarlo a priori – pensate alla differenza, una macchina o un servizio elettrico è definibile a priori sulla base delle caratteristiche tecnologiche – esiste una asimmetria informativa, e quindi non devo erogare il servizio. Qual è la risposta? La risposta sta nella valutazione. Ora, la valutazione si giustifica anche nel momento in cui il servizio è pubblico, perché, mentre anni fa, nella sanità o nell’educazione, bastava andare a vedere se il bilancio era in ordine e avere qualche indicatore di tipo aziendale, adesso in tutte le parti del mondo la gente vuole sapere cosa succede, vuole sapere se la sanità è buona, se l’assistenza è buona, se l’istruzione è buona. Vuole valutare, vuole giudicare a qualità dei servizi. Questo vale anche se esistesse solo il servizio pubblico. Ma nel momento in cui c’è una pluralità di erogatori, la risposta all’asimmetria informativa è dare degli strumenti per sapere cosa succede, in modo da poter valutare quello che succede. Ecco la risposta a questo tipo obiezione, che esiste ma che spesso è un’obiezione politica, che magari andava bene trent’anni fa perché non c’erano gli strumenti per valutare. Oggi questa valutazione può essere fatta, e nella seconda parte dell’intervento dirò come avviene. Innanzitutto, cosa vuol dire valutare? Valutare un servizio vuol dire valutarlo non solo ex ante, come per esempio la certificazione iso9000 oppure un procedimento di accreditamento a priori che guarda le procedure. La valutazione di cui si sta parlando è una valutazione ex post, che può essere di tre tipi: una, è la customer satisfation, la soddisfazione dell’utente; la seconda è l’efficienza, cioè quante risorse usi rispetto ai servizi che dai; la terza è l’efficacia, cioè se tu hai risposto ai bisogni. Ora, se fossero attuate anche solo le prime due, potremmo di valutare sia i singoli erogatori che un sistema più ampio, per esempio regionale. Vediamo un attimo nel dettaglio: sapete che il questo dibattito sulla sanità è particolarmente acceso per il fatto che spesso si portano tagli orizzontali; ma, se la spesa sul PIL per la sanità è del 7%, ci sono regioni che spendono il 10% e ci sono regioni, come la Lombardia, che spendono il 5-8%. Se si valutasse veramente, il Governo centrale capirebbe che non può tagliare a tutti in maniera uguale, perché se una regione spende il 10%, cercherebbe di eliminare quel 3% in più di spesa e premierebbe chi spende di meno. Già capite che fare efficienza e valutare vuol dire per esempio superare l’idea del taglio orizzontale, per cui tutte le regioni sono uguali e si muovono tutte in modo uguale, ma non è così. Parliamo ora della customer satisfaction: un utente è contento o no. Da un po’ di anni si valuta l’efficacia. Cosa vuol dire valutare l’efficacia? Vuol dire valutare non solo l’output, cioè il prodotto aziendale, ma l’outcome, cioè l’esito di quello che viene erogato sulla persona. In termini di istruzione, se i ragazzi che si diplomano sono istruiti o no. In termini di formazione professionale, se hai preparato una persona a lavorare o meno. In termini di sanità, si può valutare se tu hai curato o no. Per esempio, dal punto di vista di spesa, con le schede di immissione ospedaliera la Lombardia guarda sulle schede di immissione ospedaliera la mortalità, le dimissioni volontarie, i trasferimenti tra ospedali, i ritorni in sala operatoria e il ritorno in ospedale dopo una degenza. Correggendo questi dati con le caratteristiche delle persone, perché non puoi mettere a pari un vecchio, un giovane, un malato cronico o no. Vi do un altro dato per capire come è importante valutare, e come la Lombardia può valutare gli ospedali e i reparti. A livello regionale: vi faccio un esempio. L’Agenas, che è l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali e valuta la sanità, fa il Programma Nazionale Esiti, e adesso vi do un dato che riguarda i parti cesarei. La Lombardia ha un quarto di parti cesarei rispetto, per esempio, a certe Asl della Campania. Premettendo che forse le donne sono tutte uguali, vuol dire che l’efficacia di questi interventi è minore, perché i casi sono due: o è meno capace oppure sta giocandoci dentro. Andate a vedere tutti gli altri parametri della Lombardia di mortalità: potere confrontare le regioni e vedere che la Lombardia è più efficiente e anche più efficace, cioè più capace di valutare, di intervenire in termini di cura del paziente. D’altra parte avete un altro dato interessante, che può essere usato come outcome, che sono le percentuali di persone che vanno fuori regione a farsi curare. La Lombardia ha un 10% di utenti che vengono da fuori regione. Vuol dire che la gente, soprattutto per un certo tipo di patologia, si trasferisce da altre regioni verso la Lombardia. Questo vale anche all’interno degli ospedali lombardi, perché mentre per l’80% dei casi di malessere si va al massimo a 20km di distanza da casa e non si sceglie un ospedale specifico, per il 20% di patologie, di solito quelle più gravi, oncologiche, piuttosto che cardiologiche, la gente sceglie l’ospedale. Tutto questo discorso cosa arriva a dire? Che con la valutazione, abbiamo tutti gli strumenti per permettere di costruire un sistema di welfare basato sulla famiglia che sceglie, sulla possibilità di una concorrenza tra privato non profit e pubblico. Quello che vi ho detto sulla sanità può essere detto per esempio sulla formazione professionale. La Lombardia ha i voucher. E cosa sono i voucher? Mentre prima si affidava – e in molte regioni fanno ancora così – la formazione professionale a certi enti a fondo perduto, la Lombardia ha deciso che il punto di riferimento non è l’ente, ma l’utente. L’utente decide dove andare ed io lo supporto. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che l’utente va dove impara di più. E se a posteriori vado a vedere che veramente impara di più, confermo queste cose. Questo per dirvi questo discorso va ben al di là della Lombardia e di questo settore. Quando si parla di Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Università e Ricerca) vuol dire che l’università ha cominciato a valutare le suo strutture. È cambiato tutto, e ve lo dico da Professore, perché ha cominciato a guardare i professori che producono e quelli che no; ogni Professore ha un “vqr” che dice il numero di articoli scientifici sulle riviste che ha fatto nell’ultimo periodo. Si comincia a vedere cosa succede. E la prova INVALSI (Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema dell’Istruzione) ha cominciato a farlo sulla scuola. Ma siccome in Italia domina il luddismo, purtroppo certe regioni come la Sicilia il 65% degli studenti, invogliati dai professori e dalle famiglie, ha rifiutato di farsi valutare, avendo paura che la valutazione fosse una sorta di condanna. La valutazione implica togliere la libertà di educazione. Ma guardare se tu gli studenti sanno mettere un apostrofo, o sanno fare il problema del rubinetto che si apre dentro la vasca che si riempie, o fare ragionamenti di logica, vuol dire semplicemente vedere se si istruisce o no. Anche nell’INVALSI, mentre si dovrebbero avere delle varianze all’interno delle scuole, si hanno delle varianze tra regioni. Vuol dire che in certe regioni – questo confermato anche da altre valutazioni internazionali, come PISA (Programme for International Student Assessment) – si istruisce di più e in altre di meno. Anzi, l’indagine PISA ci dice che la Lombardia, il Trentino e altre regioni sono molto al di sopra della media OCSE, mentre altre regioni sono sotto. Concludo. Con la valutazione posso dire ad un ente o un’azienda di servizi che forse deve migliorare. Oppure posso scegliere di andare in un’università dove la gente è più preparata. La valutazione è uno strumento per quel welfare sussidiario compartecipato, familiare. Non ci possono più essere obiezioni, non si possono più fare obiezioni politiche che ritengono che le persone non sanno scegliere e che così si crea diseguaglianze sociali. Anzi. Per superare le diseguaglianze, tu devi dare degli strumenti attraverso cui la gente possa scegliere. La valutazione è uno strumento tecnico che permette finalmente una politica – che non abbiamo inventato noi, perché il welfare partecipato è un’invenzione del “blairismo” inglese – che valorizza la società della persona, che permette una competizione virtuosa, che va a vedere cosa funzione e cosa no. A questo punto, le differenze di politica che si possono avere sono differenze di intelligenza, perché – e lascio la domanda – è meglio che la gente, se ha le informazioni, scelga il meglio, o far finta che di essere nella notte in cui tutte le vacche sono nere?

MONICA POLETTO:
Grazie. Lascio ora la parola al dottor Donato Iacovone, Amministratore Delegato di EY Italia, che farà un affondo sul tema della valutazione d’impatto, probabilmente con spirito critico e con qualche proposta sugli strumenti di valutazione. Grazie.

DONATO IACOVONE:
Grazie. Mi riallaccio velocemente a quello che diceva Giorgio Vittadini. Il primo tema è chiedersi perché oggi è diventato così urgente valutare e perché la valutazione cominci ad essere così fondamentale e non più rinviabile. La prima ragione è che siamo in un momento di risorse sempre più decrescenti ma di bisogni crescenti della popolazione, e quindi è urgente valutare. Io sono amministratore delegato di Ernst & Young, una società che opera nel profit e che impiega circa quattromila persone in Italia e che l’anno scorso ha assunto novecento neolaureati. Siamo dentro al mondo del profit, dove è importante valutare e perseguire gli obiettivi di risultato. Lavoriamo nel settore della pubblica amministrazione, quindi conosciamo bene le logiche della pubblica amministrazione e i problemi di efficacia e di efficienza a cui faceva riferimento Vittadini. Abbiamo creato tre anni fa la Fondazione Ernst & Young, che si occupa dei giovani, tra quelli che assumiamo ogni anno, che hanno avuto un disagio, uno svantaggio e che sono aiutati dai nostri stessi giovani e dai fondi della società su alcuni progetti. Ne abbiamo finanziati moltissimi anche su Milano e un po’ in giro per l’Italia. Abbiamo l’esperienza giusta per parlare di risultati e soprattutto per partire dal fatto che senza la collaborazione tra il mondo del non profit tutto diventa complicato, soprattutto in alcune regioni. La Lombardia sicuramente è una di queste, se non addirittura la prima: c’è un forte attivismo del non profit e dell’associazionismo, una forte collaborazione tra il mondo del profit che finanzia il non profit, ma anche tra il mondo del profit e del privato che finanziano il non profit e la pubblica amministrazione che ha un grande ruolo: quello di coordinare secondo logica, dando priorità agli interventi sul territorio. Oggi la Fondazione EY, come tutte le fondazioni e le associazioni, possono decidere quale progetto finanziare. Se tutte le fondazioni e le associazioni in Italia finanziassero la ricerca sui tumori, o qualche altra iniziativa, tutti i soldi finirebbero in una solo iniziativa, che magari non è la priorità per quel territorio. Ecco perché è fondamentale il ruolo del coordinamento di un territorio, regione, comune, città metropolitana o quello che sia. Torniamo all’impatto: che cos’è l’impatto? Se si finanzia – e sono tanti i fondi finanziati col Fondo Sociale Europeo – per esempio un fondo di formazione sulla disoccupazione, il risultato lo si misura nel numero di partecipanti che vanno a questo corso di formazione. Se invece parliamo del valore, è la qualità di quel corso. E come si valutano questi aspetti? Intervistando i partecipanti, chiedendo la loro valutazione sui docenti, sul materiale didattico distribuito, sulle infrastrutture, l’aula etc. Ma come misurare l’impatto? Che cos’è fondamentale quando io erogo con soldi pubblici o di una associazione un corso di formazione per disoccupati? Che la gente vi partecipi? Sì. Che ci sia un buon corso e che i docenti siano bravi? Sì. Ma, alla fine, cos’è che veramente è rilevante? Che la gente che è andata a quel corso trovi occupazione! Allora l’impatto è quante persone che hanno fatto quel corso di formazione trovano lavoro entro sei mesi dopo, un anno dopo. E io difendo l’efficacia di quel corso sulla base del numero di persone che dopo sei mesi hanno trovato occupazione. Tornare al punto della cooperazione tra più soggetti. Una cosa importante quando si chiedono i soldi ai cittadini, o a una impresa, per un obbiettivo sociale – per esempio per aiutare i malati terminali che sono rimasti soli o i cronici che sono rimasti a casa – il cittadino o l’impresa vogliono sapere che cosa si fa con quei soldi. È importante, quindi, che si mettano insieme i soggetti pubblici e privati e si chiedano dei soldi, ma con quei soldi bisogna raccontare e dimostrare che cosa si è fatto, altrimenti i soldi per finalità sociale non arriveranno più. Questo è un altro elemento. Sono perciò importanti gli ingredienti da mettere insieme ed è importante che voi troviate un tornaconto per chiunque metta soldi. Anche un privato che mette soldi ha bisogno di un tornaconto: il suo è che i soldi che ha messo in quella iniziativa hanno generato un impatto, che il numero dei disoccupati è diminuito nell’esempio di prima, o che tornino a scuola i ragazzi che hanno a abbandonato la scuola. Vogliono misurare l’impatto perché esso dà un rendiconto, una misurazione di quello che si è fatto e quindi un beneficio in termini di brand e di reputazione. Se non ha un beneficio o se non ha questo tipo di soddisfazione non mette più soldi. Andiamo avanti e ragioniamo su quali sono le partnership in giro per il mondo che hanno funzionato. Vi mostro un esempio interessante. Un portale che ognuno di voi può visitare è www.ted.com. È molto interessante questo canale, perché vi potete trovare i migliori discorsi che si sono fatti nel mondo. Toby Eccles racconta una storia interessante avvenuta in Inghilterra, dove il Ministro della giustizia ha lanciato un bond, cioè una richiesta di soldi per un finanziamento, un’obbligazione da parte dei cittadini. In sostanza, chiede ai cittadini di finanziare un progetto. Il progetto doveva servire per ridurre la recidiva nei carcerati. Emette un bond e dice ai soggetti che finanziano questa obbligazione che, se entro sei anni la recidiva diminuisce del 7,5% cioè si riduce, io, come Ministro della giustizia riconosco una percentuale di interesse tra il 10 e il 13 %. Altrimenti riconosco zero. A questo punto, si è creato un grande senso di responsabilità di chi aveva messo i soldi e voleva controllare cosa si faceva con quei soldi. Ebbene, l’obbiettivo è stato raggiunto. Questo è un altro esempio dove l’impatto era chiaro: ridurre il numero di carcerati che ritornano in carcere, molto chiaro e anche molto misurabile. Le persone che hanno messo dei soldi hanno ottenuto un risultato e anche un interesse. Il secondo esempio: Michael Porter è un grande guru nel settore privato di strategia e di organizzazione di imprese. Ha teorizzato che per le imprese è conveniente investire nel sociale. Ha teorizzato e dimostrato che se una azienda investe sui bisogni del territorio ha un ritorno per i propri dipendenti, per i propri clienti, per la propria azienda. Ritorniamo al punto della misurazione di questo impatto. Se intervengo su un territorio, ho la necessità di avere un ritorno misurabile. Avevamo detto all’inizio: risorse scarse bisogni crescenti, e che cosa succede quando le risorse sono scarse e i bisogni crescenti? Il punto di vista soprattutto politico ma non solo, anche nel settore privato, succede che i responsabili della politica o delle aziende guardano il breve termine, il risultato immediato. Questo è quello che crea in genere i danni generazionali: si interviene sul breve e non si investe sulle generazioni successive, non si investe sul futuro, perché investire nel futuro è un dovere che ognuno di noi ha. Oggi siamo qui perché qualcuno nel passato ha investito su di noi, lasciandoci in una condizione che ci consente di essere noi ad avere l’obbligo di investire sulle generazioni successive. Questo è un altro elemento fondamentale perché valutare l’impatto, cioè valutare la bontà di un progetto rispetto a un altro, mi consente di guardare a quale progetto ha più impatto guardando anche al medio e al lungo termine. Questo mi consente di scegliere più opzioni. A questo punto, se è chiaro il concetto di impatto e perché è importante valutare l’impatto, inseriamo un altro concetto: come si misura l’impatto? Quali sono gli indicatori? Il titolo di questo dibattito è sul welfare cioè sul benessere di una collettività. Gli indicatori sono fondamentali per misurare il benessere. Simon Kuznets ha inventato il PIL, il Prodotto Interno Lordo, quello che noi oggi usiamo per misurare il benessere delle nazioni. Lui l’ha inventato nel 1929, dopo la grande depressione, perché voleva valutare se gli investimenti e gli interventi che stavano facendo nel Ventinove per rianimare l’economia avessero o meno efficacia. Ma lui stesso, a pagina sette del suo documento, dice che questo misuratore non è efficace a misurare il benessere della collettività, che è un concetto molto più sofisticato. Allora gli indicatori che noi dobbiamo andare a trovare devono essere sintetici, devono funzionare ma devono anche essere sofisticati per cogliere la complessità del benessere. Arriviamo così ai modelli di valutazione più diffuso. Oggi se voi andate sul web, su Google o su qualunque altro motore di ricerca, e cercate i modelli di valutazione, voi trovate un elenco di circa cinquanta modelli di valutazione. I modelli per valutare l’impatto di un progetto su un territorio o di un tema o una priorità definita ce ne sono cinquanta. E ognuno di questi ha una sua validità: qualcuno è più positivo, qualcuno più negativo, ma tutti sono validi, tutti sono basati sul cambiamento e sul miglioramento. Quello più diffuso si chiama SROI, Social Return On Investment, un modello che misura il ritorno sociale di un investimento. Noi che cosa abbiamo fatto? Abbiamo semplicemente fatto un modello che tende ad essere sistemico. Come Ernst&Young lo abbiamo sperimentato: questo modello tiene in conto in maniera sistemica tutti gli aspetti: l’impatto ambientale, gli elementi di innovazione di un progetto rispetto a un altro, il benessere personale e le relazioni sociali. Quest’ultimo è un elemento fondamentale perché con l’aumento dell’età le relazioni sono quelle che fanno vivere meglio o peggio le persone. Le relazioni sono importanti. Se un progetto favorisce le relazioni tra le persone è sicuramente da valutare. Poi ci sono il lavoro, il paesaggio e il patrimonio culturale, il benessere economico. Questi sono i dodici grandi temi, sotto i quali ci sono cento indicatori. C’è un algoritmo che fa un calcolo e definisce se un progetto è migliore rispetto ad un altro, sulla base della priorità che ci eravamo dati. E arriviamo al punto che citava Giorgio Vittadini. Se io ho definito le priorità di un territorio, cioè cosa è più importante per me, io indirizzo il non profit, il profit e le risorse della pubblica amministrazione verso gli obiettivi che io ritengo prioritari. Ma come lo faccio? Misurando ex ante, all’inizio, prima che partano i progetti, che tipo di impatto hanno quei progetti sulla disoccupazione, per esempio; poi lo vado a verificare alla fine, ex post, se effettivamente le misure di quei progetti hanno ridotto la disoccupazione, hanno ridotto l’abbandono scolastico, hanno ridotto la recidiva e via dicendo. Da una parte, quindi, gli interessi di un territorio, cos’è prioritario per un territorio; dall’altra che cos’è prioritario per l’organizzazione. Perché noi dobbiamo tenere conto anche di che cosa è prioritario per la Fondazione Ernst & Young, per l’ente a cui chiediamo credito, se vogliamo ottenere i soldi che chiediamo. Quando massimizziamo l’interesse dell’organizzazione che mette delle risorse a disposizione e l’interesse di un territorio e di chi guida un territorio, noi massimizziamo l’interesse di chi mette denari e l’interesse di chi è chiamato a gestire quei danari. Chiudiamo. Questo modello potrebbe aiutare a fare il calcolo dell’impatto del benessere, a fare un’assistenza tecnica, a valutare ad assistere tecnicamente l’erogazione di fondi. Può aiutare a valutare le politiche e i piani della pubblica amministrazione e, un domani, potrebbe aiutare i cittadini a valutare se le promesse che i politici hanno fatto sono state mantenute oppure no. Questo è un capitolo aperto molto delicato. Chiudo con una frase di Keynes il quale dice che “è meglio essere precisamente vaghi, essere vagamente giusti, che precisamente sbagliati”. È meglio misurare facendo degli errori che non misurare affatto ed essere sicuramente sbagliati. Grazie a tutti per l’attenzione.

MONICA POLETTO:
Giuseppe Guerini, Presidente di Federsolidarietà, oggi ci parla della Cooperativa Ecosviluppo, di cui è Presidente. Vorrei farti una domanda sia per il tuo ruolo di Presidente della più grande organizzazione europea di cooperative sociali, sia per quello di Presidente di cooperativa. Dacci un giudizio su quello che vedi rispetto all’attuale modello di welfare e come la valutazione dell’impatto può aiutare. Grazie.

GIUSEPPE GUERINI:
Innanzitutto, grazie per questa occasione. È sempre un piacere venire a parlare al Meeting. Ogni volta che intervengo mi sembra importante ricollocare ciò che dico all’interno del tema del Meeting. Una delle prime riflessioni che si fa intorno ai sistemi di welfare è di che cosa sia mancanza il bisogno di welfare portano le persone, e soprattutto che espressione di mancanza è il welfare che abbiamo bisogno oggi. Alla luce del fatto che contrariamente a quello che molti si aspettavano negli anni scorsi, il progresso e la crescita di sistemi di intervento sociale non sono riusciti a ridurre il fronte delle disuguaglianze – uno dei grandi obiettivi che i sistemi di welfare si proponevano era quello di ridurre le diseguaglianze – e non si riesce a rispondere ai bisogni delle persone che in realtà continuano ad aumentare. Un maggior progresso nella capacità di cura delle persone allunga la vita, per esempio, e questo porta con sé una domanda sociale che diventa sempre più importante, sempre più incomprimibile. Da qui il problema di conciliare l’esigenza di far combaciare una quantità di risorse sempre meno disponibili e una quantità di bisogni che sono sempre più in crescita. A me piace in questa stagione. Prendendo spunto da Michael Porter, citato prima da Iacovone, che scrive in un articolo di alcuni anni fa che bisogna reinventare il capitalismo. Io credo che noi abbiamo la necessità di reinventare complessivamente i sistemi di welfare. Abbiamo un sistema di protezione sociale di welfare che concettualmente è rimasto ancorato all’origine del welfare, tra la fine dell’’800 e la metà del secolo scorso. Non è che tutto sia rimasto fermo, è cambiato il sistema di risposta, ma l’idea concettuale sulla quale si costruisce ancora oggi il sistema di welfare nasce da un modello antico. Abbiamo la responsabilità di provare a inventare qualcosa da questo punto di vista, a reinventare il welfare attraverso l’esempio che ci viene da altri sistemi. Il sistema imprenditoriale, il sistema capitalistico ha cambiato il mondo in maniera straordinaria. Pensiamo a cosa è successo nelle comunicazioni, all’evoluzione che c’è stata, a cosa era un telefono all’inizio del ’900 e cos’è oggi uno smartphone: concettualmente è completamente diverso. Quando invece ci occupiamo di una persona con disabilità, di una persona anziana non autosufficiente, di un malato psichiatrico abbiamo un approccio che concettualmente ha migliorato le procedure mediche della cura, ma non ha migliorato o non è riuscito a migliorare il sistema che costruisce una risposta. Ciò che continua ad interrogarmi è quella che prima Vittadini definiva la differenza di informazioni, la asimmetria informativa, uno degli elementi su cui si costruiscono i codici professionali. Abbiamo bisogno di una capacità di coinvolgimento più alta delle persone anche nella valutazione dei servizi di cui essi stessi hanno bisogno. Mi viene da fare una provocazione: in una qualche misura – e lo dico soprattutto a noi operatori del terzo settore e a noi operatori del welfare – c i siamo seduti sulla capacità di dare risposta ai bisogni. Non possiamo certo paragonare come si trattava un malato psichico nel 1910 e come si cura oggi un malato psichiatrico. In realtà facciamo fatica a coinvolgere le persone e non abbiamo quella spinta, quell’anelito a cambiare le cose che hanno saputo dimostrare altri. Tra me e un ingegnere della Apple che progetta l’Iphone 6 c’è una asimmetria informativa enorme, ma lui ha lavorato affinché io, con la mia incapacità, pigiando su pochi pulsanti, utilizzi lo strumento. In realtà, noi, nei sistemi di welfare, spesso abbiamo continuato ad aumentare le asimmetrie informative per cui la persona che abbiamo davanti, la trasformiamo in un paziente, in un utente. Io spesso, scherzando, dico che gli operatori sociali hanno un cuore troppo grande perché si senta riempito della mancanza della domanda che porta l’altro, e quindi tenti di rispondere con una procedura. Da questo punto di vista anziché far sentire questo cuore pieno di mancanza, ci accontentiamo di riempire un modulo. Questo è quello che succede spesso nelle procedure, che servono sicuramente a costruire elementi di qualità, e i sistemi di accreditamento sono stati sviluppati e hanno aiutato molto a far crescere la professionalità; ma se noi andiamo a guardare in fondo, ci accorgiamo che non basta. Poche settimane fa il Presidente dell’INPS ha dichiarato che gran parte degli interventi che il più grande ente di previdenza e di assistenza europeo realizza, sono destinati a persone che non ne avrebbero bisogno. Questo indica il fallimento di un sistema. E noi continuiamo a non fare valutazioni, continuiamo a dire che la procedura è stata applicata correttamente. Ma andiamo a vedere perché succede questa cosa in questo Paese! Io credo che dovremmo avere un maggior capacità di spingere in questa direzione, e dobbiamo farlo agendo sulle leve che possiamo mettere in campo, ciascuno per il proprio pezzo di responsabilità. Non sto dicendo che la pubblica amministrazione deve mettersi a fare i piani di valutazione, deve valutare le politiche a impatto e cosa realizzano. Mi chiedo però cosa fa il terzo settore per valutare i risultati della propria azione? Sappiamo che alcune delle domande che vengono portate dalle persone sono difficili da inserire negli indicatori: oggi una delle principali domande che portano le persone è una domanda di relazione, una domanda di senso, una voglia di fiducia e di restituzione di speranza di vita, che è fatta delle relazioni che si costruiscono le persone e che parte da un riconoscimento. Cercare di tenere l’umano dentro i codici personali e non accontentarsi di riempire il modulo. Spesso ciò che ci chiedono non è una risposta a un problema dentro i parametri di accreditamento; semplicemente vuole una relazione, vuole essere riconosciuto come persona. Dobbiamo fare molta attenzione a mantenere la persona qui dentro. La Lombardia è il paradiso del welfare e della sussidiarietà, ha le cose che funzionano, una presenza di associazionismo, di volontariato, di promozione sociale che non ha eguali in altri paesi europei. Eppure anche qui abbiamo avuto stagioni di grande sperimentazione che poi pian piano si sono istituzionalizzate. C’è un irrigidimento. Abbiamo una produzione di burocrazia molto elevata da questo punto di vista e quindi il rischio di entropia diventa molto elevato. A che cosa serve la valutazione di un patto di esito? Ad evitare che noi ci innamoriamo delle procedure e quindi spendiamo un sacco di tempo sull’adesione al sistema di procedure e non su che risultato mi porta il lavoro che stiamo facendo. Questo rischia di avvizzire la spinta innovativa che è possibile realizzare in regioni come la Lombardia dove in realtà questo potenziale c’è. Regione Lombardia sta compiendo tre grandi operazioni. La prima è la riforma del sistema sanitario. Io trovo molto interessante il fatto che nel disegno si prevede l’unificazione degli assessorati di famiglia, solidarietà sociale e sanità. Qualcuno dice che ci facciamo mangiare il welfare dalla sanità, io spero che sia il contrario, che ci sia un po’ di contaminazione e di codice scientifico e metodologico nei sistemi di welfare e un po’ più di umanità dentro il sistema sanitario. La seconda operazione molto interessante che fa regione Lombardia, e che però rischia di rimanere incompiuta se non deciderà di metterci mano anche il Governo nazionale, è l’operazione sugli assistenti familiari. È l’unica regione che ha iniziato a fare un provvedimento su questo tema. È la manifestazione di uno dei drammi che stiamo vivendo, quella che io chiamo la deriva dell’incuria, che è il contrario del sistema del welfare. La deriva dell’incuria è quando uno pensa che il sistema welfare non l riguarda. Il welfare interroga tutti noi, innanzitutto perché può capitare a tutti di aver bisogno. La seconda questione è che la risposta che viene data alla persona che hai davanti, che è un portatore di bisogno, riguarda il rapporto che hai tu con la civiltà, con la società, con l’umanità, con il tuo stesso essere un uomo di questo tempo. Allora è molto importante evitare che ci siano le due derive che questa cultura dell’incuria ci sta portando. Da un lato, se c’è un problema è sempre qualcun altro che deve rispondere. C’è un problema sociale? Risponde il Comune, risponde la ASL. la Provincia, la Regione, lo Stato; se non è lo Stato, deve farlo l’Unione Europea, se non lo fa l’UE deve farlo qualcun altro. In realtà bisognerebbe cominciare a chiedersi come posso fare io a rispondere al bisogno che vedo, cioè rifarsi la domanda che sta dentro l’idea di un welfare partecipato. L’altra deriva è quella della privatizzazione, che si manifesta in Italia con il sistema delle badanti. Le famiglie sono lasciate da sole a fronte di una necessità e hanno risposto con questa modalità. Noi dobbiamo cercare di fare da questo punto di vista un lavoro importante per riconnettere le dimensioni di welfare, e si fa anche facendo della buona valutazione. Il terzo progetto che ha in cantiere la regione Lombardia è quello che riguarda il tema del contrasto alle povertà estreme. Da moltissimo tempo si discute riguardo al fatto che l’Italia è l’unico Paese europeo che non ha il reddito minimo. Formalmente questo è vero, ma si omette di dire che l’Italia spende 40 miliardi di euro all’anno in interventi di tipo economico che sono frammentati, polverizzati – quelli che lo stesso Presidente dell’INPS dice che vanno a chi non ne ha bisogno. Rimangono escluse tutta una serie di fasce di popolazione sulle quali bisognerebbe intervenire. Si potrebbe cambiare se si fa un po’ di valutazione, interrogando le persone per ripartire dal dato concreto, perché le persone si fidano se vedono i fatti. Noi abbiamo l’ enorme esigenza di restituire fiducia: bisogna far vedere cose concrete che si possono vedere, capire e misurare. Da questo punto di vista, io credo che una spinta molto importante possa arrivare da quello che è il sistema dell’impresa sociale, che non sono solo le cooperative sociali. Nutro molte aspettative in questa direzione perché mi piacerebbe che lo spirito imprenditoriale degli uomini fosse indirizzato verso il progresso legato alla dimensione di voler rispondere a dei bisogni, organizzandosi anche sui profitti, tant’è che si diceva che dell’impresa si misura l’efficienza nella misura in cui produce del profitto. Oggi le imprese sociali ci dimostrano che è possibile realizzare una forma di impresa senza avere neanche la spinta del profitto, ma con il desiderio di rispondere ai bisogni. Se noi riuscissimo a metterci in gioco davvero, a sprigionare il potenziale che c’è nella capacità di fare impresa delle persone, potremmo riformare in maniera molto profonda i sistemi di welfare. E questa possibilità ce l’abbiamo se riusciamo a mettere nella dimensione dei sistemi di welfare la vocazione imprenditoriale dell’organizzare la solidarietà e la sussidiarietà. Io credo che questa sia una delle grandi scommesse che dobbiamo fare. A questo punto, perché abbiamo bisogno di migliorare i nostri sistemi di valutazione? Perché nel sistema del terzo settore abbiamo costruito un approccio di tipo ideologico, perché un’attività che fa il volontariato è buona per definizione. Se è non profit è automaticamente etico e se è etico è anche giusto. Ma non sempre è così, e comunque non dobbiamo accontentarci di questo, dobbiamo riuscire a dimostrare che gli interventi che mettiamo in campo sono effettivamente efficaci ed efficienti. Da un certo punto di vista, sono molto contento che siamo tornati a parlare in Italia della misura dell’impatto sociale; dentro questa riflessione, però, porto anche un dispiacere. Come realtà del terzo settore, abbiamo dovuto aspettare che si interessasse il mondo della finanza, degli investitori per parlare di valutazione. Ma noi dobbiamo fare la valutazione per far vedere che rispondiamo al bisogno delle persone, non per mostrare che mettiamo al sicuro i soldi degli investitori, perché altrimenti rischiamo davvero di perdere il filo del perché noi facciamo alcune cose. Dobbiamo superare – lo diceva anche Monica Poletto nella sua introduzione – questi approcci ideologici. Se tu fai vedere quello che realizzi e lo metti in evidenza, chi valuta solo in termini ideologici non ha più argomenti. C’è un problema di costi. Costa fare sistemi di valutazione, allora potremmo ingaggiare il sistema degli imprenditori che vogliono entrare nel sociale e lavorare insieme e costruire insieme dei sistemi di valutazione. Questo è un primo modo di rispondere all’esigenza di coprire dei costi di valutazione. Bisogna dire e riconoscere che ci sono delle attività di valutazione che costano poco, che si possono fare in maniera molto semplice. Vi riporto il caso della cooperativa di cui sono Presidente, che è una cooperativa sociale di inserimento lavorativo. Spendendo 2500 euro e collaborando con l’università di Brescia, abbiamo realizzato un sistema di valutazione (VALORIS) che misura il valore economico degli inserimenti lavorativi realizzati dalla cooperativa. Il sistema di valutazione cha abbiamo costruito si basa su questa formula. Utente per utente vengono inseriti il valore del lavoro che realizza la persona, quindi quanta IVA genera, le tassazioni che vengono realizzate e tutto quello che è il valore economico realizzato; abbiamo sottratto i benefici fiscali di cui gode la cooperativa, perché ovviamente è una cooperativa sociale e gode di alcuni privilegi fiscali. Nel 2014 questa cooperativa ha inserito al lavoro centodue persone: ventisei disabili, sei pazienti psichiatrici, tredici persone in alternativa al carcere, ventidue con problemi di dipendenze e trentacinque persone segnalate da terzi. Con questo sistema, abbiamo stimato che il valore economico che è andato a beneficio della pubblica amministrazione è pari a duecentoquattordici mila euro in un anno. Una cooperativa sociale che realizza obiettivi economici importanti, di occupazione, e realizza benefici, consente alla pubblica amministrazione di non essere attaccata ideologicamente da chi pensa che il Governo Formigoni abbia avvantaggiato le cooperative. Ci sono dei motivi che si possono dimostrare. Continuo a dire che tutte le cooperative sociali di inserimento lavorativo dovrebbero applicare questo metodo, perché costa poco e dà risultati molto interessanti. L’ultimo dato: dove sono andati i duecentoquattordici mila euro che abbiamo generato? Il 36% ai comuni, il 16% a favore della regione Lombardia, il 48% a favore dello Stato. Ovviamente questi dati oscillano in funzione della tipologia di persona che viene inserita al lavoro. Noi abbiamo una risultanza così alta in favore dello Stato perché lavorando molto con gli inserimenti lavorativi che arrivano dal carcere è chiaro che il beneficio economico va più nelle casse dello stato che su quelle delle regioni. Questo è la dimostrazione di come con pochi euro si può costruire un sistema di valutazione. Non è vero che è impossibile valutare. È possibile fare una misura della valutazione e la valutazione non è una condanna, come qualcuno teme, ma è una valorizzazione di quello che si fa, cioè dare valore poi infondo alle persone. Grazie

MONICA POLETTO:
Grazie. Presidente Maroni, ci sono stati tanti spunti e le chiediamo di raccoglierli.

ROBERTO MARONI:
Buonasera a tutti e grazie dell’invito. Devo dire che dopo l’elogio della Lombardia che ha fatto Vittadini potrei limitarmi a dire che sono d’accordo e chiudere così il mio intervento. Voglio dire tre cose. La prima. Ci stiamo occupando del sistema di welfare perché serve, perché ci sono tanti lombardi in difficoltà, giovani, anziani, disabili, famiglie. L’attenzione ai bisogni, a chi ha bisogno, è prioritaria per noi. Bisogna capire come intervenire e noi l’abbiamo fatto seguendo le indicazioni che ho sentito a questo tavolo, e affermando tre principi. Il principio della centralità della persona, che vuol dire libertà di scelta per la persona, nella sanità, nella scuola, nell’educazione, in tutti i settori pubblici. Nella scuola in particolare, tradizione della regione Lombardia, con misure importanti come la dote scuola. Quest’anno prevediamo ventottomila beneficiari, mettendo a disposizione ventisette milioni di euro e aumentando il contributo medio. Io sono convinto di questo intervento, perché voglio che le famiglie possano scegliere liberamente dove mandare i propri figli, in quale scuola, in quella pubblica o in quella che viene definita un po’ spregiativamente scuola privata. Sono scuole paritarie che svolgono una funzione pubblica a costi inferiori rispetto a quelli della scuola pubblica; questa è la verità – e lo dice uno che ha fatto la scuola pubblica e ha mandato i suoi figli alla scuola pubblica. La funzione che svolge il sistema delle scuole paritarie in Lombardia è fondamentale perché senza questa struttura la scuola pubblica non potrebbe dare livelli di istruzione a tutti i giovani lombardi. Libertà di scelta che nella sanità significa scegliere dove farsi curare, se nel piccolo ospedale di Cuasso al monte oppure al Niguarda, all’Humanitas o al San Raffaele. Devo poter scegliere io senza che questo per me comporti maggiori costi, perché se no subordiniamo il diritto alla salute al censo e al reddito delle persone e delle famiglie. Questo non va bene. La regione si fa carico della differenza. Terzo punto: valutazione dei risultati, su cui si è espresso e si è parlato molto. È fondamentale. Nella riforma della sanità che abbiamo approvato e che adesso illustro molto rapidamente la valutazione è presente come un punto centrale. Valutazione dei risultati significa migliore informazione dei cittadini. Prima Vittadini ha parlato della customer satisfaction, ed è un aspetto che abbiamo introdotto proprio nella legge. È un punto delicato, perché la soddisfazione di chi va in un ospedale può essere valutata in modo diverso. Voglio evitare di usare questo strumento in modo non scientifico, perché voglio una valutazione oggettiva e non soggettiva. È un punto delicato ma voglio che i cittadini siano informati, perché la scelta deve essere una scelta informata. Il sistema di valutazione dei risultati serve a me, per organizzare meglio il servizio e per premiare il merito. Chi fa le stesse cose a costi inferiori deve essere premiato e quel modello deve essere esteso perché è una best practice, è il sistema dei costi standard. È il sistema dei costi standard che nella sanità deve essere esteso a tutte le regioni, altrimenti continueranno i tagli orizzontali e saranno penalizzate le regioni virtuose. Non lo dico io, lo dice una ricerca di Confcommercio. La ricerca di Confcommercio presentata a luglio dice che ci sarebbe un risparmio di ventitré miliardi se l’Italia fosse la Lombardia. Questo succede non perché siamo dei geni, ma perché siamo attenti ai conti. La corte dei conti ha valutato i conti della regione Lombardia e si è congratulata con noi per come spendiamo i soldi pubblici. Perché noi riusciamo a spendere meno offrendo servizi di eccellenza e le altre regioni no? Se il Governo applicasse davvero il regime dei costi standard prendendo le eccellenze dove ci sono, in Lombardia, in Veneto, in Emilia, in Sicilia se ce ne sono, e obbligando tutte le regioni a utilizzarli, risparmieremmo ventitré miliardi. Se pensate che tutta l’Irap pagata in regione Lombardia ammonta a otto miliardi, e tutti i ticket pagati in regione Lombardia a cinquecento milioni, applicando i costi standard noi potremmo azzerare i ticket in tutte le regioni d’Italia. Abbiamo fatto la riforma della sanità. Io l’ho chiamata Evoluzione del sistema sociosanitario, perché “riforma” mi dava l’idea di un sistema che non funzionava. Ho voluto fare l’evoluzione del sistema per confermare il principio di libera scelta ed evolvere il sistema. Dal curare il malato a prendersi cura del malato. Che cosa vuol dire? Vuol dire tener presente l’evoluzione della società nei prossimi vent’anni. Aumenteranno le persone anziane, stimiamo fra vent’anni di avere oltre un milione e mezzo di ultra ottantacinquenni. Gente che non avrà bisogno spesso di andare in ospedale, ma avrà bisogno di essere assistita a casa. Dal curare il malato a prendersi cura del malato è il principio che ci ha convinto a mettere insieme sanità e sociosanitario, sia dentro la regione, la cabina di regia, che sul territorio. Gli ospedali diventeranno centrali non solo per le operazioni chirurgiche ma anche per il dopo, per la degenza, per la riabilitazione. Oggi i nostri ospedali hanno come indicazione di tenere i malati il minor tempo possibile, perché ogni giorno che passi in ospedale sono costi altissimi. Succede però che poi il malato accompagnato fuori deve fare la convalescenza e la riabilitazione e non sa dove andare. Io voglio che la sanità lombarda si occupi della salute fino a che il malato guarisce completamente, e non solo quando esce dall’ospedale. Questo significa maggiori costi? No. Significa un cambio culturale. Questa è la difficoltà vera che vedo nell’attuazione della nostra riforma. Convincere chi è abituato oggi a comportarsi in un certo modo a cambiare, ad occuparsi anche di altre cose.
Sono convinto che la riforma è una cosa giusta, una migliore integrazione tra sanità e sociale. L’ospedale dovrà occuparsi anche di gestire sul territorio il malato nei luoghi di riabilitazione, pubblici o privati che siano. Nasce a Milano il Polo del bambino, un’altra cosa importante. Aumentiamo i controlli e la valutazione. Aumentare i controlli vuol dire che io regione voglio essere valutata e controllata. Abbiamo creato un’agenzia di controllo che non dipende dal Presidente. Ho interesse ad essere valutato per correggere gli errori, non ho amici da soddisfare a cui dare risorse pubbliche, né pubblici né privati. Ho qualche problema con gli interisti, ma per il resto va bene chiunque. Voglio esser valutato e quindi questa agenzia indipendente che creiamo entro fine anno voglio che sia un’agenzia fatta di persone che ne capiscono, come i tre che sono qui a questo tavolo. Da Vittadini in poi mi è sembrato di sentire cose che sono condivisibili e coerenti con il mio disegno. Sistema di valutazione, aumento dei controlli, riduzione dei costi. Ma come? Alcuni esempi. Noi adesso in Lombardia abbiamo quarantasei stazioni appaltanti nella sanità, quarantasei luoghi che fanno gli appalti. Li convoglieremo nell’Arca, Agenzia Regionale Centrale Acquisti: un’unica centrale acquisti regionale, che ci permetterà di fare economia di scala senza ridurre i servizi, risparmiando – abbiamo stimato – quattrocento milioni di euro. Siccome siamo una regione virtuosa che non ha bisogno di colpire i buchi, questi quattrocento milioni di euro non li portiamo a riduzione del debito, ma li lasciamo nel sistema sociosanitario, per esempio per ridurre i ticket per chi ne ha davvero bisogno. Questa è la riforma della sanità, passo 1. Il passo 2 è il sociale. Abbiamo, come ho detto, capacità finanziarie che altre regioni si sognano e lo dico sapendo che non è tutto merito mio. Ho avuto in eredità dei conti ben gestiti che ho messo a frutto, e questo ci ha consentito di trovare nel bilancio della regione senza indebitarci duecentocinquanta milioni di euro che abbiamo messo, a luglio con la legge di assestamento di bilancio – in un fondo per finanziare quello che io chiamo “reddito di autonomia”, “reddito di cittadinanza”, “reddito di inclusione sociale”, chiamiamolo come vogliamo. Sono duecentocinquanta milioni di euro disponibili da ottobre di quest’anno fino a dicembre del 2016 per finanziare queste politiche. A questo si aggiungono altre risorse del fondo sociale europeo, una misura che va da quest’anno fino al 2020 finanziata dalla Commissione europea. Alla regione Lombardia sono arrivati ben 970milioni di euro, il 60% in più rispetto alla programmazione precedente. Siamo stati premiati perché i soldi europei, le risorse europee le spendiamo bene. I soldi io voglio spenderli per queste finalità. Questo è l’esercizio che noi dobbiamo fare, perché voglio essere anticipatore del nuovo modello di welfare nazionale. Il modello di welfare lombardo è quello con la famiglia al centro, la persona al centro. Tutto il resto è al servizio della persona e della famiglia, e non il contrario. Come fare? Primo: gli assi di intervento. Come spendere questi soldi? La cosa fondamentale da fare è passare dalle politiche passive alle politiche attive – questa è stata la mia esperienza di ex-Ministro del welfare. Il reddito di autonomia non è una cosa leghista; autonomia e federalismo significa rendere autonomo dallo stato di bisogno chi versa nello stato di bisogno. Quindi cinque assi. Politiche attive del lavoro – la prima è più importante; politiche dell’istruzione, della formazione, diritto allo studio, accompagnamento al lavoro. Ho voluto dare allo stesso assessore la delega all’istruzione e al lavoro proprio per garantire il collegamento a questi due mondi che spesso sono troppo separati.
Secondo asse: politiche di inclusione sociale, per chi non può essere intercettato dalle politiche attive del lavoro. Ad un sessantenne posso fare i corsi di formazione professionale? No. Devo fare qualche altra cosa, coinvolgerlo per esempio nel volontariato. Terzo asse: politiche abitative. Una componente specifica di quella sociale. Quarto: politiche di compartecipazione alla spesa sanitaria, ticket e liste d’attesa. Quinto: misure di contrasto alla povertà alimentare. Questi sono i cinque assi. Non è una decisione già presa, abbiamo tempo fino a metà settembre per definire nel dettaglio. Qualunque contributo è benvenuto perché dobbiamo spendere bene i soldi dei cittadini lombardi, e devono essere spesi bene per i cittadini lombardi. Secondo filone di intervento. I soldi sono della regione ma non voglio essere direttamente io a gestirli. Ho il compito di programmare, di finanziare le politiche, ma in regione Lombardia abbiamo la fortuna di avere un mondo che si occupa di questi temi con grande efficienza e con grande efficacia, che è il mondo del volontariato, del non profit e dell’associazionismo. Siamo la regione che ha il maggior numero di associazioni: nel registro regionale sono iscritte 7734 associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni senza scopo di lucro, associazioni di solidarietà familiare, centri di aiuto alla vita. 7734 soggetti che coinvolgono decine, centinaia di migliaia di volontari. Questi sono i soggetti a cui io voglio indirizzare le risorse perché gestiscano loro l’intervento diretto, secondo criteri ben chiari basati sull’efficienza e sulla valutazione. Voglio coinvolgere il mondo del terzo settore, del volontariato perché sono quelli che sanno penetrare nella società e che sanno coinvolgere, e conoscono bene tutti i luoghi della regione. Partiremo, spero già da ottobre, con i primi bandi. Dobbiamo definirli nel dettaglio, ma l’indirizzo che io voglio prendere è quello di coinvolgere questo mondo che è molto forte, molto diffuso in regione Lombardia, e che svolge una funzione pubblica che io voglio valorizzare. Mi auguro che la proposta di legge del Governo sulla riforma del volontariato non faccia danni, perché se si fa un unico grande registro nazionale come ipotizzato, rischio di perdere tutto il valore che ho. Quante di queste 7734 associazioni che sono riconosciute dalla regione Lombardia e iscritte nel nostro albo, saranno iscritte a quello nazionale, e soprattutto quanto tempo ci vorrà. Io mi auguro che chi ci rappresenta nel parlamento a Roma valuti con attenzione, mi auguro che il Governo valuti con attenzione una riforma che non deve distruggere i sistemi che già ci sono. Concludo. L’88% dei cittadini lombardi sono favorevoli al reddito di autonomia, non gli abbiamo ancora spiegato bene che cos’è ma l’idea che venga dato un contributo, un aiuto, a chi ha bisogno è una cosa condivisa. Questo aumenta la nostra responsabilità, la responsabilità di chi come me, come il Governo della regione, mette a disposizione le risorse e aumenta le responsabilità dei soggetti che saranno chiamati a gestire queste risorse. Sono soldi pubblici e non dobbiamo deludere i cittadini lombardi e certamente non lo faremo. Grazie.

MONICA POLETTO:
Chiudiamo ringraziando i nostri quattro relatori. Mentre parlavano, mi è venuto in mente che stasera abbiamo avuto una testimonianza di una cosa che ci ha detto nel suo saluto inaugurale il Presidente della Repubblica: “L’ideale personalista è una grande aspirazione dell’uomo moderno che trova nelle formazioni sociali e nei corpi intermedi il suo pieno compimento. È un impegno di popolo al quale ciascuno è chiamato a contribuire nel pluralismo delle convinzioni e delle culture, tutti ne trarremo beneficio, a partire dalle istituzioni della politica”. Grazie ancora a tutti. Proprio perché abbiamo parlato di welfare e di non profit, la Fondazione Meeting per l’amicizia tra i popoli è una fondazione senza scopo di lucro che ha bisogno anche dei nostri contributi. Vi ricordo così la campagna di fundraising che è stata lanciata in tante occasioni e che in fiera ci sono molti punti in cui si può donare. Grazie.

Data

23 Agosto 2015

Ora

19:00

Edizione

2015

Luogo

Sala eni B1
Categoria
Incontri